Marco Revelli, storico, insegna all’Università di Torino. E’ autore, tra l’altro, di Lavorare in Fiat, Garzanti 1989, e presso Bollati Boringhieri di Le due destre, 1996, La sinistra sociale, 1997 e Fuori Luogo, 1999. E’ consigliere comunale a Torino.

Tu hai seguito e anche vissuto di persona la vicenda del campo nomadi di Venaria, che poi si è conclusa molto amaramente. Le tue prese di posizioni, in particolare di critica aspra di una certa indifferenza della sinistra torinese, hanno suscitato anche reazioni. Ci puoi fare un po’ un bilancio?
Forse vale la pena di richiamare brevissimamente l’accaduto. La storia è quella semplice, di periferia, che potrebbe apparire marginale, di una piccola comunità di rom rumeni, che nel loro paese erano stati sedentarizzati, stabilizzati, durante il regime di Ceausescu, con una combinazione di dura coazione e qualche concessione. Funzionava così: chi veniva trovato a praticare il nomadismo doveva scontare sei mesi di carcere e poi all’uscita una casa e un lavoro. In seguito, se veniva ritrovato, la pena raddoppiava e così via. Questi erano diventati muratori, carpentieri, meccanici. Uno era un tecnico in una centrale nucleare, i figli andavano a scuola, vivevano in case di muratura, fino all’89, quindi alla caduta del regime, ma soprattutto alla crisi economica violenta degli anni successivi, nel corso della quale sono riaffiorati gli antagonismi etnici, l’odio contro i rom da parte soprattutto dell’altra minoranza più consistente, che è quella ungherese. Le case di alcuni sono state bruciate, tre della loro comunità sono stati ammazzati, e così a poco a poco è maturata la decisione di riprendere la strada, soprattutto da parte dei più giovani. Un folto gruppo di 350-400 persone è partito, è sceso costeggiando i grandi buchi neri della guerra civile iugoslava e della crisi dei paesi dell’est, ed è entrato in Italia dalla frontiera orientale; sono passati in Francia, alcuni forse sono arrivati fino in Spagna e poi hanno urtato contro i muri di Schengen, ne sono stati ributtati indietro, secondo la regola per cui a farsi carico degli immigrati dev’essere il primo paese d’entrata. Così sono atterrati, per così dire, a Torino, nell’avanzata primavera del ’98, accampandosi in una sorta di terra di nessuno, al confine tra il comune di Torino e il piccolo comune di Venaria Reale, su un terreno desolato, circondato dallo svincolo dell’autostrada, da capannoni industriali, senza erba, senza alberi, senza ombra, senza acqua, senza infrastrutture, senza niente. In un accampamento di piccole canadesi coperte di stracci hanno cominciato a sopravvivere lì, senza l’appoggio, il sostegno, l’aiuto di nessuno.
Le due amministrazioni di Torino e Venaria Reale hanno cominciato a palleggiarsi il problema: Torino sosteneva che per poche decine di metri erano nel comune di Venaria Reale (e così era dal punto di vista formale, amministrativo); Venaria sosteneva di essere un comune troppo piccolo per poter sostenere il peso di alcune centinaia di persone. Di fatto, nessuno ha portato il minimo aiuto.
Noi eravamo stati allertati dalla rete d’urgenza antirazzista e il primo sforzo che abbiamo fatto è stato quello di richiamare l’attenzione delle amministrazioni sul fatto che c’erano decine di bambini in questo gruppo, molte donne in avanzato stato di gravidanza, precarie condizioni igieniche. E però le autorità continuavano a far finta di niente, finché l’unità sanitaria locale, l’Asl, ha lanciato l’allarme rischio di epidemie e allora la risposta è stata: sgombero. A quel punto l’impegno è diventato quello di fermare la macchina repressiva.
La cosa è andata avanti fino all’autunno, quando la situazione è cambiata, perché il problema non era più il caldo torrido, bensì il freddo: tra la fine di ottobre e novembre la temperatura è scesa fino a quasi 10 gradi sotto lo zero. E’ a quel punto che alcuni di noi, per richiamare l’attenzione sul problema, hanno deciso di andare a dormire al campo, alcuni consiglieri comunali, gli amici della cooperativa Senza frontiere, che si occupava dell’aspetto sanitario, e alcuni ragazzi dei centri sociali.
Siamo così riusciti a tenere un colloquio con il vicesegretario agli interni, La Volpe, si è mossa la prefettura, si è attivata la commissione per la concessione dell’asilo politico (da loro richiesto, senza ottenere alcuna risposta), sono arrivate alcune tende non riscaldate. Qualcosa sembrava muoversi, ma dopo un mese di lavoro, dopo aver ascol ...[continua]

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