Angelo Bolaffi, filosofo della politica e germanista, ha insegnato Filosofia politica all’Università La Sapienza di Roma. È stato direttore dell’Istituto italiano di cultura di Berlino. È membro della Grüne Akademie della Böll Stiftung di Berlino. Ha pubblicato, tra l’altro, Il sogno tedesco. La nuova Germania e la coscienza europea, Donzelli 1993; Cuore tedesco. Il modello Germania, l’Italia e la crisi europea, Donzelli 2013; Germania/Europa. Due punti di vista sulle opportunità e i rischi dell’egemonia tedesca (con P. Ciocca), Donzelli 2017.

Vorremmo parlare della Germania dopo la fine dell’epoca Merkel e, sul piano internazionale, di qual è il suo ruolo dopo l’aggressione dell’Ucraina da parte della Russia.
È un momento molto confuso. Dieci anni fa scrissi un libro intitolato Cuore tedesco, dove sostenevo una tesi molto chiara. La tesi era che la Germania aveva completato il processo di revisione storico-morale di quanto avvenuto, con quello che io definivo un ravvedimento. Dopo un regime particolarmente crudele a cui ha aderito gran parte della popolazione, il processo di rimozione procede insieme alla rielaborazione critica. Cioè il peso della colpa è talmente grosso che è illusorio pensare che da un giorno all’altro si riconoscano le proprie colpe e si rimuova tutto. C’è un saggio di uno storico tedesco, Christian Meier, che parla dell’obbligo del ricordo e della necessità della rimozione: un titolo bellissimo e un classico passaggio analitico, nel senso che devi fare entrambe le cose, devi ricordare e al tempo stesso rimuovere. Parliamo quindi di un processo lento e faticoso. Possiamo dire che la svolta avviene all’inizio degli anni Sessanta, con i primi processi su Auschwitz, e con la generazione pre-68. A differenza dell’Italia, dove la generazione che fa il 68 fondamentalmente prende una via di radicalizzazione delle posizioni della sinistra, in Germania avviene questo processo e, proprio in parallelo alla rielaborazione critica della colpa, prende piede un’idea di revisione della cultura del passato, che contribuirà alla nascita dei Verdi tedeschi. Io dico sempre che si passa dal “blitzkrieg” al “kindergarten”, cioè dal mito della guerra lampo a quello dell’asilo nido dove i bambini vengono educati.
Il paese si sottopone a un’autocritica collettiva molto profonda con una rielaborazione del passato che non c’è stata né in Spagna, né in Unione Sovietica, né in Italia. Oggi abbiamo un ex squadrista come La Russa presidente del Senato: ecco, in Germania sarebbe stata impensabile una cosa del genere. In mezzo c’è anche la Ostpolitik, su cui bisognerà tornare a riflettere, anche vedendo quello che succede oggi. A ogni modo la Germania lentamente acquista un peso economico. Questo è un dato interessante: la Germania esce sconfitta dalla Prima guerra mondiale e già cinque anni dopo è la potenza continentale economica più forte.
Quando Keynes dice che Versailles porta al nazismo sbaglia. Versailles porta al fascismo. L’unico paese che subisce una conseguenza politica è l’Italia con la sua vittoria mutilata, eccetera. La Germania nel ’33 si era ripresa. Tant’è vero che la tesi della pugnalata alle spalle, diffusa nei circoli militari, che accusa la sinistra e il mondo ebraico, risale a prima di Versailles!
Detto questo, certamente le riparazioni sono pesate molto. Oggi poi si ritorna alla citazione di Keynes rispetto a come comportarsi con la Russia: “Non bisogna umiliare la Russia sennò…”. Eh, no! Le cose non stanno così. Questa è una lettura molto semplicistica. Tra l’altro andrebbe discusso come mai Keynes non parla mai dell’Italia e del fascismo. Comunque la Germania diventa una potenza economica e, a causa del senso di colpa per quanto avvenuto sia con Guglielmo II, Prima guerra mondiale, e poi con Hitler, prende le distanze da ogni politica di potenza: “Nie wieder Krieg”, mai più guerra, “Nicht mit uns”, non con noi. E diventa per così dire una potenza di pace. Si limita a una politica di sostegno economico: Kohl firma degli assegni... il tutto con il consenso degli altri paesi europei. La Germania, collocata al centro dell’Europa, diventa così il paese più stabile oltre che una potenza economica. Del modello adottato si può certo discutere, ma forse non dovremmo discuterne noi in Italia perché metà del nostro paese, da Forlì al Brennero, guadagna dalla catena dei valori della Germania. Io poi sostengo che la Germania è keynesiana! Non possiamo invocare Keynes solo quando serve a noi. E comunque, lo ripeto, sui famosi duecento miliardi di aiuti di stato che tutti criticano, e io pure, ci guadagniamo anche noi.
