Fare bene le cose semplici
problemi di scuola
Una Città n° 283 / 2022 aprile
Intervista a Claudio Giunta
Realizzata da Iacopo Gardelli
FARE BENE LE COSE SEMPLICI
Il rischio che nella scuola, invece di spiegare che le cose sono complesse, ambigue, si scelga la via della “sensibilizzazione” alle buone cause, secondo una specie di catechismo civile; l’importanza della libertà di discutere su tutto, anche, per esempio, se si può essere fascisti; un linguaggio, quello delle leggi, ridondante, complicato, una lingua italiana “colta“ nella sua accezione peggiore; l’insegnamento di Guido Calogero. Intervista a Claudio Giunta.
Claudio Giunta (Torino, 1971) insegna letteratura italiana all’Università di Trento. È autore di due manuali di letteratura per il triennio delle superiori e collabora regolarmente con “Il Sole 24 Ore”, “Il Foglio”, “Il Post”. Fra i suoi libri più recenti: E se non fosse la buona battaglia? Sul futuro dell’istruzione umanistica (Il Mulino, 2017), Come non scrivere (Utet, 2018), Le alternative non esistono. La vita e le opere di Tommaso Labranca (il Mulino, 2020) e “Ma se io volessi diventare una fascista intelligente”? L’educazione civica, la scuola, l’Italia (Rizzoli, 2021).
Nel tuo ultimo libro hai scelto un tema abbastanza poco esplorato. Già il sottotitolo allarga il campo: “l’educazione civica, la scuola, l’Italia”. Il tema può sembrare noioso, vero; ma si parte da un problema scolastico per parlare di un problema del Paese. È avvenuto, secondo te, un progressivo slittamento dall’educazione critica verso la sensibilizzazione. Cosa si intende con questa espressione? Come mai abbiamo così tanto bisogno di sensibilizzare piuttosto che di istruire?
Sensibilizzare è più facile. Invece di spiegare le cose in maniera sfumata, mostrare che sono sempre ancipiti, ambigue -persino le cose che riteniamo più sacre, come la Costituzione, o la democrazia- è molto difficile, richiede tempo e competenze che spesso i professori non hanno, anche se per comodità si finge che le abbiano. Perciò si sensibilizza, si mobilita, si arruola nella battaglia per le buone cause, si catechizzano gli studenti in nome di valori sui quali si giura in maniera irriflessa. Da ciò deriva anche quel “presentismo” sul quale molti hanno scritto. Riflettere su questioni che non riguardano direttamente la contemporaneità, il qui e ora, sembra tempo perso: il mondo è pieno di eventi e problemi che sembrano richiedere il nostro giudizio, il nostro intervento, e la scuola viene ineluttabilmente risucchiata in questo vortice. Io penso invece che un’educazione critica debba essere innanzitutto un’educazione storica, che -poniamo- prima di “difendere la Costituzione”, anzi che al posto di “difendere la Costituzione” occorra conoscere la storia delle costituzioni nel mondo occidentale, da quella americana in giù. L’altra strada è appunto l’applicazione al presente, la sensibilizzazione sui temi del giorno, nei casi peggiori la predica.
Nel libro racconti lo spunto che ha dato il via alla tua riflessione: una ragazza, alla fine di un incontro in un liceo milanese ti ha chiesto: “Ma se io volessi diventare una fascista intelligente, perché lo Stato e la scuola dovrebbero impedirmelo?”, venendo immediatamente zittita dal suo professore. Il libro parte da lì o sei arrivato all’argomento in modo diverso?
Scrivo di scuola da molto tempo. Insegno all’università e faccio ogni anno un corso per i ragazzi del primo anno, quindi mi pongo spesso il problema della loro formazione, cioè di ciò che sanno o non sanno. Ho anche scritto dei manuali scolastici, e ho dovuto pensare bene a cosa metterci dentro; e naturalmente ho finito per dover riflettere sulla scuola, la scuola superiore in particolare.
È un argomento, lo ripeto, piuttosto noioso, ma è chiaro che è importante: corrisponde a un tratto di vita che tutti quanti percorriamo, ed è l’unica esperienza che unisca davvero cittadini di ogni indole ed estrazione. Il libro nasce da un articolo che avevo scritto per la rivista del Mulino, che s’intitolava “La fascista intelligente e l’educazione civica” (un titolo forse più felice di quello che alla fine l’editore ha scelto). Mi sembrava che questo aneddoto aiutasse a mettere a fuoco una serie di problemi e di occasioni perse dell’istruzione scolastica. In breve: insegnanti assiomatici contro studenti un po’ naïf ma problematici e interessanti. L’articolo è piaciuto a un amico editor di Rizzoli che mi ha chiesto un libretto: così ho ampliato la riflessione e aggiunto anche il capitolo finale sul Guido Calogero.
Ho intervistato poco tempo fa Paola Mastrocola sul suo ultimo libro Il danno scolastico. In quel libro Luca Ricolfi, co-autore, racconta della sua esperienza come insegnante universitario e registra una progressiva diminuzione del livello didattico dei ragazzi del primo anno. Tu hai visto un peggioramento nella scolarizzazione delle nuove generazioni?
