Abbiamo già fatto una chiacchierata un paio d’anni fa (Una città, n. 239), nell’anno in cui tuo figlio avrebbe affrontato l’esame di maturità. Possiamo rifare il punto della situazione anche alla luce della legge sul “Dopo di noi”?
Ci eravamo lasciati nel momento della “transizione all’età adulta”, come si dice nel nostro gergo. Ecco, spesso, specialmente nel caso dell’autismo, ma in generale per la disabilità adulta, genitori e associazioni parlano di questa fase come dell’entrata in un “deserto”, perché non c’è niente. Al compimento dei 18 anni c’è un passaggio di consegne dalla neuropsichiatria infantile al comparto sociosanitario. Non si parla più di riabilitazione, bensì di terapia occupazionale, di centri diurni e così via. È come se la stessa amministrazione burocratica sancisse che non ci sono grosse aspettative rispetto all’età adulta.
Finalmente, la legge 112 del giugno 2016, definita del “Dopo di noi”, elaborata grazie al contributo delle associazioni storiche dei familiari di persone con disabilità, comincia a occuparsi del futuro dei nostri figli, parlando in realtà del “durante”. Perché è evidente che qualunque progettualità va preparata “durante noi”.
Questo provvedimento è importante per tanti motivi. Intanto perché si inserisce in un contesto in cui si va da un’idea di prestazione a un soggetto passivo che ha bisogno di assistenza o di servizi, cioè di prestazioni socio-sanitarie, sempre più verso un discorso di personalizzazione, anche nel senso di promuovere l’autodeterminazione della persona con disabilità. Parliamo inoltre di una proposta integrata tra gli enti che sono sul territorio, quindi il Comune con i servizi sociali, ma anche la Regione con il sistema delle Asl e infine il terzo settore e la famiglia.
Le azioni previste da questa legge sono essenzialmente cinque e vanno da percorsi programmati per l’uscita dal nucleo familiare o la deistituzionalizzazione al supporto alla domiciliarità, anche con fondi dedicati; se la famiglia ha una casa, la si prepara dotandola di una serie di supporti, sia tecnologici che di personale. Una terza azione, forse la più interessante, riguarda l’accrescimento della consapevolezza, l’abilitazione, diremmo, alla vita autonoma o quanto più autonoma possibile. La quarta azione riguarda la realizzazione di soluzioni alloggiative innovative, in particolare il co-housing: ci si organizza tra famiglie, magari chi può mette a disposizione un bene immobile e quindi si prova a dare sostegno a questa nuova famiglia del futuro. Infine si parla anche di interventi temporanei con soluzioni abitative extra familiari, per un momento di crisi, di malattia del genitore anziano. Questo è l’impianto.
Un ulteriore aspetto riguarda la costituzione di un trust, cioè dell’affidamento fiduciario di un proprio bene a una persona che garantisca il vincolo di destinazione: per esempio io posso affidare a un terzo un immobile vincolato al fatto che mio figlio, anche quando non ci sarò più, possa condurre una vita dignitosa nella sua casa.
Cosa vuol dire in concreto progettare un “dopo di noi”?
È il prerequisito fondamentale: significa pensare a questi giovani uomini e giovani donne in un contesto di futuro. Fare un progetto di vita.
Qui dobbiamo tenere presente la condizione emotiva o del giovane con disabilità e insieme di noi genitori nel momento in cui, allo scattare della maggiore età, vengono meno tutti i contesti di socializzazione e di supporto che c’erano prima, tutti i riferimenti che erano ormai familiari: la scuola, i terapisti… è anche un momento di grande sgomento e disorientamento. Emergono tutte le angosce, le paure per il futuro perché non si tratta solo di un passaggio anagrafico: in questa fase per il ragazzo con disabilità aumenta l’isolamento mentre la maggior parte dei genitori guarda i figli rendendosi conto che non sono più dei bambini. Insomma, è una fase in cui siamo costretti a fare un po’ i conti con noi stessi e con le nostre preoccupazioni. Ecco, questa legge è importante perché ha rappresentato anche l’occasione per provare a sottrarci dall’angoscia e dalla disperazione che ci attanaglia davanti al futuro. Alla fine, qualsiasi discorso sul “dopo di noi” troppo spesso si riduce esclusivamente alla domanda: quando morirò, chi penserà a mio figlio?
Non di rado ho sentito dire da alcuni genitori: “Spero che muoia prima mio figlio, perché se no morirò disperato”. Sono pensieri paradossali. Fino ad ...[continua]
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