Claudia Gamondi è responsabile del Servizio di cure palliative e di supporto dell’ospedale universitario di Losanna.

Puoi parlarci di come funziona il suicidio assistito in Svizzera?
Credo sia opportuno premettere un chiarimento sulle definizioni: si parla di eutanasia quando è il paziente a chiedere di morire, ma è il medico o l’infermiere professionista a iniettare la sostanza che lo condurrà al decesso; nel suicidio assistito è invece il paziente che assume da solo la sostanza letale, o bevendola o aprendo la flebo.
In Svizzera non esiste una legge federale. Dei 26 cantoni, alcuni, come quello dove vivo io ora, hanno una legge che regolamenta il suicidio assistito nelle istituzioni pubbliche. Teniamo presente che questi casi rappresentano tuttavia una minima parte, in quanto il 95% dei suicidi assistiti avviene a casa. L’articolo, il 114, del Codice Penale, afferma che chi, per motivi non egoistici, aiuta qualcuno a suicidarsi, non è punibile. L’avvocato Ludwig Minelli, fondatore dell’associazione Dignitas, è partito proprio da questo articolo per dar vita al movimento delle Right to Die Association. In passato ne abbiamo avute fino a sette in Svizzera. Oggi sostanzialmente esistono Dignitas ed Exit International, Pegasos e Lifecircle, che accolgono anche le richieste di persone non residenti, e poi Exit Ticino e la sua consorella nella Svizzera francese, l’Association pour le Droit de Mourir dans la Dignité (Admd), che invece accettano solo i residenti.
Come funziona questo modello svizzero? Tecnicamente il medico deve certificare due cose relative al richiedente: che è capace di intendere e di volere (e per fare questo non per forza serve uno psichiatra, lo può consultare se ha dei dubbi ma non è obbligatorio) e che ha una sofferenza intollerabile.
Parliamo di sofferenza fisica o anche psicologica?
Qualunque genere di sofferenza insopportabile. Va poi garantito che al paziente siano state spiegate le varie possibilità di cura, se ci sono, che le abbia accettate e provate senza successo o che si sia rifiutato di provarle. Il medico deve incontrarlo due volte e assicurarsi che lui abbia un desiderio autonomo, che non ci sia nessuno che lo spinga a prendere questa decisione e che sia stato debitamente informato. Nel sito della Swiss Academy of Medical Sciences (www.samw.ch) sono indicate le linee guida: il medico deve certificare la capacità di intendere e volere, deve dimostrare di essersi impegnato a comprendere la situazione concreta del paziente e infine quest’ultimo deve averlo convinto. Ovviamente il medico non può aiutare una persona sana, ma può aiutare un paziente con anoressia nervosa refrattaria, con una depressione refrattaria e altro. Come accennavo deve illustrare le alternative al paziente, il quale ovviamente non è obbligato a seguirle. A quel punto il paziente deve recarsi da un secondo medico per avere la prescrizione della sostanza. In genere il medico che redige il certificato non è lo stesso che farà la prescrizione; qualunque medico in Svizzera può prescrivere il farmaco, cioè venti grammi di pentobarbital sodico, che vengono consegnati al paziente oppure si passa attraverso la Right to Die Association, che ha una sua farmacia centrale che procura il farmaco e lo conserva finché il paziente non decide la data.
Il giorno scelto, il farmaco viene sciolto nell’acqua e il paziente lo beve, oppure viene somministrato tramite una flebo che sarà aperta dal paziente stesso. Se non fosse così, diverrebbe eutanasia e questa in Svizzera è perseguibile penalmente, perché viene considerata come un omicidio. Questo significa che se un paziente, a me è capitato, dopo aver bevuto, vomita e rimane incosciente, tu non puoi fare nulla perché se no diventi colpevole di omicidio. In Belgio e nei paesi che permettono l’eutanasia, se il paziente ha bevuto e non è morto, puoi procedere tu all’iniezione. Comunque, in realtà è una complicanza rarissima, in genere la morte avviene in modo rapido e pulito, in tutti i sensi.