Credo che, per motivi anagrafici, la loro esperienza sia diversa dalla mia. Ho iniziato a insegnare all’università nel 2002; loro hanno assistito al passaggio segnato dalla riforma Berlinguer, e credo che quella sia stata una soglia decisiva. Penso che alla base del peggioramento di cui parlano Ricolfi e Mastrocola ci sia una questione meramente numerica: negli anni Cinquanta i licei erano frequentati da una frazione della popolazione più abbiente: è inevitabile che la qualità degli studenti fosse più alta. In un regime di licealizzazione di massa è altrettanto inevitabile che si registri un certo calo nella qualità media degli studenti. In più, c’è da tenere conto del fatto che io insegno in una facoltà umanistica, che tende spesso ad attirare studenti con una preparazione più incerta e una vocazione più debole. La gran parte dei ragazzi che s’iscrive a Lettere oggi, per esempio, non sa il latino o la sa molto male: e questo è certamente un problema se si mira a dare e a ottenere una formazione umanistica solida. Quello che noto -e su questo credo che abbia ragione Ricolfi- è che molti ragazzi non sono semplicemente ignoranti ma, prima ancora, poco attrezzati per lo studio: ragazzi a cui nessuno ha mai insegnato veramente i rudimenti della cultura o anche solo le regole elementari della vita associata: come comportarsi, come parlare, e poi cos’è una biblioteca, come si scrive un’email… La scuola non gli ha mai insegnato a “fare bene le cose semplici”, come diceva Contini.
Poi c’è un numero ristretto di ragazzi molto bravi, un po’ com’ero io alla loro età. Forse meno colti di me, il me di allora, perché è chiaro che oggi devono combattere con mille altre distrazioni, e non stanno a leggere tutto il pomeriggio libri come facevo io. Ma sanno altre cose: parlano l’inglese meglio di come lo parlavo io alla loro età, hanno viaggiato di più, hanno un’esperienza di vita più varia ed estesa. Insomma: mi pare ci sia un’alta percentuale di studenti che ha, sì, una preparazione culturale fragilissima, ma a cui non mancano altri atout; un certo numero di studenti di media levatura; e alcuni (non molti) molto bravi. Ma non potrei dire che nei miei vent’anni di insegnamento all’università la qualità sia calata in modo vistoso. È cambiata, come sono cambiati i tempi. E forse i bravi che un tempo si indirizzavano alle discipline umanistiche oggi vanno a fare altro.
Uno dei capitoli più divertenti del tuo saggio è l’excursus sul linguaggio legislativo, intitolato “La complicazione di tutte le cose”. Leggendolo si tocca con mano il progressivo e inquietante scadere della qualità linguistica delle leggi sulla scuola. Cos’è successo secondo te in questi ultimi trent’anni?
In realtà si è sempre scritto male. L’italiano è una lingua ostica; fino a qualche generazione fa era quasi una lingua straniera, perché si nasceva e si cresceva in mezzo ai dialetti. Perciò quando si scrive si esagera col formalismo: chi ha poca confidenza con l’italiano scritto dissimula, si traveste, infarcendo il suo discorso di paroloni, di formule reboanti ma assurde, incomprensibili. Questo, dicevo, è sempre successo. Dagli anni Settanta, poi, a questa tendenza allo scrivere male, in maniera involuta e arabescata, si è sommato il gergo maldigerito delle scienze sociali: il gergo dei pedagogisti, dei sociologi, dei semiologi, dei teorici di qualsiasi aspetto dell’esistenza. Ignoranza e gerghi producono queste leggi. Giorni fa mi è capitato di sfogliare un numero della Gazzetta Ufficiale -c’era una legge che m’interessava- e mi sono reso conto che, per quanto tornassi più e più volte sullo stesso periodo, non riuscivo a capire cosa diceva. Cittadino italiano adulto, addottorato in Letteratura, sette anni di scuola Normale, io non capisco le leggi del mio Paese. Per colpa loro, non mia. Da un lato, come dicevo, c’è spesso da parte di chi scrive la vera e propria ignoranza della grammatica: interdisciplinarietà, poniamo, invece di interdisciplinarità. Dall’altro, c’è la tendenza a complicare cose che sarebbero semplici se solo si riuscisse a tradurre il proprio pensiero nelle parole che servono a esprimerlo, e soltanto in quelle. Non sono ottimista, mi pare anzi che non ci sia niente da fare. Anche gli insegnanti, che dovrebbero formare i futuri scriventi, sono vittime di questo equivoco penoso: lo scrivere lambiccato -l’antilingua di cui diceva Calvino- viene spesso scambiato per lo “scrivere bene”. Un po’ per scherzo un po’ sul serio ho proposto tempo fa l’abolizione dell’italiano scritto e il passaggio all’inglese, che almeno -come diceva Salvemini- è una lingua più onesta.
La vacuità delle nuove leggi è in buona fede oppure no?
