Di che cosa parliamo quando parliamo di poesia?
Uno dei rari elementi di continuità fra tradizione e modernità è costituito dalla percezione della poesia come cuore della letteratura, la sua manifestazione più alta e più profonda. Il linguaggio poetico dovrebbe essere il luogo in cui il linguaggio umano si misura con se stesso e, attraverso un processo di autoanalisi, si rinnova profondamente e si purifica. Quindi quando parliamo di poesia parliamo del linguaggio letterario stesso, cioè di qualcosa che da un lato è l’essenza della lingua, anche della lingua d’uso, e dall’altro è il suo tesoro nascosto, il suo vertice di purezza e di concentrazione, di espressività, ma anche di comunicazione. La poesia è la radice dell’espressività linguistica. A partire però dall’inizio del Romanticismo, con Novalis o Coleridge, e soprattutto in seguito con Baudelaire e i simbolisti fino alla lirica moderna, la ricerca dell’essenza della lingua attraverso il poetare ha pericolosamente portato la lingua della poesia lontano da quella d’uso, in una dimensione esoterica e occulta, cosicché si può dire che quella della poesia moderna fino agli anni ‘20 del ‘900 è diventata una specie di avventura alchemica. E se da un lato l’ha portata ad un livello di sacralità con poeti come Mallarmée o Rimbaud, dall’altro l’ha allontanata dai lettori, confinandola in un ambito specialistico. La poesia è diventata una specie di metalinguaggio, un ultrasuono o un colore ultravioletto, una cosa, cioè, che va al di là della percettività comune. Allora si potrebbe dire che quando parliamo di poesia abbiamo l’impressione di parlare dell’alfa e dell’omega della letteratura, ma possiamo anche avere l’impressione di parlare del sesso degli angeli, cioè di qualcosa di assolutamente imprendibile, che può essere tutto o nulla.
Benn disse che la lirica è un’arte anacoreta e che quindi, sottraendosi al comune commercio col mondo, si sottrae alla comunicazione. Montale a sua volta disse che se il problema della poesia fosse quello di farsi capire non ci sarebbe ragione di scrivere, mentre il problema del poeta è quello di trovare il linguaggio più adatto a formulare esperienze spesso al limite della comunicazione. Oggi che la comunicazione è diventata un feticcio e le cattedre di scienza della comunicazione sono diventate il centro delle facoltà umanistiche, il problema della poesia moderna pare quasi incomprensibile, eppure forse continua a interessarci e sarà interessante anche per il futuro. Quando il comandamento della comunicazione diventerà totalitario, il problema della poesia forse si porrà di nuovo come una forma di samiszdat o di clandestinità nell’uso del linguaggio, un mezzo per dire delle cose che non sono totalmente comunicabili, perché non tutte le esperienze umane sono immediatamente e facilmente comunicabili, ci sono dei momenti più densi e più lentamente comunicabili di altri.
Però anche se la poesia è sempre meno letta ci sono sempre più scrittori di poesia...
Non so con quanta consapevolezza. Molti di loro infatti immaginano che la comunicazione attraverso la poesia sia facile e immediata e spesso non sono consapevoli che con l’uso del linguaggio poetico s’inseriscono in una tradizione complessa, che richiede anche delle tecniche. Pensano che un uso un po’ più personalizzato o vagamente anomalo o esoterico e incomprensibile della lingua li faccia di per sé essere poeti. Nella maggior parte dei casi si tratta di autori che scrivono poesia senza averne letta; il loro amore per la poesia non nasce cioè dall’amore per altri poeti, ma da una specie di utopia personale, dal fantasma della libertà espressiva che ogni singolo individuo pensa di poter produrre e consumare in proprio, un fai da te autorizzato dall’alfabetizzazione di massa, ma anche dal neoanalfabetismo culturale. E’ una forma d’ingenuità assai ambigua, che scommette sull’universalismo immediato della poesia. Questi autori non si preoccupano nemmeno del fatto che esiste il problema di un attrito tra il feticcio contemporaneo della comunicazione totale e la difficoltà comunicativa: scrivono come se credessero nel vecchio postulato idealistico per cui la poesia di per sé è universale, quindi è universalmente comprensibile, cosa che non è mai stata vera ...[continua]
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