Puoi presentarti?
Mi chiamo Antonia Laghi, sono nata a Pievequinta, una frazione vicino a Forlì, il 2 ottobre del ’21. Ero la più piccola di otto fratelli, per questo la mia mamma, che comunque mi voleva tanto bene, mi ha sempre detto che in estate, non avendo dove mettermi, apriva uno dei cassetti del comò e mi faceva dormire lì. Altre volte dovevo dormire in fondo al letto delle mie sorelle, che erano più grandi e mi mettevano i piedi in bocca, io cercavo di difendermi, dando dei morsi. Insomma ho vissuto un’infanzia zingaresca, ma le famiglie in campagna allora erano tutte un po’ così, di lavoro non ce n’era, le fabbriche sono venute dopo, dal ’27-’28-’29… ma prima non c’era niente. Eri fortunato se i contadini del posto ogni tanto ti chiamavano e facevi una giornata, ma poi mica ti pagavano con i soldi, ti davano un pezzo di pane, un fiasco di vino, cose così. Nella mia famiglia non ho sofferto la fame, il pane c’era, ma poco altro. Però allo stesso tempo ho avuto un grande affetto da mia madre, che lei me la ricordo ancora.
Il mio babbo no, non lo ricordo, anche se lo so che li avrei dovuti amare tutti e due allo stesso modo. Non ho mai avuto una bambola, mai. Quando stavo poco bene chiedevo alla mia mamma una bambolina, allora lei me la faceva di stoffa, con le braccia e la riempiva di segatura. Poi quando è stato il momento, la mia mamma mi ha mandato anche a scuola. Ho frequentato la prima e anche la seconda, non ero molto brava, son sincera. In terza la scuola aveva organizzato una recita in cui dovevamo rappresentare i colori dell’arcobaleno e per farlo avevano scelto le bimbe più belline. Facevamo questa commedia e riuscivo anche bene. Andammo al circolo di Pievequinta, che allora era il circolo dei fascisti e ricordo che dovevo dire di essere il colore del cielo e il pubblico ci buttava delle caramelle. Poi, siccome eravamo abbastanza brave, fummo scelte per andare anche a Roma.
Tutti irregimentati nelle varie organizzazioni…
Sì, facevano anche a gara con altre classi, senonché, per venire a Forlì, ci voleva la divisa da piccole italiane, sottanina nera, camicetta bianca e la dovevamo comperare e la mia mamma si rifiutò. Così la scuola mi lasciò a casa. Dissero che senza divisa non potevo più frequentare, ero a metà anno della terza. A me è dispiaciuto molto, anche perché nel foglio scrissero che lasciavo per insufficienza. Così per lavorare andai al sindacato, perché anche allora per poterlo fare a 12, 13 anni, bisognava che uno della famiglia già sposato ti “prestasse” gli anni, cioè dicesse che si assumeva la responsabilità. In questo modo, grazie a mia sorella maggiore, a dodici anni andai a lavorare alla Becchi e l’anno dopo alla Mangelli. Facevo venti chilometri al giorno, dieci per andare e altrettanti per tornare.
Da sola, in bicicletta?
Certo. Facevo anche i turni dalle sei alle due e dalle due alle dieci, che poi al ritorno avevo paura anche della mia ombra. Però per farmi compagnia cantavo forte. Voi non l’avete mai visto il bosco della tenuta Mangelli, ma era un bosco bellissimo e tremendo da attraversare di notte. Io ci arrivavo verso le undici. Le foglie di questi alberi parlavano e io, per un tratto abbastanza lungo, dovevo proprio passare da lì. Per me era una tragedia tutte le sere…
Non c’era nessun altro da Pievequinta che veniva?
Sì, dopo magari sono venute delle altre… però ho avuto un periodo che lo facevo da sola perché i miei turni non combinavano con gli altri. L’unica preoccupata era la mia mamma, poveretta. Sempre mi chiedeva se avevo avuto paura, intanto però portavo a casa un po’ di soldi. E non avevo ancora 13 anni.
Ma la decisione di mandarti a lavorare la presero i tuoi genitori?
No, l’ho presa io, perché mi sono sempre sentita responsabile per la famiglia. Forse i miei non hanno neanche lottato tanto per mandarmi a scuola e anch’io forse non ne avevo davvero voglia. Dopo però, quando sono stata a casa, la vita è stata dura. Eravamo tanti e il babbo lavorava solo a giornata.
Non avevate la terra, non eravate mezzadri?
Non avevamo niente, eravamo solo dei braccianti contadini. Eravamo in otto, i miei genitori avevano una camera e una cucina e stavamo tutti lì. Uno dei miei fratelli era del ’13, l’altro del ’20, allora decisero di mettere un letto nella cucina di sotto, almeno di sopra eravamo solo noi femmine e i nostri genitori.
Come fu l’impatto con il lavoro nella fabbrica?
Alla Becchi non f ...[continua]
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