Ma sono tutti in buona fede. È chiaro che questi legislatori credono di dover scrivere in questo modo perché incarnano la voce dello Stato, e lo Stato -pensano- deve parlare così, in maniera sostenuta, solenne, coi paroloni e non con le parolette. Tempo fa ho pubblicato su “Internazionale” un articolo dal titolo “La lingua disonesta. Come scrivono al Ministero dell’Istruzione”. Era l’analisi di una circolare ministeriale. C’era da dire una cosa molto semplice: occorreva reclutare un certo numero di insegnanti per farne dei formatori. Lunghezza del documento: otto pagine. Perché ci vuole il preambolo, perché bisogna contemplare tutte le variabili possibili, dare a tutti il titolo a cui hanno diritto, salutare il ministro, il sottosegretario, il sovrintendente, in una selva di sigle incomprensibili… E perché le scuole non vengono chiamate scuole ma istituzioni scolastiche, gli insegnanti sono il personale docente, e via dicendo. Il linguaggio -come diceva Gassman in “In nome del popolo italiano”- dev’essere desemplicizzato. Poi certo, qualcuno lo farà anche apposta, qualcuno scriverà in modo ambiguo, oscuro, per garantirsi una rendita di posizione, per poter speculare su questa zona grigia. Ma non credo che il dolo sia molto esteso: credo che ci sia una generale incapacità di dire le cose in maniera chiara e -dove l’incapacità lo permette- una tendenziale preferenza per le espressioni complicate, perché la complicazione dignifica, nobilita. La parola che qualifica questo atteggiamento c’è, quindi possiamo anche usarla: è snobismo, la malattia dei poveri che vogliono sembrare ricchi.
Scrivi che c’è sempre più sfiducia nelle materie scolastiche classiche. Non crediamo più che insegnare bene italiano, storia, filosofia, matematica sia già fare educazione civica. Perché succede questo? Perché sviliamo le materie?
Perché crediamo che abbiano poca aderenza alla vita quotidiana, alla vita che vediamo attorno a noi. Avevamo un set di discipline scolastiche che potevano sembrare in sintonia con il mondo fino a qualche decennio fa. Oggi, a torto o a ragione, le consideriamo obsolete. Meglio avere dieci in inglese o dieci in italiano? Meglio cavarsela bene con il coding o con il greco antico? Sospetto che molti genitori, anche illuminati, sceglierebbero il primo corno delle due alternative, non il secondo. Da un lato è una percezione anche corretta, perché le discipline tradizionali, specie quelle umanistiche, hanno un contatto molto labile con la vita quotidiana, e perché l’Italia privilegia una formazione scolastica molto tradizionale, che guarda con sospetto per esempio all’istruzione pratica, che venera le lingue morte, l’astrazione dei concetti (quanta filosofia fatta male, nei licei italiani, quante parole in libertà, quanti concetti che tutti -insegnanti compresi- fanno finta di capire!). Ed è chiaro che in un colloquio di lavoro non ti chiederanno di spiegare la perifrastica passiva o di parlare della Guerra del Peloponneso di Tucidide. Però è anche vero che una formazione culturale decente fa di te una persona molto più capace di imparare rispetto a chi quella formazione non la possiede.
A me pare che una buona formazione scolastica, senza eccessive compromissioni col mondo, possa essere il viatico per un’eccellente carriera in qualsiasi campo, e soprattutto -perché non dirlo- a una vita più piena di significato. L’ordinaria amministrazione, insomma, il vecchio e grigio programma, con correzioni e addizioni, certamente, ma senza stravolgimenti. Voglio dire, alla fine la scuola è un’ottima idea, non c’è bisogno di inventarsi cose troppo diverse…
Cercando di articolare una risposta alla provocazione della ragazza, citi Guido Calogero: “Un’educazione condotta in base a certi orientamenti dottrinali presupposti come indiscussi crea uomini moralmente e civicamente meno solidi di un’educazione la quale non presupponga alcun tabù”. Leggendo questo passaggio mi è venuto in mente Popper, che diceva che era necessario essere intolleranti con gli intolleranti -quindi anche con i giovani fascisti. Che ne pensi?
È la vecchia questione della democrazia protetta. Che fare contro gli intolleranti? La tolleranza dev’essere estesa anche a loro? Come fa una democrazia a proteggersi contro i suoi nemici interni? È un problema delicato, da affrontare caso per caso. Ma io direi che a scuola quasi tutto dev’essere lecito. Stiamo parlando di adolescenti in formazione che esprimono delle idee, quasi sempre rozze e superficiali; ma per renderle meno rozze e superficiali non c’è altra strada che articolarle in pubblico, cioè davanti alla classe, in una conversazione che -sotto la guida dell’insegnante- sia la più ampia e libera possibile.
