La fisica contemporanea sostiene che il tempo non esiste; la neurobiologia invece ne cerca l’origine e il funzionamento. Il suo ultimo libro è attraversato da una robusta polemica contro la fisica teorica che continua a ignorare i risultati delle neuroscienze circa il senso del tempo. Come si spiega questa situazione?
Due discipline molto avanzate, la fisica e la neurobiologia, sullo stesso tema, il tempo, si ignorano: è una bizzarria della cultura moderna. L’idea che il tempo non esista, dal punto di vista neurobiologico, è inaccettabile. Con dati ripetutamente confermati dalla ricerca, la neurobiologia oggi dimostra che cos’è il tempo e da dove viene.
La fisica non ha mai preso in considerazione i dati della neurobiologia e sostiene che il tempo sia un’illusione tenace, un’illusione che ci impedirebbe di capire la natura dell’universo. Ma la sua negazione del tempo si basa esclusivamente su equazioni senza riscontro con la realtà. Non si trova, provare per credere, nessun libro di fisica da Newton in poi che tenti di spiegare che cosa sia il tempo o da dove venga.
La questione del tempo è antica quanto la storia del pensiero e i filosofi ci s’incaponiscono da quando esiste la scrittura. Mi ha stupito leggere dell’importanza di Immanuel Kant per le neuroscienze. Kant diceva che il tempo è una “forma a priori della conoscenza”. Oggi si può dire che aveva ragione?
Totalmente. Kant ha creato i fondamenti delle neuroscienze cognitive, e non solo per il senso del tempo. Hermann von Helmholtz, una delle più grandi menti scientifiche della storia, conosceva bene Kant. Nell’Ottocento, in Germania (che era allora la patria della scienza), Kant era considerato il “filosofo dei fisiologi”.
Naturalmente non parlava di cervello: Kant usa l’espressione “Form des inneren Sinne”, cioè “forma del nostro senso interno”. Per lui il tempo, come anche lo spazio e la causalità, non sono frutto dell’esperienza, ma sono a priori rispetto a essa. Il tempo è nel nostro senso interno, nella nostra interiorità.
In parole più semplici: veniamo al mondo ereditando geneticamente i meccanismi del senso del tempo nel nostro cervello, che hanno bisogno di due o tre anni per maturare e funzionare bene. Nel complicatissimo “traliccio” nervoso del senso del tempo inseriamo le esperienze non solo del mondo, ma anche dell’interiorità: riflessioni, ricordi, progetti, stati d’animo; e grazie al senso del tempo tutto acquista un’ordinata sequenza temporale.
Ha citato Helmholtz, uno dei padri della neurofisiologia. Può spiegare come si passa da Kant alle zampe di rana?
Come dicevo prima, Hermann von Helmholtz era un grande studioso di Kant; scrisse anche un saggio sull’importanza di questo filosofo per le neuroscienze.
Nel 1849, all’età di 28 anni, Helmholtz dimostrò che uno dei principi fisiologici che si ritenevano assolutamente indiscutibili, quello della simultaneità fra un evento e la percezione cosciente che se ne ha, era sbagliato. Lo fece studiando l’elettricità animale.
Era convinzione indiscutibile, basata sul concetto del vitalismo, cioè di una forza propria della sola materia vivente, che la stimolazione elettrica di un nervo e la contrazione del muscolo innervato fossero simultanee. Ciò corrisponde all’esperienza, ma non alla realtà. Helmholtz dimostrò che fra stimolazione e contrazione esiste un intervallo che è tanto più lungo quanto più lungo è il nervo che lo stimolo percorre per arrivare al muscolo. Il cervello sopprime quel tempo, che è perduto per la coscienza e per la memoria.
Scoprì quel che oggi si chiama tempo di relazione: l’intervallo, di cui non si è coscienti, fra qualsiasi percezione o attività interiore e la coscienza che se ne ha. C’è una frase bellissima, che compendia le sue ricerche, in una lettera che Helmholtz scrive al padre: “I nostri pensieri sono molto più lenti di quanto ci sembra”, perché non siamo coscienti del tempo necessario ai meccanismi nervosi per elaborarli.
Perché è stata una scoperta così importante?
Helmholtz dimostrò che fra ciò che succede nella nostra interiorità e ...[continua]
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