Una volta avvenuto il decesso, il medico deve redigere un certificato di morte non naturale. Dopodiché arriva la polizia, svolge un’indagine e se trova tutte le carte in ordine e le risposte alle domande sono convincenti, libera il caso e il corpo. In alcuni casi sono state eseguite delle autopsie, in altri no; è il procuratore che decide cosa fare.
Se il decesso avviene all’interno dell’ospedale, i medici e gli infermieri non possono partecipare al suicidio, quindi anche se il paziente ti chiede di rimanere nella camera, l’ospedale te lo vieta. Lo puoi fare nella tua veste di cittadino, quindi ti togli il camice ed entri, ma non puoi partecipare e non puoi prescrivere tu il farmaco. Si occupa di tutto la Right to Die Association che il paziente ha scelto.
Quello svizzero è un modello complesso. Puoi illustrare le varie figure e i rispettivi ruoli: paziente, famiglia, medico, associazioni?
Va detto che queste non sono decisioni che saltano fuori dall’oggi al domani: questi pazienti sono persone caratterizzate da un certo modo di pensare alla vita, e alla propria dignità, molto legato all’autonomia fisica e psicologica, quindi non vogliono che altri ne prendano il controllo o hanno il terrore di poterlo perdere. Di solito sono consapevoli che in questo paese esiste questa possibilità e già da sani hanno pensato di poter fare questa scelta in caso di bisogno, pertanto, quando si ammalano, coerentemente perseguono questa strada.
Ci sono poi le famiglie che supportano i pazienti anche dal punto di vista ideologico, quelle che, anche se contrarie, li sostengono per un atto di altruismo e di amore, e infine quelle che si oppongono in modo risoluto.
Per quanto concerne il ruolo del medico, dipende un po’ da come lo interpreti. Io sono una che ci tiene a parlare con i pazienti, quindi chiedo sempre se sono iscritti a un’associazione, come si immaginano il loro fine vita, e dico loro che sono disponibile a parlarne perché preferisco fare un piano di cura che integri anche questi desideri. Ci sono anche medici che, per motivi filosofico-morali o altro, sono assolutamente contrari. Di questi ultimi, alcuni non lo dicono e altri invece lo dichiarano apertamente: “Guardi, non è con me che deve parlare di questo”. Alcuni indicano a quale medico rivolgersi. Non c’è un codice di comportamento definito; con la società svizzera stiamo cercando di crearlo, di scrivere una carta di raccomandazioni ma non è cosa semplice perché si toccano temi molto delicati.
C’è una polarizzazione del dibattito sui diritti che spesso si arrocca su argomentazioni controverse di tipo politico, religioso e morale; i pazienti si muovono all’interno di questo sistema, trovando le loro soluzioni.
La mia opinione è che siccome questa cosa comunque accade, è preferibile parlarne; vanno fornite le cure migliori nel rispetto però dei valori del paziente. Sappiamo che questi sono temi che muovono gli animi, li accendono. Mi è capitato spesso, quando porto i risultati delle nostre ricerche ai congressi, soprattutto quelli internazionali, di essere additata come una specie di attivista, cosa che in realtà non sono. Su questo tema ho cambiato mille volte idea e verosimilmente la cambierò altre mille. Rimangono decisioni difficili.
Per quanto riguarda i parenti, l’isolamento e la paura di essere stigmatizzati come familiari di un paziente morto per suicidio assistito è una di quelle cose che fa più male nel lutto. Tuttavia nessuno ha mai dimostrato che queste persone in lutto stiano peggio dei parenti di una persona mancata di morte naturale. Una morte travagliata in ospedale e con accanimenti terapeutici può essere vissuta peggio. Insomma, non abbiamo alcun dato per dire che questo lutto è più facile o più difficile di un altro. È invece certo che quando stigmatizziamo e isoliamo come società questi familiari, facciamo loro del male.
Io poi non credo sia giusto usare il termine suicidio in questi casi, anche se poi ci mettiamo l’aggettivo assistito. Sono nomenclature vecchie, inappropriate: Stati Uniti, Nuova Zelanda, Australia, Canada non usano mai questa parola.
Quali diciture vengono usate altrove?
In Australia lo chiamano Vad, Volontary assisted dying, in Canada, Mad, Medical aid in dying; la legge dell’Oregon, una delle più vecchie, parla di “Death with dignity”; quasi tutte includono la formulazione “aiuto a morire” o il termine “dignità”. Nessuno, a parte Svizzera, Italia, Belgio e Olanda, forse per un retaggio religioso, lo chiama ancora suicidio.