Allora, la Germania è una potenza democratica, stabile, che ha fatto tesoro dell’esperienza di Weimar.
Dicevi che la Repubblica di Weimar meriterebbe una rilettura...
In Italia come anche in Germania, fino a metà anni Settanta, Weimar veniva letta solo come preludio della catastrofe. Non è così. Intanto perché Weimar è durata dal ’18 al ’32, quindi quattordici anni, mentre il regime hitleriano è durato undici anni. E poi perché Weimar è stato un momento alto della cultura europea, con l’introduzione del voto alle donne, la cultura dei diritti. Weimar è una grandissima esperienza che, in un’epoca in cui trionfava il totalitarismo, il fascismo in Italia, lo stalinismo, tenta di mettere in piedi una società libera, democratica.
Cosa impara da Weimar la Repubblica federale prima e poi la Germania unificata? Il principio della stabilità, e poi che la democrazia deve essere anche “militante”. Un concetto che in Italia non si riesce a tradurre perché quando usiamo questo termine intendiamo qualcosa di aggressivo. Invece militante significa in grado di sbarrare la strada a coloro che vogliono “chiudersi la porta alle spalle”. Cioè io non ti consentirò più -come è successo nel ’33- di andare democraticamente al potere per poi dire che la democrazia è finita. Quindi tutta una serie di meccanismi, uno dei quali è il principio della sfiducia costruttiva per cui non ci possono essere degli scioglimenti continui del parlamento se non c’è un’alternativa al governo che si dimette. L’altro è il federalismo, che Hitler e la Ddr aboliscono, e a cui la Germania torna immediatamente. Infine la clausola del 5% come soglia di sbarramento alle elezioni. Più, un ruolo fondamentale della corte costituzionale, che viene introdotta in Italia e in Germania proprio come contrappeso a un’eventuale dittatura della legge parlamentare.
Non solo, la Germania sviluppa un modello economico che si basa molto sulle esportazioni, sulla collaborazione, tra virgolette, tra sindacati e imprese, sulla concertazione. In Germania esistono i consigli d’azienda, i consigli d’imprese; da noi mai si sono voluti introdurre perché la Cgil si è sempre opposta ritenendola una forma di corporativismo: noi non dobbiamo collaborare, dobbiamo solo confliggere. Invece lì i sindacalisti siedono addirittura nei consigli d’amministrazione e co-dirigono l’impresa. Dal punto di vista federale, costituzionale e delle relazioni sociali, è un modello alternativo a quello centralistico conflittuale italiano e francese.
Veniamo alla questione tedesca...
Almeno fino al 1989, la divisione della Germania doveva rappresentare agli occhi degli altri paesi europei, particolarmente della Francia e della Polonia (che però entra in ballo solo dopo la caduta del muro), la risoluzione della storica questione tedesca. La Deutsche Frage è un tema molto rilevante. La questione tedesca, tralasciando le guerre di religioni del Seicento, nasce diciamo a fine Ottocento, con l’unificazione della Germania: nel 1871, con Bismarck, nel cuore d’Europa un sistema di regni divisi si unifica col sangue e la spada. Nasce così una potenza continentale che, per dimensioni economiche e demografiche, sbilancia tutto il continente. Questa è la questione tedesca. La Germania è troppo grande per essere uguale agli altri e troppo piccola per comandare come gli Stati Uniti nell’emisfero occidentale. Questo crea instabilità, sospetto, soprattutto perché, essendo una potenza collocata al centro dell’Europa, è il paese che ha più confini, e più confini hai più problemi hai. Soprattutto confligge con l’idea inglese che dominava dal Settecento in poi la politica europea, per cui l’Inghilterra è fuori e però vuole il continente bello diviso in modo che non ci sia alcuna potenza che prenda il sopravvento. Che sia Carlo V, Napoleone, o Hitler, gli inglesi intervengono perché a loro questo non piace e hanno anche ragione.
