Nel suo ultimo libro lei sostiene che è in crisi l’autocomprensione che la pratica poetica ha avuto di se stessa nella modernità e quindi è necessario che la poesia si riapra, che ritrovi uno spazio comunicativo. Ma cosa vuol dire che la poesia, e la letteratura in genere, deve ritrovare un’urgenza comunicativa?
Bisogna ricordare, comunque, che quando si tratta di letteratura, e in particolare di poesia, è sempre pericoloso parlare di “doveri” comunicativi. Certo, la letteratura comunica. E uno scrittore, un artista della parola ha capacità comunicative potenziate. Ma nel caso specifico della poesia contemporanea quello che importa è ormai rompere con certe convenzioni stilistiche di tipo gergale, auto-referenziale che si sono stabilite all’interno di una cerchia sempre più ristretta. Il fatto che questa cerchia sia da troppo tempo il solo pubblico della poesia, un pubblico fatto di gente che scrive o vuole scrivere poesie e di studiosi, ha debilitato questo genere letterario.
La debolezza, l’opacità comunicativa, l’oscurità o, più precisamente, l’inconsistenza semantica di molta poesia di oggi deriva dal fatto che quella piccola cerchia di lettori “fa finta” di capire, o accetta il fatto che non venga detto quasi niente e che non ci sia quasi niente da capire.
Il paradosso è questo: la fuga dal significato viene accettata dogmaticamente come significativa, e così l’oscurità non crea problemi comunicativi, anzi li annulla, li scavalca.
Eliminando dal linguaggio poetico tutta una serie di funzioni linguistiche legate al significato e alla comunicazione, la poesia non corre più nessun rischio. La sua è un’esistenza ipotetica, virtuale, larvale, non reale. E il codice del “non-significato” è diventato ormai un codice fissato rigidamente. Lo svuotamento semantico è diventata una delle regole fondamentali che creano fra cosiddetti poeti e critici una specie di complicità, di omertà.
La poesia non si confronta con niente che stia al di fuori di essa: con nessun altro linguaggio e ambito culturale. Il valore della produzione poetica degli ultimi vent’anni (parlo degli autori che hanno fra i trenta e i cinquant’anni) è assai scarso proprio per questa mancanza di coraggio e di energia comunicativa. Si tratta per lo più di poeti (simil-poeti) che cercano di farsi accettare semplicemente non facendo niente che possa farli rifiutare. Certo nella poesia possono esserci delle zone di oscurità e di difficoltà, perché la letteratura è anche una sfida ai significati stabiliti e accettati. Ma credo che ora il gergalismo poetico abbia toccato limiti intollerabili, ridicoli e che si tratta di tornare, se si è in grado di farlo, a parlare in poesia di tutto, senza limitazioni preliminari. Del resto la migliore poesia delle generazioni precedenti lo aveva fatto: da Pasolini a Caproni a Sereni... Si tratta di ripartire da zero, senza escludere a priori nessun tipo di linguaggio e nessun ambito di esperienza.
Ma è possibile uscire da questa modernità semplicemente proponendo un’altra poetica?
Il dibattito sul post-moderno ha fatto più confusione che altro. In un certo senso però esistevano dei chiari sintomi che in questa seconda metà del Novecento era avvenuto qualcosa di veramente nuovo e che alla Modernità era successo qualcosa. Anche perché ormai si trattava di una categoria teorica e di una serie di opere di cui si sapeva o si credeva di sapere quasi tutto. La Modernità non era più un’esperienza traumatica, era stata riassorbita o metabolizzata dalla critica accademica, era diventata luogo comune, convenzione, regola.
Credo d’altra parte che invece, al di là delle tante etichette e teorizzazioni, la Modernità sia ancora un problema aperto. I libri, le opere sono ancora lì da leggere e da rileggere al di là degli schemi. La modernità è ancora il nostro orizzonte. Se lo si dimentica, se si dimentica che il nostro mondo, il nostro modo di vivere e di pensare, tutta la nostra cultura viene anzitutto dalla seconda metà del Settecento, perché è un prodotto dell’illuminismo e della rivoluzione industriale, se si dimentica questo allora si finisce in quelle grottesche mascherature che vorrebbero farci credere contemporanei della Grecia classica o del Medioevo. Tutto ciò che siamo in grado di capire e assimilare delle culture pre-moderne ci viene dalla modernità: la filologia, il senso della storia, il relativismo culturale, la mancanza di fede, l’esigenza critica, il bisogno di mettere insieme culture eterog ...[continua]

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