Non credo affatto, attenzione, che la conversazione, il dibattito debba prendere il posto della lezione. Ma se una studentessa-com’è il caso della aspirante “fascista intelligente”- pone una questione del tutto sensata, per quanto spigolosa, l’insegnante è tenuto a rispondere con pazienza, senza estremizzare i contrasti. Sono ragazzi che hanno tra i sedici e i diciannove anni, che procedono a tentoni, anche provocando, offendendo, per capire quali sono i confini entro i quali possono muoversi. Per questo la libertà, in classe, dev’essere grande, grandissima. E per questo mi è dispiaciuta molto la reazione di quell’insegnante che ha zittito la ragazza: mi pare corrisponda a un certo moralismo, a un certo habitus predicatorio che ho l’impressione si sia rafforzato ed esteso negli ultimi decenni, sia all’interno della scuola sia al di fuori -nei media, nella letteratura, nel cinema.
C’è una frase molto acuta di Calogero che riporti nel libro: la scuola pre-fascista è più grave di quella fascista, perché prepara una classe di uomini e donne che non sono in grado di riconoscere il fascismo quando arriva, e perciò lo rende possibile. Una scuola senza tabù, che accoglie al modo liberale qualsiasi posizione, non rischia di formare uomini amorfi, relativisti, troppo deboli? Appunto, non si trasforma in quella scuola pre-fascista di cui parla Calogero?
Certo che sì, figurati. Non sono affatto favorevole alla scuola della discussione continua e -nel libro lo dico- non credo di essere del tutto d’accordo con Calogero. Infatti uso Cesare Cases come contraddittore, illustro le sue ragioni e ne riconosco la validità: la scuola non dev’essere una specie di assemblea permanente. Cases -siamo a metà degli anni Cinquanta- ha una visione conservatrice della scuola che in parte condivido. Ci sono, constata, discipline nelle quali la discussione è inutile. Latino, greco, italiano, matematica...
Se però (è questo il tema del mio libretto) si crea uno spazio per l’educazione civica -che è una disciplina che ha natura diversa rispetto a quelle che ho appena citato- nasce anche il problema di come riempirlo. E se lo si riempie con delle prediche, o con la miriade di nozioni evocate dalla legge del 2019 (dall’educazione ambientale a quella digitale, dalla Costituzione all’Agenda 2030), non si fa un buon servizio agli studenti. Né lo si fa se si impedisce agli studenti -anche ai più sfacciati- di parlare di argomenti relativi alla vita associata che stanno loro a cuore (come, evidentemente, la questione “Ma se io volessi diventare una fascista intelligente, perché lo Stato e la scuola dovrebbero impedirmelo?”).
Bisognerebbe studiare poche cose, invece (per esempio anche solo un’informazione generale sulla storia delle costituzioni, sulla nostra Costituzione e sulla forma del nostro Stato: e basta), e concedere spazio libero alla discussione tra studenti e insegnanti, partendo però da un libro di testo ben scritto, cioè a sua volta problematico e non votato alla sensibilizzazione, alla mobilitazione, al catechismo.
Fare una buona scuola è già fare educazione civica?
Direi di sì. Mi pare che stiamo cercando di surrogare quello che non riusciamo più a dare -una buona scuola, con buoni libri e buoni insegnanti- con materie nuove (o materie vecchie riattate, diciamo) e sollecitazioni che finiscono per essere dispersive. Una buona scuola sarebbe sufficiente. Il curriculum tradizionale, se fatto bene, è sufficiente. Se si vuole aggiungere una pillola di civismo si può fare, precisando molto bene i confini: un po’ di Costituzione, come ho detto; un po’ di diritto privato, qualche nozione relativa alla macchina dello Stato, e poco altro. Questo almeno è quello che farei io. Il resto del tempo va dedicato alle materie del curriculum: matematica, fisica, storia, geografia. È più che abbastanza.
Uno dei punti di riferimento teorici del tuo libro è il pensiero di Guido Calogero, esponente del liberalsocialismo italiano. Cosa si può imparare leggendo il suo libro La scuola sotto inchiesta, oggi un po’ dimenticato?
Se tutto va bene, entro l’estate lo ristampiamo per un piccolo editore bresciano. È un libro che merita di essere riletto innanzitutto perché è scritto benissimo -Calogero era un grande scrittore- e argomentato con una serietà e un rigore che oggi è difficile trovare nei libri, figuriamoci sulle pagine dei giornali (molti degli articoli di Calogero uscirono su “Il Mondo”). Poi perché mette a fuoco alcuni problemi che sono rimasti simili nonostante siano passati sessant’anni: il confine tra istruzione e indottrinamento, tra libertà e licenza, il moralismo di troppi professori, il modo aperto, dialogico in cui si deve fare lezione in classe... Ed è interessante vedere come alcune idee sulla scuola nate o cresciute in questo campo liberale (la cooperazione educativa, l’abbandono della lezione frontale) siano poi diventate bandiere del pensiero pedagogico di sinistra dopo il Sessantotto.
La scuola descritta da Calogero è la scuola di oggi?