Non a caso la Nato, come disse un famoso ambasciatore, serviva a tre obiettivi: a tenere i russi fuori, gli americani dentro e i tedeschi giù. Questa è la Nato.
Comunque la gestione prima avventurista di Guglielmo II e poi criminale di Hitler viene risolta con la spada: la Germania viene divisa e riportata alla sua debolezza storica.
In questo quadro nasce l’Europa della comunità economica europea, i trattati di Roma, con due paesi predominanti, la Francia e la Germania occidentale, e con l’Italia che pesa molto perché all’epoca è un paese forte, culturalmente ed economicamente, è il miracolo italiano. Insomma, un paese che conta, un paese ammirato. Non è l’Italia di oggi.
La caduta del muro di Berlino cambia di nuovo le coordinate del mondo e dell’Europa.
Se volete, la guerra di Putin è quella che saggiamente Gorbacev non volle fare il giorno in cui cadde il Muro di Berlino. Se Gorbacev all’epoca avesse fatto come i cinesi, cioè avesse fatto quello che qualche mese prima era successo a Tienanmen, nell’agosto dell’89, sarebbe stata tutta un’altra storia. Invece, arriva la Primavera dei popoli, finisce la Guerra Fredda, si dissolve l’Unione sovietica, si apre tutta una dinamica complicata, che porta all’autonomia nazionale di paesi che per la loro storia e anche per l’esperienza dell’occupazione sovietica, hanno tutta un’altra visione della storia del Novecento rispetto a quella che abbiamo noi in Occidente.
Cioè, l’Ungheria di Orban non è un fungo che nasce così: è dentro la storia di quel paese lì. Ho riletto una pagina di un saggio di Rosario Romeo in cui lui già indicava le differenze nella formazione di questi paesi. Ci sono gli stati nazionali storici, Spagna Inghilterra e Francia. Gli stati nazionali “in ritardo”, Italia e Germania, e poi gli stati etnici dell’Europa orientale, che hanno appunto un’identità etnica prima che politica. Questo risorge adesso. D’altra parte la storia è lunga, ha delle memorie lunghissime, e questi paesi, avendo al confine l’orso...
Quando lavoravo a “Micromega” mi trovai nel ’92 a Vilnius quando ci fu il tentativo dei russi di riprendersi la città. Noi non ci possiamo immaginare! Era come se la Wehrmacht fosse tornata all’improvviso a Roma. La reazione è stata di correre a difendersi! Infatti per questi paesi l’Europa è prima di tutto un momento di difesa, non di libertà. Il loro problema è avere i russi alle porte di casa, quindi oggettivamente sono filo-americani.
Infatti molti di questi paesi sono entrati prima nella Nato che nell’Unione europea...
È così, tutti e due vanno bene, ma se devo scegliere...
Comunque la caduta del Muro di Berlino cosa fa? Risolve la questione tedesca. La risolve nel senso che per la prima volta, a differenza del passato, la Germania ritrova la propria unità con l’accordo dei paesi confinanti. Pur se di malavoglia, Polonia e Francia dicono: va bene, si fa. Però rimane aperta la questione europea.
All’inizio degli anni Novanta, la Germania affronta tra mille difficoltà il processo di unificazione facendosi carico dei cinque Lander orientali, diciassette milioni di abitanti in condizioni di estrema arretratezza. Checché se ne dica, pur con mugugno, viene compiuto un enorme sforzo collettivo. Nessuno ricorda che in Germania è stata abolita la tredicesima: il Weihnachtsgeld, il denaro di Natale, da allora non esiste più.
Si tratta anche di un percorso culturale, perché tra le due parti c’è una diffidenza enorme e comunque c’è una parte sconfitta. Se infatti i diciassette milioni sono contenti di godere del benessere del Marco e poi dell’Euro, di avere l’assistenza sociale, dal punto di vista personale si tratta di un fallimento, nel senso che tu hai vissuto una storia che viene completamente cancellata. All’epoca vengono commessi degli errori, anche di arroganza. Basti pensare che tutta una schiera di colleghi universitari della Germania dell’Est, soprattutto nelle facoltà umanistiche, peraltro formatisi alla scuola del marxismo-leninismo, se ne devono andare e al loro posto arrivano una serie di studiosi da Francoforte, Monaco, Colonia ecc., che diventano ordinari nelle università di Dresda, Lipsia. Insomma, sono processi complicati.
