Professore, lei insegna neuroscienza e cognizione animale. Cosa studia esattamente la sua disciplina e quali sono i suoi obiettivi?
Come dice il termine, la cognizione animale comprende anche la cognizione della nostra specie -noi siamo animali. Quello che studia sono i processi cognitivi comunemente intesi: percezione, apprendimento, presa di decisioni, risoluzione di problemi. E di fatto anche gli aspetti emozionali e motivazionali del comportamento. Tutto questo viene studiato in prospettiva comparativa: si osservano questi processi mentali e psicologici e come vengono realizzati nelle diverse specie. L’obiettivo è quello di descriverli compiutamente e di capire in che modo siano generati dall’attività chimico-fisica del sistema nervoso.
Il suo ultimo libro si concentra sullo studio dei cervelli degli insetti. Sistemi nervosi molto piccoli: si parla di 960 mila neuroni per le api contro i nostri 86 miliardi. Perché ci dovrebbero interessare questi “cervelli miniaturizzati”?
La prospettiva che da sempre ha caratterizzato il pensiero scientifico è quella riduzionistica; un aggettivo che oggi ha quasi un sapore offensivo, per alcuni. Io credo invece che non lo sia. Di fatto l’approccio riduzionista nella scienza è sempre stato foriero di grandi risultati. Pensiamo, per esempio, al modo in cui i genetisti delle origini hanno cercato di enucleare i princìpi primi della loro disciplina: non hanno studiato gli esseri umani -che richiedono, per riprodursi, un sacco di tempo- ma piselli, come Mendel, o moscerini della frutta. Questo per varie ragioni tecniche, non ultima la semplice velocità della loro riproduzione.
L’idea era quella che i princìpi di funzionamento generali fossero i medesimi nel moscerino, nell’uomo, nello scimpanzé, nel topo, e così via. Questa strategia ha avuto grande successo nella storia della scienza. Io stesso (assieme a chi, come me, è incline a studiare questi sistemi nervosi “semplici”) penso che si possa imparare molto, tantissimo, dall’analisi di cervelli ridotti ai minimi termini: il loro principio costruttivo è fondamentalmente il medesimo, per loro e per noi.
Lei cita esperimenti che lasciano abbastanza esterrefatti. Le vespe riconoscono i volti; concetti basilari della cognizione, come “uguale-diverso”, “alto-basso” possono essere appresi in poco tempo dalle api. Non solo: è stato dimostrato che le api riescono a distinguere un quadro di Picasso da un quadro di Monet. Come fanno?
Come facciano, ovvero che tipo di meccanismi usino per farlo, non lo sa nessuno. Esattamente come non sappiamo come facciamo noi a riconoscere implicitamente uno stile pittorico dall’altro. In alcuni casi, quando gli indizi sono molto evidenti, riusciamo a capirlo: dopo aver visto un certo numero di quadri di Modigliani, riconosco il suo stile. Il collo lungo, gli occhi neri... sono caratteristiche evidenti e facilmente associabili. In altri casi, invece, il resoconto verbale che possiamo dare di un’opera è molto vago. Una persona, davanti a un quadro, può dire: “Questo mi sembra lo stile di Dalì”, ma non sa esprimere che cosa esattamente lo renda tale. In questi casi -e ciò deve essere vero anche per l’ape- ci sono dei calcoli fatti dal sistema visivo, piuttosto fini, basati probabilmente sul riconoscimento di certe regolarità statistiche presenti nell’immagine e ricavate dai vari esemplari che consentono di dare un giudizio di stile pittorico. Chiaro che, nel caso dell’ape, è un giudizio puramente percettivo; mentre nelle specie umana ci può essere un aspetto semantico, di riconoscimento storico-culturale, basato su quello che abbiamo imparato nella nostra vita, e così via. Chiaramente i due casi non sono i medesimi. Il punto che voglio sottolineare è però un altro: quali che siano i meccanismi usati, tutte le evidenze ci suggeriscono che siano i medesimi nelle diverse specie; i processi fondamentali del pensiero sono probabilmente gli stessi in quasi tut ...[continua]
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