No, assolutamente. Scrivendo, lui pensava al liceo classico, anzi, a un liceo classico del centro di Roma: su che cosa fosse realmente la scuola italiana aveva, credo, idee piuttosto vaghe. Però anche sentir parlare di un mondo che non esiste più, o non è mai esistito, può essere utile per chi si occupa di educazione. Trovo puerile questa idea secondo cui solo chi insegna alle professionali può parlare delle professionali, e del liceo classico solo chi sta al liceo classico; l’istruzione è fatta di poche cose essenziali, che cambiano a seconda dei tempi e dei contesti, ma non troppo: e da esperienze diverse, anche molto lontane dalla nostra (e lo è certamente il liceo Tasso di Roma nei tardi anni Venti, quando Calogero ci insegnò), c’è sempre da imparare, purché chi le descrive dica delle cose intelligenti. E Calogero dice cose molto intelligenti, e -per tornare alla questione della lingua- in un italiano meraviglioso.
(a cura di Iacopo Gardelli)
Nel tuo ultimo libro hai scelto un tema abbastanza poco esplorato. Già il sottotitolo allarga il campo: “l’educazione civica, la scuola, l’Italia”. Il tema può sembrare noioso, vero; ma si parte da un problema scolastico per parlare di un problema del Paese. È avvenuto, secondo te, un progressivo slittamento dall’educazione critica verso la sensibilizzazione. Cosa si intende con questa espressione? Come mai abbiamo così tanto bisogno di sensibilizzare piuttosto che di istruire?
Sensibilizzare è più facile. Invece di spiegare le cose in maniera sfumata, mostrare che sono sempre ancipiti, ambigue -persino le cose che riteniamo più sacre, come la Costituzione, o la democrazia- è molto difficile, richiede tempo e competenze che spesso i professori non hanno, anche se per comodità si finge che le abbiano. Perciò si sensibilizza, si mobilita, si arruola nella battaglia per le buone cause, si catechizzano gli studenti in nome di valori sui quali si giura in maniera irriflessa. Da ciò deriva anche quel “presentismo” sul quale molti hanno scritto. Riflettere su questioni che non riguardano direttamente la contemporaneità, il qui e ora, sembra tempo perso: il mondo è pieno di eventi e problemi che sembrano richiedere il nostro giudizio, il nostro intervento, e la scuola viene ineluttabilmente risucchiata in questo vortice. Io penso invece che un’educazione critica debba essere innanzitutto un’educazione storica, che -poniamo- prima di “difendere la Costituzione”, anzi che al posto di “difendere la Costituzione” occorra conoscere la storia delle costituzioni nel mondo occidentale, da quella americana in giù. L’altra strada è appunto l’applicazione al presente, la sensibilizzazione sui temi del giorno, nei casi peggiori la predica.
Nel libro racconti lo spunto che ha dato il via alla tua riflessione: una ragazza, alla fine di un incontro in un liceo milanese ti ha chiesto: “Ma se io volessi diventare una fascista intelligente, perché lo Stato e la scuola dovrebbero impedirmelo?”, venendo immediatamente zittita dal suo professore. Il libro parte da lì o sei arrivato all’argomento in modo diverso?
Scrivo di scuola da molto tempo. Insegno all’università e faccio ogni anno un corso per i ragazzi del primo anno, quindi mi pongo spesso il problema della loro formazione, cioè di ciò che sanno o non sanno. Ho anche scritto dei manuali scolastici, e ho dovuto pensare bene a cosa metterci dentro; e naturalmente ho finito per dover riflettere sulla scuola, la scuola superiore in particolare.
È un argomento, lo ripeto, piuttosto noioso, ma è chiaro che è importante: corrisponde a un tratto di vita che tutti quanti percorriamo, ed è l’unica esperienza che unisca davvero cittadini di ogni indole ed estrazione. Il libro nasce da un articolo che avevo scritto per la rivista del Mulino, che s’intitolava “La fascista intelligente e l’educazione civica” (un titolo forse più felice di quello che alla fine l’editore ha scelto). Mi sembrava che questo aneddoto aiutasse a mettere a fuoco una serie di problemi e di occasioni perse dell’istruzione scolastica. In breve: insegnanti assiomatici contro studenti un po’ naïf ma problematici e interessanti. L’articolo è piaciuto a un amico editor di Rizzoli che mi ha chiesto un libretto: così ho ampliato la riflessione e aggiunto anche il capitolo finale sul Guido Calogero.
Ho intervistato poco tempo fa Paola Mastrocola sul suo ultimo libro Il danno scolastico. In quel libro Luca Ricolfi, co-autore, racconta della sua esperienza come insegnante universitario e registra una progressiva diminuzione del livello didattico dei ragazzi del primo anno. Tu hai visto un peggioramento nella scolarizzazione delle nuove generazioni?