Teniamo presente che quando avviene l’unificazione della Germania, nel 1990, c’è gente che non aveva più partecipato a libere elezioni dal 1933! Persone che non avevano alcuna confidenza con il libero dibattito politico, che non a caso poi saranno attratte da alcune sirene nazionaliste, che in prima istanza vengono raccolte dalla Linke, l’ex partito dei burocrati, dei funzionari dell’estrema sinistra e più tardi dall’Afd (Alternativa per la Germania), il partito di estrema destra.
Non solo, mentre la Germania occidentale negli anni in qualche modo si è abituata all’immigrazione, anzi è cresciuta grazie all’immigrazione italiana, turca, ecc., di là dal Muro, di immigrati avevano conosciuto solo alcuni esuli vietnamiti e cubani (di ebrei non ce n’erano più), di qui il disagio che porterà a nuove ondate di razzismo, antisemitismo, xenofobia.
Comunque negli anni Novanta la Germania affronta questa sfida, che avviene insieme all’apertura del processo globale. Io sono della tesi che la globalizzazione sia l’esito della caduta del Muro di Berlino. Altri sostengono che sia invece la globalizzazione ad averla prodotta; è un dibattito un po’ sofisticato, sta di fatto che le due cose camminano insieme: finisce la Guerra fredda e il mondo si unifica dal punto di vista economico.
La Germania affronta una serie di crisi profonde che portano alla caduta del cancelliere della riunificazione, Kohl, nel ’98, e alla vittoria dell’alleanza verde-rosso con Gerhard Schroeder e Joschka Fischer. Qui non dobbiamo valutare Schroeder per quello che fa oggi, ossia per il fatto che è pagato dalla Gazprom (aggiungo che non è il solo tra i dirigenti della sinistra europea…). Quello che è interessante notare è che nell’accoppiata, Schroeder modernizza i rapporti sociali, il welfare -e ogni modernizzazione significa trasformazione e tagli- mentre i Verdi, con Joschka Fischer, modernizzano la cultura della Germania: doppia cittadinanza, apertura al diverso, l’idea di una politica al femminile, tutta una serie di temi rispetto ai quali i socialdemocratici, il vecchio movimento operaio, non hanno grande dimestichezza. Questo combinato disposto, questo mix, funziona e la Germania conosce una ripresa economica fondamentale, che viene portata come un dono alla cancelliera Merkel.
Merkel vince, pur se di misura, le elezioni del 2005. Lì avviene uno scontro che è rimasto mitico. Dopo le elezioni politiche, in Germania è uso alle otto e mezza di sera trasmettere in tv il cosiddetto Elefantenrunde, la tavola rotonda degli elefanti, in cui tutti i capi dei partiti che hanno partecipato alle elezioni si confrontano in un dibattito. Ebbene, all’epoca si presentò uno Schroeder completamente ubriaco che attaccò la Merkel dicendo: “Non sei capace, non sei alla mia altezza!”. A quel punto, la popolarità della Merkel esplose, nel senso che metà delle donne tedesche odiarono il cancelliere che casomai avevano pure votato, trovando intollerabile il modo in cui aveva trattato quella povera ragazza… la quale, povera ragazza non era, tant’è che è rimasta al potere fino al 2021!
Comunque questo è per dire che il grande sviluppo economico, la potenza della Germania, è dovuta più alle riforme precedenti di Schroeder -come la Merkel ha molto lealmente riconosciuto- che alle riforme strutturali fatte da lei. Merkel dal canto suo, nel tempo si è rivelata un’abilissima politica: per lei la politica non è mai potenza ma compromesso, un compromesso però da cui tutti devono uscire avendo preso qualcosa.
Poi c’è tutta la vicenda, che ci riguarda particolarmente, della Germania durante la crisi economica del 2008 prima e del 2011 dopo. Lì pure dobbiamo capire che sicuramente sono stati commessi degli errori, ma anche perché ci siamo trovati in un terreno sconosciuto. Nessuno sa realmente cosa avviene in una crisi economica con una moneta unica decisa in una fase espansiva, di grande consenso, dove tutti erano ben disposti.
