Luigi Saita lavora presso il reparto di Terapia del dolore e Cure palliative dell’Istituto dei Tumori di Milano.

Lei si occupa di terapia del dolore e cure palliative all’Istituto dei Tumori di Milano. Può parlarcene?
Fino a 10-15 anni fa si diceva: "lo porti a casa, non c’è più niente da fare". Degli ultimi 10,15,30 giorni si interessava solo il medico curante per quello che poteva fare. I dolori erano atroci, ma l’idea fra molti medici era ancora quella che "di cancro si soffre, è normale". La terapia del dolore è nata perché qualcuno ha detto "no, non è normale".
Io faccio terapia del dolore da ormai 12-13 anni. La terapia del dolore è una parte della medicina oncologica che si è sviluppata negli ultimi 10-15 anni, prima a livello internazionale e poi, con molte difficoltà, in Italia. Quando abbiamo cominciato eravamo in pochi, avevamo uno studio piccolo e facevamo fatica anche perché i farmaci utilizzati, a base di oppiacei, erano di difficile reperibilità nelle farmacie e c’era anche riluttanza a prescriverli. Fu perciò necessario sensibilizzare i farmacisti e i medici. Noi stessi, in verità, eravamo un po’ inibiti perché cominciavamo a fare una medicina "di confine" che non tentava di guarire, ma solo di alleviare le sofferenze.
Cominciava allora a farsi strada il concetto di terapia sintomatica: nelle fasi avanzate della malattia, quando il tumore non risponde più a trattamenti che diventano assolutamente invalidanti per il paziente senza dare risultato terapeutico, quando, cioè, il paziente entra in quella fase che viene chiamata, con una parola molto brutta, "terminale", il sintomo diventa esso stesso la malattia da curare. E in quegli anni il sintomo principale, sul quale quindi si concentrava l’intervento, era il dolore. Fu agli inizi degli anni ’80 che cominciammo a capire che insieme al dolore c’erano tanti altri sintomi che riguardavano tutti gli aspetti di una persona che soffre nelle fasi terminali della sua esistenza: il dimagrimento, la nausea, il vomito, le piaghe, le infezioni. Tutta la malattia, a quel punto, pur restando inguaribile, non era più considerata incurabile. Si passò così dalla terapia del dolore alla terapia palliativa, che è una specie di glossario di tutti i sintomi, dove ad ogni sintomo, in base alla sua eziologia, corrisponde un trattamento sintomatico, in modo da alleviare le sofferenze, procurando il minor numero di effetti collaterali.
Ma a quel punto, arrivati ormai a capire bene come funzionavano le cose dal punto di vista fisico, era inevitabile occuparsi anche delle problematiche psicologiche ed umane della sofferenza, tanto più rilevanti dal momento che proprio in quegli anni, a partire dalla fine degli anni ’70, i pazienti avevano preso sempre più coscienza della loro situazione, di essere, cioè, pazienti con una malattia oncologica grave, non più guaribile, destinata a un esito infausto in un tempo più o meno determinato.
Ora possiamo avere un’idea molto più globale del paziente sofferente che sta morendo o che è destinato ad una morte prossima, un’idea che tenga conto, cioè, contemporaneamente, delle sue esigenze fisiche, delle sue esigenze sociali, delle sue esigenze spirituali e psicologiche. Per noi questi 10-15 anni sono stati un’elaborazione continua, non ci siamo mai fermati a dire: "ecco, siamo arrivati, da qui in avanti si vive di rendita".
Ci siamo sentiti un po’ come dei pionieri, a cui non era concessa una situazione di stabilità: il lavoro, gli interventi, le problematiche non potevano essere definite, standardizzate. Qui si è sempre stati non dico sull’inventiva, ma quasi.
E possiamo dire di averne fatta di strada dai tempi in cui questi pazienti, quando le terapie non funzionavano più, si trovavano costretti a seguire sempre la stessa trafila: dimessi perché tanto non c’era più niente da fare. E veramente non si tentava di fare più niente, il paziente veniva lasciato al suo destino, la malattia aveva il sopravvento e la qualità della sopravvivenza, a casa o negli ospedali, diventava pessima perché privata di ogni supporto.
Il vostro territorio di impegno e anche di ricerca sembra avvicinarsi anche ai confini della scienza, della medicina, a volte sembra oltrepassarli.
In un istituto scientifico la maggior parte delle terapie che si svolgono sono terapie su base scientifica, il che vuol dire che sono in fase di studio e che quasi tutti i pazienti sanno che entrano in protocolli di studio, per verificare l’efficacia dei tratt ...[continua]

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