Credo che, per motivi anagrafici, la loro esperienza sia diversa dalla mia. Ho iniziato a insegnare all’università nel 2002; loro hanno assistito al passaggio segnato dalla riforma Berlinguer, e credo che quella sia stata una soglia decisiva. Penso che alla base del peggioramento di cui parlano Ricolfi e Mastrocola ci sia una questione meramente numerica: negli anni Cinquanta i licei erano frequentati da una frazione della popolazione più abbiente: è inevitabile che la qualità degli studenti fosse più alta. In un regime di licealizzazione di massa è altrettanto inevitabile che si registri un certo calo nella qualità media degli studenti. In più, c’è da tenere conto del fatto che io insegno in una facoltà umanistica, che tende spesso ad attirare studenti con una preparazione più incerta e una vocazione più debole. La gran parte dei ragazzi che s’iscrive a Lettere oggi, per esempio, non sa il latino o la sa molto male: e questo è certamente un problema se si mira a dare e a ottenere una formazione umanistica solida. Quello che noto -e su questo credo che abbia ragione Ricolfi- è che molti ragazzi non sono semplicemente ignoranti ma, prima ancora, poco attrezzati per lo studio: ragazzi a cui nessuno ha mai insegnato veramente i rudimenti della cultura o anche solo le regole elementari della vita associata: come comportarsi, come parlare, e poi cos’è una biblioteca, come si scrive un’email… La scuola non gli ha mai insegnato a “fare bene le cose semplici”, come diceva Contini.
Poi c’è un numero ristretto di ragazzi molto bravi, un po’ com’ero io alla loro età. Forse meno colti di me, il me di allora, perché è chiaro che oggi devono combattere con mille altre distrazioni, e non stanno a leggere tutto il pomeriggio libri come facevo io. Ma sanno altre cose: parlano l’inglese meglio di come lo parlavo io alla loro età, hanno viaggiato di più, hanno un’esperienza di vita più varia ed estesa. Insomma: mi pare ci sia un’alta percentuale di studenti che ha, sì, una preparazione culturale fragilissima, ma a cui non mancano altri atout; un certo numero di studenti di media levatura; e alcuni (non molti) molto bravi. Ma non potrei dire che nei miei vent’anni di insegnamento all’università la qualità sia calata in modo vistoso. È cambiata, come sono cambiati i tempi. E forse i bravi che un tempo si indirizzavano alle discipline umanistiche oggi vanno a fare altro.
Uno dei capitoli più divertenti del tuo saggio è l’excursus sul linguaggio legislativo, intitolato “La complicazione di tutte le cose”. Leggendolo si tocca con mano il progressivo e inquietante scadere della qualità linguistica delle leggi sulla scuola. Cos’è successo secondo te in questi ultimi trent’anni?
In realtà si è sempre scritto male. L’italiano è una lingua ostica; fino a qualche generazione fa era quasi una lingua straniera, perché si nasceva e si cresceva in mezzo ai dialetti. Perciò quando si scrive si esagera col formalismo: chi ha poca confidenza con l’italiano scritto dissimula, si traveste, infarcendo il suo discorso di paroloni, di formule reboanti ma assurde, incomprensibili. Questo, dicevo, è sempre successo. Dagli anni Settanta, poi, a questa tendenza allo scrivere male, in maniera involuta e arabescata, si è sommato il gergo maldigerito delle scienze sociali: il gergo dei pedagogisti, dei sociologi, dei semiologi, dei teorici di qualsiasi aspetto dell’esistenza. Ignoranza e gerghi producono queste leggi. Giorni fa mi è capitato di sfogliare un numero della Gazzetta Ufficiale -c’era una legge che m’interessava- e mi sono reso conto che, per quanto tornassi più e più volte sullo stesso periodo, non riuscivo a capire cosa diceva. Cittadino italiano adulto, addottorato in Letteratura, sette anni di scuola Normale, io non capisco le leggi del mio Paese. Per colpa loro, non mia. Da un lato, come dicevo, c’è spesso da parte di chi scrive la vera e propria ignoranza della grammatica: interdisciplinarietà, poniamo, invece di interdisciplinarità. Dall’altro, c’è la tendenza a complicare cose che sarebbero semplici se solo si riuscisse a tradurre il proprio pensiero nelle parole che servono a esprimerlo, e soltanto in quelle. Non sono ottimista, mi pare anzi che non ci sia niente da fare. Anche gli insegnanti, che dovrebbero formare i futuri scriventi, sono vittime di questo equivoco penoso: lo scrivere lambiccato -l’antilingua di cui diceva Calvino- viene spesso scambiato per lo “scrivere bene”. Un po’ per scherzo un po’ sul serio ho proposto tempo fa l’abolizione dell’italiano scritto e il passaggio all’inglese, che almeno -come diceva Salvemini- è una lingua più onesta.
La vacuità delle nuove leggi è in buona fede oppure no?