Hai spiegato che il suicidio assistito è stato depenalizzato e che non è propriamente un diritto del cittadino, quindi non esiste un corrispondente dovere da parte dei medici.
In effetti formalmente non è un diritto, anche se dalla società viene percepito come tale, per cui c’è questo scarto tra la legge e il sentire delle persone. Personalmente non ho mai incontrato medici che dichiarassero di essere obiettori in modo aperto, di solito evitano di parlarne con il paziente, il quale capisce e va a cercare un altro medico. Non è una buona pratica ma spesso accade: quando il paziente percepisce o ha il sospetto che il medico sia contrario, non ne parla perché ha il terrore di essere poi fermato. È infatti sufficiente che un medico scriva nel certificato che il paziente è depresso per complicare le cose; i pazienti lo sanno molto bene ed evitano.
In questi anni in cui hai seguito queste vicende come hai visto cambiare la società?
Ho visto la società cambiare con una rapidità enorme, molto più veloce di quanto non sia avvenuto per il corpo medico. Ho anche capito l’importanza e il ruolo del contesto sociale in cui nasce o non nasce una legge sul suicidio assistito.
Per dire, l’Olanda ha regolamentato una pratica che già accadeva da anni. In Svizzera, un avvocato, a partire da un articolo di legge, ha dato vita alla prima Right to die Association; in Canada i vari stati hanno leggi un po’ diverse. D’altra parte la cultura in cui viviamo conta: un medico spagnolo non è come un medico olandese e così via.
Una delle peculiarità del modello svizzero è il ruolo delle associazioni e una sorta di passo indietro da parte dei medici.
Negli altri paesi l’eutanasia e il suicidio assistito sono, diciamo così, in mano ai medici. In Svizzera, praticamente unico paese al mondo, il medico fa il certificato, prescrive la sostanza, ma poi non se ne occupa più. Questo ha dei pro e dei contro. Certo, il fatto che esistano queste associazioni che fanno il “lavoro sporco” fa sì che i medici svizzeri esitino a riappropriarsi di questa materia. Diciamo che oggi questa pratica è più legata alla società che alla medicina. In Canada, al contrario, si parla di “medical aid in dying”, cioè di aiuto medico al decesso. Comunque in Svizzera ci sono otto milioni di abitanti e di questi il 26% è iscritto a una Right to Die association. Nessun partito politico conta un tale numero di aderenti. Quindi c’è un movimento sociale consolidato: non tutti gli iscritti praticheranno un suicidio assistito, ma tutti quelli che aderiscono ritengono che sia giusto poter scegliere.
Uno dei dibattiti ricorrenti, anche qui in Italia, riguarda il rischio del cosiddetto slippery slope, cioè di una “china pericolosa”...
Allora, intanto ricordiamo che uno dei requisiti è la competenza, quindi il paziente deve essere capace di intendere e di volere e deve fare questa richiesta ripetutamente.
È chiaro perciò che un paziente con demenza non può accedere a questa pratica; così come una persona competente e contraria semplicemente non vi ricorrerà, nessuno la obbliga; insomma mi sembra una tesi molto debole.
Diverso è il tema della percezione della pressione sociale, che è anche molto soggettivo. Un anziano bisognoso di un’assistenza molto costosa, casomai con una famiglia in difficoltà, può iniziare a sentirsi un peso sociale. Qui però il discorso diventa sociologico e impone di andare a fondo sull’origine e le ragioni di tali pressioni, e allora che dire delle pressioni dei social? Per coerenza dovremmo preoccuparci allo stesso modo di tutte le pressioni potenzialmente lesive che una società produce. Trovo che l’argomento dello slippery slope qui sia davvero poco difendibile. Il caso dell’eutanasia è un po’ diverso perché è sicuramente più facile farsi uccidere che uccidersi. Personalmente trovo questa discussione molto ideologica, poco fondata e spesso strumentale. Tra l’altro non dimentichiamo che stiamo parlando di una percentuale minima dei decessi. Se la preoccupazione è prevalentemente di tipo morale, mi viene da chiedere: “Ma cosa stiamo facendo per l’altro 96-98% delle morti?”. C’è qualcuno che si preoccupa di come muore la gente in Italia?