Faccio un passo indietro. A un certo punto, a cavallo dell’89 si apre il dilemma sulla possibile unificazione politica dell’Europa. Gli unici due paesi che hanno un’idea federalista sono Italia e Germania, la Francia non se lo sogna neanche e gli altri paesi nicchiano. La Germania è dunque costretta a prendere atto che l’idea di una costituente europea non passerà e quindi accetta che l’unificazione avvenga sulla base della moneta unica, su base economica.
Far accettare alla Bundesbank l’idea della rinuncia al Marco, che era, come è stato detto, “la bandiera di un paese che non aveva più bandiere” era però complicato. La Germania alla fine accetta ma pone delle condizioni, i famosi parametri di Maastricht.
Questo è lo stato dell’arte della Germania che lascia la Merkel quando conclude il mandato. Lei aveva deciso comunque di ritirarsi, perché se si ripresentava vinceva a man bassa. Scholz ha vinto le elezioni del settembre del ’21 presentandosi come “Angelo” Scholz, come la continuazione della Merkel: “Non tocco niente, buoni tutti…”. Ripeto, se la Merkel cambiava idea, vinceva lei.
Veniamo all’eredità della Merkel.
Nel lascito della Merkel ci sono due gravi buchi neri. Il primo è l’Ucraina. La Merkel è l’unica che prova disperatamente a trattare con Putin. Credo sia andata da lui diciassette volte; si parlavano in tedesco, ma lei a un certo punto ha fatto una dichiarazione: “È un bugiardo di cui non ci si può fidare”. E per dirlo lei... Insomma, l’Ucraina e i rapporti con la Russia sono il lascito che poi esplode.
L’altro lascito, dal punto di vista politico, è un indebolimento forte, superiore a quello che avviene in altri paesi, dei partiti politici. In Germania i partiti storici, che da tre erano diventati quattro, prendevano l’80% dei voti, poi sono diventati sei, ma soprattutto si è indebolito ciò che lega le persone ai partiti. Un sociologo tedesco, Andreas Reckwitz, parla di “società delle singolarità”: ognuno con il proprio progetto di vita... anche da questo punto di vista il paese che, al centro dell’Europa, rappresenta la stabilità della democrazia, è meno forte di quanto fosse in passato.
Il problema grosso è che quella relativa stabilità politica e quella forte stabilità economica sono state comprate dalla Germania legandosi mani e piedi al gas russo e alle esportazioni cinesi.
Se la Merkel aveva quell’opinione di Putin, perché legarsi così alla Russia?
Perché pecunia non olet! Perché la wirschaft, che in tedesco significa non solo l’economia in senso tecnico, ma il sistema di potere economico, pesava molto. E poi c’era l’idea di una Germania potenza di pace, torniamo all’inizio. Montesquieu dice: dove passano i commerci non passano le armi… D’altra parte non era stato Clinton ad aprire il Wto alla Cina, perché così speravamo di integrarla? Invece è stato un errore strategico, in fondo di tutto l’Occidente. Perché se l’Occidente avesse fatto il viso dell’arme nel 2014, cioè con Obama, oggi saremmo forse in un’altra situazione… invece abbiamo lasciato la Siria e il Mediterraneo ai turchi e ai russi; nel frattempo Putin si è fatto l’idea che gli occidentali in fondo la guerra non l’avrebbero rischiata e così ha pensato bene di prendersi l’Ucraina.
A questo punto ci troviamo in una situazione militarmente complicata, con un’Europa divisa al proprio interno sia nell’atteggiamento verso la Russia che nel rapporto verso l’America e con un problema economico forte, soprattutto per paesi come l’Italia. La Spagna, la Francia hanno le centrali nucleari; il problema ce l’hanno l’Italia, la Germania, l’Olanda e i paesi dell’Est. A questo si aggiunge la diversità di condizioni economiche dei vari paesi.
D’altra parte, lo sappiamo: l’Europa, o meglio l’Unione europea non è un pranzo di gala. L’Europa da Lisbona a Kiev, a Mosca, c’è sempre stata: nel Settecento, Cristina di Svezia chiamava Descartes, lo zar chiamava gli architetti italiani… l’Europa culturale c’è sempre stata, ma l’Europa politica è un’altra cosa. Ebbene, l’Unione europea si costruisce in base a compromessi costanti, non è un’ipostasi, è un processo, non esiste “la soluzione europea”.
La Germania come sta reagendo a tutto questo?