Ma sono tutti in buona fede. È chiaro che questi legislatori credono di dover scrivere in questo modo perché incarnano la voce dello Stato, e lo Stato -pensano- deve parlare così, in maniera sostenuta, solenne, coi paroloni e non con le parolette. Tempo fa ho pubblicato su “Internazionale” un articolo dal titolo “La lingua disonesta. Come scrivono al Ministero dell’Istruzione”. Era l’analisi di una circolare ministeriale. C’era da dire una cosa molto semplice: occorreva reclutare un certo numero di insegnanti per farne dei formatori. Lunghezza del documento: otto pagine. Perché ci vuole il preambolo, perché bisogna contemplare tutte le variabili possibili, dare a tutti il titolo a cui hanno diritto, salutare il ministro, il sottosegretario, il sovrintendente, in una selva di sigle incomprensibili… E perché le scuole non vengono chiamate scuole ma istituzioni scolastiche, gli insegnanti sono il personale docente, e via dicendo. Il linguaggio -come diceva Gassman in “In nome del popolo italiano”- dev’essere desemplicizzato. Poi certo, qualcuno lo farà anche apposta, qualcuno scriverà in modo ambiguo, oscuro, per garantirsi una rendita di posizione, per poter speculare su questa zona grigia. Ma non credo che il dolo sia molto esteso: credo che ci sia una generale incapacità di dire le cose in maniera chiara e -dove l’incapacità lo permette- una tendenziale preferenza per le espressioni complicate, perché la complicazione dignifica, nobilita. La parola che qualifica questo atteggiamento c’è, quindi possiamo anche usarla: è snobismo, la malattia dei poveri che vogliono sembrare ricchi.
Scrivi che c’è sempre più sfiducia nelle materie scolastiche classiche. Non crediamo più che insegnare bene italiano, storia, filosofia, matematica sia già fare educazione civica. Perché succede questo? Perché sviliamo le materie?
Perché crediamo che abbiano poca aderenza alla vita quotidiana, alla vita che vediamo attorno a noi. Avevamo un set di discipline scolastiche che potevano sembrare in sintonia con il mondo fino a qualche decennio fa. Oggi, a torto o a ragione, le consideriamo obsolete. Meglio avere dieci in inglese o dieci in italiano? Meglio cavarsela bene con il coding o con il greco antico? Sospetto che molti genitori, anche illuminati, sceglierebbero il primo corno delle due alternative, non il secondo. Da un lato è una percezione anche corretta, perché le discipline tradizionali, specie quelle umanistiche, hanno un contatto molto labile con la vita quotidiana, e perché l’Italia privilegia una formazione scolastica molto tradizionale, che guarda con sospetto per esempio all’istruzione pratica, che venera le lingue morte, l’astrazione dei concetti (quanta filosofia fatta male, nei licei italiani, quante parole in libertà, quanti concetti che tutti -insegnanti compresi- fanno finta di capire!). Ed è chiaro che in un colloquio di lavoro non ti chiederanno di spiegare la perifrastica passiva o di parlare della Guerra del Peloponneso di Tucidide. Però è anche vero che una formazione culturale decente fa di te una persona molto più capace di imparare rispetto a chi quella formazione non la possiede.
A me pare che una buona formazione scolastica, senza eccessive compromissioni col mondo, possa essere il viatico per un’eccellente carriera in qualsiasi campo, e soprattutto -perché non dirlo- a una vita più piena di significato. L’ordinaria amministrazione, insomma, il vecchio e grigio programma, con correzioni e addizioni, certamente, ma senza stravolgimenti. Voglio dire, alla fine la scuola è un’ottima idea, non c’è bisogno di inventarsi cose troppo diverse…
Cercando di articolare una risposta alla provocazione della ragazza, citi Guido Calogero: “Un’educazione condotta in base a certi orientamenti dottrinali presupposti come indiscussi crea uomini moralmente e civicamente meno solidi di un’educazione la quale non presupponga alcun tabù”. Leggendo questo passaggio mi è venuto in mente Popper, che diceva che era necessario essere intolleranti con gli intolleranti -quindi anche con i giovani fascisti. Che ne pensi?
È la vecchia questione della democrazia protetta. Che fare contro gli intolleranti? La tolleranza dev’essere estesa anche a loro? Come fa una democrazia a proteggersi contro i suoi nemici interni? È un problema delicato, da affrontare caso per caso. Ma io direi che a scuola quasi tutto dev’essere lecito. Stiamo parlando di adolescenti in formazione che esprimono delle idee, quasi sempre rozze e superficiali; ma per renderle meno rozze e superficiali non c’è altra strada che articolarle in pubblico, cioè davanti alla classe, in una conversazione che -sotto la guida dell’insegnante- sia la più ampia e libera possibile.
Non credo affatto, attenzione, che la conversazione, il dibattito debba prendere il posto della lezione. Ma se una studentessa-com’è il caso della aspirante “fascista intelligente”- pone una questione del tutto sensata, per quanto spigolosa, l’insegnante è tenuto a rispondere con pazienza, senza estremizzare i contrasti. Sono ragazzi che hanno tra i sedici e i diciannove anni, che procedono a tentoni, anche provocando, offendendo, per capire quali sono i confini entro i quali possono muoversi. Per questo la libertà, in classe, dev’essere grande, grandissima. E per questo mi è dispiaciuta molto la reazione di quell’insegnante che ha zittito la ragazza: mi pare corrisponda a un certo moralismo, a un certo habitus predicatorio che ho l’impressione si sia rafforzato ed esteso negli ultimi decenni, sia all’interno della scuola sia al di fuori -nei media, nella letteratura, nel cinema.
