Pubblichiamo un estratto dell’intervento introduttivo di Marco Revelli ad una sessione del Convegno sul commercio equo e solidale svoltosi a Bologna il 18 maggio 1996.

Il libro L’economia solidale: una prospettiva internazionale si apre con questa affermazione: “Noi non viviamo una banale congiuntura di transizione; sono gli equilibri sui quali erano fondate le società sviluppate che sono irreversibilmente rimessi in causa. La lama della disoccupazione e dell’esclusione sta fessurando, per non dire sommergendo, tutte le dighe costruite per sbarrarle la strada. L’ampiezza delle trasformazioni in atto richiede una riflessione sulla ricomposizione dei rapporti tra economia e società”. Questo è il punto su cui interrogarsi: come ricostituire una nuova saldatura fra economia e società, fra queste due dimensioni che si stanno spaventosamente allontanando in seguito a profondi processi d’innovazione e ristrutturazione produttiva operanti sotto la superficie delle nostre società? Processi che stanno sconvolgendo, sul versante del mondo sviluppato, quel modello di ordine sociale che, con grandissimi limiti e a costo di furiosi conflitti sociali, in qualche modo aveva offerto una risposta al problema della coesione sociale attraverso il welfare state e la negoziazione dei conflitti. Sul versante dei paesi in via di sviluppo, questi processi stanno allargando violente diseguaglianze. Si tratta di due processi paralleli di entropia, di disorganizzazione. I dati, per quanto riguarda l’Europa, rivelano un processo catastrofico dal punto di vista dell’integrazione sociale: il tasso di disoccupazione, che fino alla metà degli anni ’70 si era mantenuto al di sotto del 2,5-2,6%, è andato via via crescendo fino a sfondare la soglia del 10% nel 1985, e ora ha raggiunto il 12%. Questo significa che, nell’ambito dell’Unione Europea, ci sono quasi 20 milioni di disoccupati, più della metà dei quali sono classificati dalle fonti ufficiali come “disoccupati di lunga durata”, quindi come degli inoccupati.
Contemporaneamente, la dinamica della congiuntura economica si rivela refrattaria ai tradizionali interventi di politica economica. Gli attuali processi economici, anzi, si rivelano sempre più ingovernabili e, dominati dalla eterogenesi dei fini, producono effetti esattamente opposti a quelli desiderati. Il sostegno agli investimenti, per fare l’esempio di una tradizionale manovra anticiclica, anziché generare aumento dell’occupazione genera distruzione di posti di lavoro. Il nostro mondo ha cominciato a funzionare in modo schizofrenico, e lo stesso si può dire per il tasso di conflittualità. Questa, checché ne dicano oggi i neofiti del “pensiero unico”, nel modello sociale europeo è sempre stata una risorsa: conflittualità e negoziazione erano alla base di uno sviluppo in qualche modo regolato, producevano un sistema di garanzie, una rete di sicurezza sociale e, insieme, erano di stimolo alle dinamiche sociali. Il tasso di conflittualità, però, è precipitato fino a raggiungere il punto più basso nel 1995. Insieme a questo, è precipitato il tasso di sindacalizzazione: in Francia è passato dal 41,8% dei primi anni ’50 al 10,9% del 1995. La sindacalizzazione è in progressiva caduta anche in Italia, anche se occultata dalla sindacalizzazione dei pensionati, mentre in Germania, dove il sindacato è più cogestionale, ma più capace di resistenza, questo processo risulta più contenuto. Occorre aver chiaro che questi fenomeni non sono il prodotto di una fase transitoria, congiunturale, non sono quindi un momento di crisi dello sviluppo, ma sono la forma che lo sviluppo sempre più assumerà. All’origine di questi cambiamenti stanno tre fenomeni di lungo periodo: la trasformazione del sistema di lavoro nei paesi industrializzati, cioè il superamento del modello fordista e il passaggio al modello postfordista; la delocalizzazione e transnazionalizzazione della produzione e dell’impresa; la tendenziale finanziarizzazione dell’economia. Analizzando brevemente ognuno di essi, vediamo che la trasformazione della fabbrica significa robotizzazione just in time, automazione spinta di alcuni segmenti della produzione e riorganizzazione sistematica del lavoro di fabbrica. Questo comporta la rinuncia al modello fordista classico, che prevedeva la concentrazione dello sfruttamento e l’elaborazione di sistemi produttivi ampiamente massificati, programmabili, capaci d’imporre la propria razionalità strategica al mercato. La riorganizzazione ...[continua]

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