Giulio Montenero è stato direttore del Museo Revoltella di Trieste.

Trieste, per posizione geografica e vocazione economica, potrebbe essere il crocevia di un nuovo sviluppo verso il centro e l’est Europa. Perché la città stenta ad assumere un ruolo guida in questo processo?
In Italia pochi immaginano quanto sia stata scomoda la situazione di Trieste durante gli ultimi cinquant’anni. La sua provincia è una stretta striscia di terra, limitata da un confine -addirittura chiuso nei momenti di tensione con la Jugoslavia- che la circonda completamente, tranne il breve valico verso Monfalcone. Questo vicolo cieco è un cul-de-sac anche per quanto riguarda il destino degli abitanti. In esso si sono via via sedimentate nostalgie e insofferenze, partendo dal rimpianto per l’Impero austroungarico, e poi, via via, il vittimismo degli sloveni, il revanscismo dei nazionalisti italiani, la rabbia dei neofascisti, l’insoddisfazione degli esuli... Tutto ciò potrebbe essere cancellato in un prossimo futuro, quando la Slovenia entrerà a far parte dell’Unione Europea.
Anzi è la stessa Unione Europea che ha predisposto un programma di valorizzazione di alcuni porti baltici e di Trieste in funzione dell’espansione capitalistica verso l’est. Ma autorità, tecnici, imprenditori potrebbero lasciarsi sfuggire questa occasione di rinascita economica e geopolitica. Non è la prima volta nella storia che la città si mostra ostile a interventi innovativi che richiamerebbero flussi di immigrati destinati a coprire tutti i ceti, dalla dirigenza politica, economica e tecnica al proletariato. Durante tutto il Settecento i triestini -fra nobili e popolani erano poco più di cinquemila- si opposero all’iniziativa di Vienna, che, dopo la proclamazione del porto franco, nel 1719, promosse la costruzione della nuova città portuale. Ma lo sviluppo fu inarrestabile.
Nel 1914 Trieste contava 243.000 abitanti. Il porto era il quinto in Europa, i cantieri al settimo posto nel mondo. Il municipio poteva spendere nell’assistenza ai poveri 8,29 corone per abitante, mentre la quota di Vienna era soltanto di 5,76 corone. Oggi in questa città, così sollecita nel ripristinare monumenti asburgici e nel dedicare mostre, pubblicazioni e spettacoli all’epoca del dominio austriaco, l’intonazione prevalente è la rassegnazione, il rifiuto del nuovo.
Dove vanno ricercate le radici di quest’istintiva inclinazione alla conservazione?
A Trieste, nonostante il declino di questi decenni, si avverte una rassegnata accettazione del proprio ruolo, anche misero, purché guidato con benevolenza dai superiori, pronti a perdonare incapacità e abusi. E’ il clima favorevole al collaborazionismo. Uno storico tedesco ha scritto che il successo del nazismo è dovuto in larga parte all’atteggiamento dei piccoli borghesi appartenenti ai Paesi che circondano la Germania. Costoro bramano ordine e sicurezza, ma demonizzano i dittatori (come Hitler), condannano le idee forti e maggiormente i popoli forti (inclusi i 700.000 martiri tedeschi della Resistenza interna), e però sono passivi di fronte a un dominio straniero, del quale prevedono la breve durata e auspicano la caduta.
E’ per questo che il fenomeno Haider a Trieste è stato osservato con curiosità, quando non con simpatia?
Una simpatia c’è, ma sempre scettica e freddina, com’è tipico di una mentalità collaborazionista. Il fatto è che se domani i nazisti venissero qua, sarebbero accolti allo stesso modo. Con distacco, ma con prontezza nel fruire di eventuali vantaggi. E, in effetti, durante l’ultima guerra i nazisti a Trieste furono bravissimi. S’impegnarono molto, ad esempio, nel campo della cultura e della comunicazione. Crearono un settimanale illustrato modernissimo, tutto fotografie con didascalie quadrilingui: tedesco, italiano, sloveno e croato. Alla biblioteca del Museo Revoltella c’è un libro uscito negli ultimi giorni del dominio nazista: sprizza odio contro l’Italia, mentre gli artisti sloveni sono posti in prima fila, e ricerche minuziosissime documentano tutti i letterati di lingua tedesca che operarono a Trieste. In quel periodo i teatri funzionavano a pieno ritmo, vennero istituite la facoltà di lettere dell’Università e l’orchestra stabile del Teatro Verdi. L’efficienza si abbinava al terrore. I nazisti colpirono di preferenza gli ebrei poveri, minorati, ammalati. Molti morirono nel lager della Risiera, unico campo di sterminio nel sud dell’Europa, prima ancora di essere deportati in Germania, insieme a migliaia di al ...[continua]

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