Federico Stella, avvocato, insegna Diritto Penale all’Università Cattolica di Milano.

Da dove nasce la necessità di rimettere in discussione il problema della pena?
Il problema fondamentale è quello di trovare gli strumenti più adatti per fronteggiare la criminalità, innanzitutto quella che provoca danni devastanti nella collettività: la criminalità organizzata, come mafia, ’ndrangheta, camorra, il commercio degli stupefacenti, quello illegale delle armi, la stessa criminalità ambientale, quella d’impresa. Sono tutte realtà estremamente dannose per la società civile. Pensiamo solo ai danni provocati dalla corruzione, saranno i nostri figli a misurarne l’ampiezza.
Ora, gli strumenti che possono essere usati per fronteggiare la criminalità sono molti e il diritto penale è certamente uno di questi, ma secondo me, inteso come strumento principale, se non unico, addirittura, per far diminuire la criminalità, è ormai superato. Ormai non c’è più nessuno che pensi che la pena abbia un effetto di prevenzione, così come possiamo escludere che abbia un effetto concretamente rieducativo. (E poi rieducativo a che cosa? Uno studioso tedesco diceva: "Mah, in una cultura liberale nessuno dovrebbe poter costringere un barbone a diventare ragioniere"). Pur essendo inefficace come deterrente l’intervento punitivo, in termini di sofferenza, ha dei costi talmente alti per le persone nei cui confronti si esplica, da risultare sempre più intollerabile per una società del Duemila. La nostra è una società che, in tutto il mondo, in ogni aspetto della vita umana, mobilitando ogni settore della conoscenza, combatte la sofferenza dell’uomo. Può restare accettabile un intervento punitivo che abbia un costo così devastante in termini di sofferenza? Il carcere significa l’annientamento psicologico di un uomo, significa vedere la propria vita passare davanti a sé, con la perdita della percezione del senso della vita e del tempo.

E’ inevitabile che ogni persona di buon senso si chieda se non ci siano altri strumenti per intervenire, magari più efficaci del diritto penale.
La mia obiezione è ancor più radicale: io arrivo a dire che anche se avesse un senso la pena, se servisse a far diminuire la criminalità, avrebbe ugualmente un costo troppo elevato in termini di sofferenza. La domanda che pongo ai miei studenti è: "Chi legittima tre persone riunite in camera di consiglio, che costituiscono un tribunale, a deliberare, freddamente e consapevolmente, dieci, venti, trent’anni di sofferenza per un uomo?". Quando Wiesnet dice che "da millenni gli uomini si puniscono e da millenni si chiedono perché", dice la verità.
E tuttavia la criminalità esiste e, come dice lei, dobbiamo fronteggiarla...
Ma se si limita la discussione al diritto penale, non se ne esce. Il problema è capire quali sono gli strumenti più efficaci di dissuasione dal commettere fatti illeciti. E’ questo l’interrogativo su cui, d’altra parte, non a caso, si sta arrovellando la comunità internazionale.
Io consiglio sempre di rileggere il Beccaria. La filosofia del Beccaria è condensata in queste parole testuali: "Meglio prevenire un delitto che punirlo". Questo vuol dire che la criminalità va fronteggiata prima che commetta i reati, non dopo, a cose fatte. Facile dirlo? Beh, io credo che se ci sedessimo intorno a un tavolo e dicessimo: "Adesso vediamo un po’ se esistono questi strumenti", avremmo bisogno di qualche giornata, ma alla fine usciremmo con delle idee un po’ più chiare. Le faccio un esempio di cui mi sto occupando: la criminalità d’impresa, quella, in particolare, delle grandi multinazionali, dei grandi gruppi, delle società per azioni, la criminalità economica insomma. Allo stato attuale, quando vengono scoperti i reati, noi interveniamo con il carcere e lei vede tutti i polveroni che vengono fuori, le lotte, le polemiche sui giornali; polemiche a volte giuste, intendiamoci, perché il problema dei danni provocati da quella criminalità alla società è veramente grave. Ma anche qui: non si può evitare di intervenire solo dopo?
Sa gli americani come hanno risolto questo problema? L’esempio è la differenza tra la lotta di sumo e la lotta di judo: la lotta di sumo è la lotta bruta, è il randello, il carcere, mentre nella lotta di judo ciascun lottatore cerca di sfruttare la forza dell’altro per usarla contro di lui. Che cosa fanno gli americani? Dicono: "Bene, se succede un fatto illecito nell’ambito di una società per azioni, noi diamo una pena pecuni ...[continua]

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