Dicevi che il numero maggiore di suicidi assistiti avviene in casa. Cosa succede? Come si organizzano le famiglie?
C’è una data prefissata: alcuni pazienti scelgono di avere delle settimane per salutare amici e parenti, per organizzare cene di addio, libretti, filmati, lettere. Altri non fanno proprio niente. Ognuno organizza la propria morte come può e come desidera. Il giorno concordato arriva l’organizzazione scelta, ripropone tutte le domande; esiste una precisa procedura per assicurarsi che la persona abbia compreso tutto e sia ancora convinta. Dopodiché viene montata la flebo o preparata la bevanda. La famiglia a volte è tutta presente, a volte ci sono solo alcuni membri, a volte non c’è nessuno. Poi viene chiamata la polizia, che può arrivare con la sirena spiegata e gli uomini in divisa, o con poliziotti in borghese e silenziosamente, così da rendere la cosa meno plateale. Non c’è una regola. Ultimamente arrivano in borghese e senza sirene, perché in effetti non c’è urgenza, quindi è più appropriato come intervento.
Hai citato il turismo del suicidio, come funziona?
I pazienti possono contattare Dignitas da tutto il mondo; inviano delle mail, vengono spediti i vari certificati, gli esami strumentali; dopodiché ci sono delle équipe mediche che valutano la richiesta e, se questa viene accettata, viene organizzato il suicidio. Normalmente i pazienti arrivano qualche giorno prima, dipende da alcune variabili, tra cui il paese di partenza. Alla data stabilita ci si reca in un posto dove avviene il decesso. Dignitas aveva affittato degli appartamenti, poi però i proprietari hanno reciso i contratti perché i condomini si erano lamentati di avere sempre la polizia e il carro funebre sotto casa. Adesso so che si sono dotati di locali adibiti e il paziente viene ospitato lì.
Resta il problema dei costi: rimane una cosa per ricchi...
Sono costi abbastanza fissi, intorno ai diecimila euro. D’altra parte i costi sono comprensivi dell’espletamento delle pratiche burocratiche, della conservazione e trasporto della salma, del servizio funebre. Occorre calcolare che qui un funerale di base con la bara low cost, costa almeno cinque o seimila euro.
L’altro argomento classico contro la depenalizzazione del suicidio assistito è che basterebbe aumentare le cure palliative...
Le cure palliative ci sono in tutti i paesi dove esiste il suicidio assistito: Belgio, Olanda, Canada. Questo è proprio un argomento falso: sviluppare le cure palliative è un dovere della società, punto, non una risposta alla richiesta al suicidio assistito. Per carità, di cure palliative non ce n’è mai abbastanza e possiamo fare di più, ma questo è un discorso che deve essere fatto indipendentemente dalla legalizzazione del suicidio assistito.
I dati poi ci dicono che i paesi con il miglior sviluppo delle cure palliative vedono un tasso di eutanasia maggiore, mentre quello relativo al suicidio assistito rimane uguale. Il fatto è che non possiamo curare tutte le sofferenze; anche nell’ambito delle cure palliative non dobbiamo porci in una posizione di totipotenza. Anche perché le sofferenze di questi pazienti sono per la maggior parte psico-esistenziali. Noi ci impegniamo affinché nel paziente che cerca un suicidio assistito la sintomatologia fisica sia il più controllata possibile, però la perdita dell’autonomia è un dato di fatto in questo tipo di malattie e su questo siamo francamente impotenti. Come dicevo, parliamo di pazienti consapevoli, che in fondo fanno delle scelte esistenziali. Io da sempre lavoro per un aumento dell’efficacia e della diffusione delle cure palliative, perché sia garantita un’equità di accesso. Ma, ripeto, questo discorso non ha nulla a che vedere con la prevenzione dei suicidi assistiti.