La Germania di oggi è come un pugile suonato. La Zeitenwende è una bellissima espressione. Come ha detto Scholz nel suo discorso del 27 febbraio 2022, dopo l’invasione dell’Ucraina c’è stato un mutamento d’epoca. Ma a questo mutamento d’epoca come si risponde?
L’esempio che io faccio sempre è Schroeder: è stato l’ultimo grande cancelliere socialdemocratico, quello che ha cambiato la Germania e oggi è a libro paga della Gazprom! Non solo, ma fa una politica estera personale, con rapporti diretti con Putin. E la Spd non è stata in grado, o non ha voluto, cacciarlo via! Io parlo di spaesamento, smarrimento della Germania. In questo momento, il vero problema dell’Europa non è che la Germania è troppo pericolosa, ma che è assente. Se non c’era Draghi che prendeva per le orecchie Macron e Scholz e li portava a Kiev, non ci andavano!
Per questo sostengo che oggi, a doverci preoccupare, non è la forza della Germania, ma il suo spaesamento, il fatto che balbetta. Ma pensate solo a cos’è successo ad aprile: un presidente della Repubblica come Steinmeier, che tra l’altro mi onoro di conoscere, che di fatto accetta che il presidente Zelensky gli dica: “No, tu da noi non vieni”. Cose da scatenare una guerra! E invece lui zitto e buono... è così.
Il discorso tenuto da Scholz a Praga è stato d’impatto...
Troppa roba. Vasto programma avrebbe detto De Gaulle. Abbiamo questi grandi discorsi teorici, come quello sulla sovranità europea di Macron, a cui però seguono pochi fatti. La Francia parte sempre dall’idea gollista di un’Europa in funzione anti-americana, che oggi è improponibile. La Cdu, finita la Merkel, è non pervenuta. Come dicono gli agricoltori, sotto un grande albero non cresce niente, e dopo un grande cancelliere prima che ne venga un altro… La ministra degli esteri, Baerbock, mi sembra all’altezza; i Verdi sono gli unici che cercano in qualche modo di raccapezzarsi, però hanno il 15-18% dei voti.
Quando nel ’93, dopo l’unificazione tedesca, ho scritto Il sogno tedesco, l’obiettivo era di togliere le paure, spiegando che la Germania aveva fatto il suo rinnovamento spirituale. Il libro del 2013-14, Cuore tedesco, era per raccontare questo modello sociale ed economico di stabilità, ecc.
Adesso, dopo la Zeitenwende, vorrei scrivere qualcosa, ma francamente ancora non so che pesci prendere, di notte non ci dormo, perché è difficile. Noi siamo in un momento in cui può capitare di tutto e soprattutto non sappiamo come le opinioni pubbliche europee reagiranno.
I tedeschi sono pessimi: nei giorni normali sono bravissimi, ma se c’è una situazione di difficoltà entrano nel panico. Noi siamo più abituati alla difficoltà, siamo più flessibili. Peter Glotz, autore della società dei due terzi diceva che la Germania è come un transatlantico: per fare una virata necessita di mare aperto e tempo. L’Italia invece è come un battello rapido, che cambia velocemente direzione, anche molto leggerino, però più flessibile. Ecco, se adesso togliamo le esportazioni in Cina, se togliamo il gas, cosa succederà? Come reagirà l’opinione pubblica se la situazione peggiora, se dovrà stare un poco al freddo? Non ho sentito alcun discorso pubblico capace di creare una coesione interna per affrontare i momenti duri.
Dicevi che dopo l’aggressione all’Ucraina è riemerso il controverso rapporto con la Russia.
Non dobbiamo dimenticare che in Germania Est c’è una generazione che ha studiato il russo, e non l’inglese, come lingua straniera. Ma, attenzione, non è la Russia, è l’Ucraina il problema. I tedeschi hanno sempre avuto un rapporto privilegiato con la Russia.
Il problema è che in mezzo c’è un paese enorme, di quaranta milioni di abitanti, che è stato regolarmente bypassata sia dai tedeschi che dai russi.
Dopo l’invasione della Crimea nel 2014, l’ex cancelliere Helmut Schmidt, grande cancelliere, disse: “L’Ucraina come nazione non esiste”. Un cancelliere socialdemocratico! Il tono era un po’: che vogliono questi? Nell’immaginario tedesco gli ucraini sono dei barbari, e se sono colti sono russi. Nel mondo tedesco serpeggia un po’ quest’idea: “Ma dobbiamo proprio fare la guerra per questi qui? Sono stati pure antisemiti…”. Dimenticandosi che tra le vittime dei tedeschi ci sono stati più ebrei ucraini che russi.