C’è una frase molto acuta di Calogero che riporti nel libro: la scuola pre-fascista è più grave di quella fascista, perché prepara una classe di uomini e donne che non sono in grado di riconoscere il fascismo quando arriva, e perciò lo rende possibile. Una scuola senza tabù, che accoglie al modo liberale qualsiasi posizione, non rischia di formare uomini amorfi, relativisti, troppo deboli? Appunto, non si trasforma in quella scuola pre-fascista di cui parla Calogero?
Certo che sì, figurati. Non sono affatto favorevole alla scuola della discussione continua e -nel libro lo dico- non credo di essere del tutto d’accordo con Calogero. Infatti uso Cesare Cases come contraddittore, illustro le sue ragioni e ne riconosco la validità: la scuola non dev’essere una specie di assemblea permanente. Cases -siamo a metà degli anni Cinquanta- ha una visione conservatrice della scuola che in parte condivido. Ci sono, constata, discipline nelle quali la discussione è inutile. Latino, greco, italiano, matematica...
Se però (è questo il tema del mio libretto) si crea uno spazio per l’educazione civica -che è una disciplina che ha natura diversa rispetto a quelle che ho appena citato- nasce anche il problema di come riempirlo. E se lo si riempie con delle prediche, o con la miriade di nozioni evocate dalla legge del 2019 (dall’educazione ambientale a quella digitale, dalla Costituzione all’Agenda 2030), non si fa un buon servizio agli studenti. Né lo si fa se si impedisce agli studenti -anche ai più sfacciati- di parlare di argomenti relativi alla vita associata che stanno loro a cuore (come, evidentemente, la questione “Ma se io volessi diventare una fascista intelligente, perché lo Stato e la scuola dovrebbero impedirmelo?”).
Bisognerebbe studiare poche cose, invece (per esempio anche solo un’informazione generale sulla storia delle costituzioni, sulla nostra Costituzione e sulla forma del nostro Stato: e basta), e concedere spazio libero alla discussione tra studenti e insegnanti, partendo però da un libro di testo ben scritto, cioè a sua volta problematico e non votato alla sensibilizzazione, alla mobilitazione, al catechismo.
Fare una buona scuola è già fare educazione civica?
Direi di sì. Mi pare che stiamo cercando di surrogare quello che non riusciamo più a dare -una buona scuola, con buoni libri e buoni insegnanti- con materie nuove (o materie vecchie riattate, diciamo) e sollecitazioni che finiscono per essere dispersive. Una buona scuola sarebbe sufficiente. Il curriculum tradizionale, se fatto bene, è sufficiente. Se si vuole aggiungere una pillola di civismo si può fare, precisando molto bene i confini: un po’ di Costituzione, come ho detto; un po’ di diritto privato, qualche nozione relativa alla macchina dello Stato, e poco altro. Questo almeno è quello che farei io. Il resto del tempo va dedicato alle materie del curriculum: matematica, fisica, storia, geografia. È più che abbastanza.
Uno dei punti di riferimento teorici del tuo libro è il pensiero di Guido Calogero, esponente del liberalsocialismo italiano. Cosa si può imparare leggendo il suo libro La scuola sotto inchiesta, oggi un po’ dimenticato?
Se tutto va bene, entro l’estate lo ristampiamo per un piccolo editore bresciano. È un libro che merita di essere riletto innanzitutto perché è scritto benissimo -Calogero era un grande scrittore- e argomentato con una serietà e un rigore che oggi è difficile trovare nei libri, figuriamoci sulle pagine dei giornali (molti degli articoli di Calogero uscirono su “Il Mondo”). Poi perché mette a fuoco alcuni problemi che sono rimasti simili nonostante siano passati sessant’anni: il confine tra istruzione e indottrinamento, tra libertà e licenza, il moralismo di troppi professori, il modo aperto, dialogico in cui si deve fare lezione in classe... Ed è interessante vedere come alcune idee sulla scuola nate o cresciute in questo campo liberale (la cooperazione educativa, l’abbandono della lezione frontale) siano poi diventate bandiere del pensiero pedagogico di sinistra dopo il Sessantotto.
La scuola descritta da Calogero è la scuola di oggi?
No, assolutamente. Scrivendo, lui pensava al liceo classico, anzi, a un liceo classico del centro di Roma: su che cosa fosse realmente la scuola italiana aveva, credo, idee piuttosto vaghe. Però anche sentir parlare di un mondo che non esiste più, o non è mai esistito, può essere utile per chi si occupa di educazione. Trovo puerile questa idea secondo cui solo chi insegna alle professionali può parlare delle professionali, e del liceo classico solo chi sta al liceo classico; l’istruzione è fatta di poche cose essenziali, che cambiano a seconda dei tempi e dei contesti, ma non troppo: e da esperienze diverse, anche molto lontane dalla nostra (e lo è certamente il liceo Tasso di Roma nei tardi anni Venti, quando Calogero ci insegnò), c’è sempre da imparare, purché chi le descrive dica delle cose intelligenti. E Calogero dice cose molto intelligenti, e -per tornare alla questione della lingua- in un italiano meraviglioso.
(a cura di Iacopo Gardelli)
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