L’ultimo report pubblicato dal governo canadese sulla morte medicalmente assistita riporta che nel 2022 il 77% dei pazienti che sono ricorsi al suicidio assistito avevano ricevuto delle cure palliative. Tra quelli che non le avevano ricevute, la metà avrebbe potuto beneficiarne, ma non le ha volute. Questi sono dei dati inconfutabili. Noi non dobbiamo creare dei percorsi antinomici. Non dobbiamo dire: “Ci sono le cure palliative oppure il suicidio assistito”. Il messaggio che dobbiamo dare è: “Ci sono le cure palliative, punto. Dopodiché lei ha la libertà di scegliere...”. Purtroppo, ripeto, il problema principale è un altro. Sempre il report segnala che per quasi il 90% dei pazienti la principale sofferenza è l’incapacità di svolgere attività che diano un senso alla vita. Noi non abbiamo iniezioni da somministrare tre volte al giorno per restituire un senso o delle pastiglie per dare dignità. Nella “natura della sofferenza” di chi ha scelto questa morte viene indicato un inadeguato controllo del dolore assieme però alla preoccupazione preventiva di trovarsi in una condizione di dolore incontrollabile. Qui parliamo del 59% dei pazienti. Il 53% indica come ragione della sofferenza la “perdita della dignità”. Il 35% il fatto di sentirsi un peso per i familiari, il 30% la perdita del controllo delle funzioni fisiologiche.
Il Canada elabora i rapporti migliori e più leggibili non solo per noi professionisti, ma per chiunque sia interessato ad approfondire il tema.
Ci sono anche i dati relativi ai pazienti che hanno cambiato idea, che sono circa l’1,9%. Ebbene, di questo 1,9%, il 41%, cioè meno della metà, indica come motivazione le cure palliative. Questi sono i dati, questa è l’evidenza. Quindi prima di dire che le cure palliative eliminano il suicidio assistito... Detto questo, rimane indubbio che le cure palliative vanno implementate e migliorate, ma questo è un altro discorso.
In un tuo recente intervento al Congresso della Società Italiana di Cure Palliative, tenutosi a Riccione, invitavi gli operatori a non rimanere soli e anche a imparare ad avere a che fare con il “wish to die”, la volontà di morire.
Sono due cose per me importantissime. Il suicidio assistito fa paura, perché in fondo rompe un tabù: “non uccidere” è un tabù. Ora, quando rompi un tabù se lo fai in compagnia è più facile perché puoi confrontarti con i colleghi: guardiamo assieme questo paziente? Tu cosa ne pensi? Chiedi al tuo infermiere? Coinvolgiamo il consulente spirituale? Non è che sto mancando in qualcosa? Il confronto in équipe è basilare, perché parliamo di una sofferenza complessa e, come dico sempre io, nessuno è mai tornato indietro da un suicidio assistito. Quindi è necessario poter contare su una, per quanto relativa, certezza clinica e anche morale, di aver fatto un buon lavoro. Lavorare in équipe permette di sciogliere o almeno condividere una marea di dubbi e problemi.
Poi c’è l’altra questione, cioè che dobbiamo imparare ad avere a che fare con tutto questo. L’80% della società svizzera è d’accordo sul suicidio assistito, vuole che esista questa possibilità. Tanti paesi lo stanno legalizzando. Oggi circa 150 milioni di persone vivono in paesi dove questa pratica è possibile. Crediamo davvero, come medici, di poter dire: “Io di questo non mi occupo”? Io penso di no, pertanto è necessario formarsi, imparare a sviluppare la capacità di parlare con queste persone, che sono destinate ad aumentare, perché la Francia prima o poi lo legalizzerà, l’Italia andrà avanti, l’Inghilterra è lì lì per farlo, l’Irlanda si farà trascinare e alla fine l’Europa tutta avrà il suicidio assistito; l’Australia e la Nuova Zelanda ce l’hanno già, il Canada ce l’ha; negli Stati Uniti alcuni paesi ce l’hanno... Insomma, dobbiamo imparare a parlare di queste cose con i pazienti e con la società in una maniera professionale e non legata ai nostri principi morali o religiosi, perché questo non ci porterà da nessuna parte. In passato uno degli allarmi era: “Se praticate l’eutanasia negli ospedali, la gente avrà paura di venire”. Qui il vero rischio è che accada il contrario, cioè che i pazienti smettano di parlare di questo con i medici!
(a cura di Barbara Bertoncin)