Io comunque penso che non ci sarà una rottura del fronte occidentale sull’Ucraina. Vediamo. Certamente conterà il ruolo che rivestirà la Germania, che esita a fornire armi; qui giocano elementi di viltà, ma anche di paura, e infine di autocritica: ma come, facciamo di nuovo una guerra proprio nei luoghi dove abbiamo ammazzato venti milioni di persone? Nella coscienza collettiva pesa il dover ritornare nel luogo del delitto. Perché i veri grandi massacri sono iniziati in Ucraina, con l’aiuto dei collaborazionisti ucraini.
Pesa anche un’idea strategica, che si è costruita nel tempo, di una cultura delle relazioni internazionali basate sul consenso, sulla deterrenza, per cui bisogna pagare dei prezzi -salvo che li paga l’Ucraina!
Ci aspetta un periodo molto complicato. Comunque, lo voglio ribadire, il problema non è più il passato; se continuiamo a fare l’Angelus Novus, riguardo le disgrazie del passato, non capiamo la Germania. Il problema della Germania oggi è il suo futuro, e quindi anche il nostro.
Nel futuro vedi una comunità politica europea?
Io penso che l’Europa abbia un senso anche per il futuro strategico del pianeta. Se riesce a giocare un ruolo di potenza. Finora ha svolto il suo lavoro con le spalle coperte dall’America, che le dava la garanzia militare. Adesso per un verso l’America ha altri problemi, la Cina, e comunque non sappiamo come evolverà quel paese: fino a Trump, l’alleanza occidentale era data. Con Trump si è ritornati agli anni Trenta, all’isolazionismo americano. Con Trump abbiamo vissuto la solitudine dell’Europa.
Ecco, in una situazione del genere, chi potrebbe tenere in rotta la barca? Forse Draghi o la Von der Leyen.
Qui vanno messe in conto anche le spinte che arrivano dai vari paesi. La simpaticissima premier finlandese, liberale, paladina dei diritti degli omosessuali, sulla guerra ha una posizione radicale: “Qui finisce solo quando Putin perde”. Cioè dice esattamente quello che dicono un polacco e un ungherese. E idem dicono a Vilnius o in Lettonia. Non solo, ma Putin si sta portando l’acqua in casa, perché ha portato la Nato ai suoi confini.
Certo è che dopo il 2014, nonostante le proteste ucraine, polacche, dei paesi baltici, la Germania ha costruito -insieme alla Russia- il Nord stream 2. Grazie a una lobby socialdemocratica feroce: tutto il gruppo intorno a Schroeder, quindi alla cancelleria di Hannover, da dove proviene il presidente della repubblica Steinmeier, con la acquiescenza, complicità della Democrazia cristiana della Merkel. Gli americani e gli ucraini li avevano scongiurati di non farlo e invece niente. E adesso ci ritroviamo nella situazione in cui ci troviamo.
La cosa interessante -evento mai avvenuto nella storia europea- è che tutta la classe dirigente tedesca, da Steinmeier a Scholz, fino all’ultimo grande esponente della vecchia guardia democristiana, Schäuble, tutti hanno sentito il bisogno di dire: “Chiediamo scusa, ci siamo sbagliati. Non abbiamo capito nulla”. Hanno ammesso: “Stavamo dalla parte sbagliata”.
Benissimo, il fatto è che non sappiamo quale sia per loro la parte giusta, adesso. Va bene la Zeitewender, la svolta. Dopodiché qual è la strategia?
Ora, venendo alla domanda, io non credo all’idea degli Stati Uniti d’Europa. Gli Stati Uniti sono diventati una nazione dopo che erano diventati uno stato. L’Europa è fatta di nazioni che sono diventati stati. Non solo: con quale sistema voteremmo il nostro presidente? Perché se vale una testa un voto, i tedeschi eleggono il loro, no? Sono di più. Allora serve un voto tarato cioè non democratico, come negli Stati Uniti. Secondo, che lingua usiamo? Infine c’è la vecchia domanda, che si faceva Stefan Zweig: perché gli europei amano le nazioni e non amano l’Europa?
Il fatto è che l’appartenenza è una cosa che si costruisce nel tempo, piano piano, avendo due passaporti, quattro cittadinanze, parlando tre lingue… è un processo lungo e complicato. L’idea degli Stati Uniti d’Europa è una bellissima formula, ma temo sia una illusione, anche un po’ fuorviante. Oggi noi dobbiamo costruire un’Europa unita fatta di stati e di un parlamento europeo, di un commissione europea, di diversi livelli di governance. L’idea fondante non è che gli stati nazionali devono morire, ma che gli stati nazionali europei non ce la fanno, quindi per fare le cose che da soli non sono in grado di fare si mettono insieme. Come dice Winkler, sono “Stati nazionali post-classici”. Mentre lo stato nazionale classico ha per sé tutta la sovranità, quello post-classico delega una parte della sua sovranità a un’istituzione collettiva. Però continua a esistere.
Io sono arrivato a questa convinzione, con una semplice esperienza personale. A metà degli anni Novanta ero a Berlino. A un certo punto vedo che cominciano a costruire un grande palazzo. Vado a vedere: il Ministero degli Interni. Allora penso: se tu dopo cinque anni dalla caduta del Muro, quando tutti parlano di Europa unita, la prima cosa che fai è costruirti il Ministero degli Interni, tra l’altro in un palazzone… vuol dire che rimani con l’idea dello stato nazionale... che poi tratterà pure col ministero degli interni italiano, francese, anzi si metteranno in comune…
Però, per dire, prima che lo stato deleghi a una potenza europea la propria difesa, cioè che pensi: io non mi difendo più, perché c’è l’Europa che mi difende… beh, ce ne vuole! Perché devi essere proprio sicuro sicuro che non ti voltano le spalle. Ci si arriverà, probabilmente, però considerando che ora non riusciamo neanche ad avere le targhe delle macchine comuni!
Detto questo, se l’Europa regge questa prova, il tasso di livello di appartenenza sale. Perché non sale solo con i viaggi all’estero degli studenti. Nasce con l’esperienza esistenziale.
Il contadino siciliano è diventato italiano anche, purtroppo, nelle trincee della Prima guerra mondiale.
Se, a un certo punto, in nome della difesa degli ucraini dall’aggressione, l’Europa, faticosamente, tra mille mal di pancia, tra mille rinunce, riuscirà in qualche modo ad avere una linea, a tenere, beh potremo dire che la bandiera europea avrà fatto un piccolo passo nella direzione dell’appartenenza all’Unione europea.
Purtroppo per ora la prima reazione qual è stata? Ah, ma l’adesione è complicata. Ho capito, ma quelli stanno morendo! Come se io stessi affogando e mi sento chiedere: “Ma hai pagato le bollette del gas?”, “Ma... io sto morendo!”, “Eh, ma ci sono le trattative, i soldi dell’agricoltura comune...”. Se noi avessimo fatto così, il Risorgimento ce lo scordavamo!
Per concludere?
Io penso che oggi la Germania sia un grosso punto interrogativo. Lo dico con grande sofferenza. Chi oggi dice che la Germania armata è pericolosa dice delle stupidaggini. Quel lavoro è stato fatto. È l’altro che non è stato fatto. Noi ancora non sappiamo come una Germania che ha elaborato criticamente il proprio passato saprà far fronte alle sfide future.
Io ho vissuto a lungo in Germania e li conosco bene; ho conosciuto la Germania occidentale, quella di Bonn, ho conosciuto la Germania del Muro di Berlino… Con Lilli Gruber andammo al congresso di scioglimento della Sed, e c’era Wolf, lo spione della Stasi; pensate che io andai a fare un’intervista per “L’Espresso” a Kurt Biedenkopf, all’epoca presidente del Lander della Sassonia, capitale Dresda. Era il 1991. Ebbene, per tornare a Berlino, presi un treno che si chiamava Heinrich Heine che andava da Dresda, via Berlino, fino a Parigi. Ed era la prima volta che poteva fare quella tratta dal 1914. Prima la Guerra, Weimar, le riparazioni, la guerra, le separazioni... nel 1991 quel treno per la prima volta riprendeva una tratta che durante la Belle Epoque si faceva comunemente. Quelli di San Pietroburgo andavano via Dresda a Parigi con quel treno lì. Pensate a cosa ha passato l’Europa!
(a cura di Barbara Bertoncin e Bettina Foa)