Mario Luzi (Firenze 1914) è poeta e saggista.

Mario Luzi, la sua costante riflessione, da poeta, sulla poesia ha sempre anche accompagnato una appassionata e attenta riflessione sulle altre arti, in particolare le arti figurative: dall’amicizia con grandi pittori come Ottone Rosai, Giorgio Morandi, Carlo Mattioli, esponenti del Novecento artistico europeo, all’attenzione per artisti che hanno caratterizzato l’arte toscana del secolo appena trascorso, come Venturino Venturi e Rossano Naldi, testimoni del travaglio interiore sofferto dalla figurazione all’indomani delle scosse inferte dalle avanguardie, avvisaglie ed effetti di ben altre scosse e travagli. Il suo occhio è sempre stato particolarmente vigile e fecondo d’orientamenti, anche ora, per molti artisti giovani. Si è trattato infatti di un contributo cruciale alle vicissitudini della pittura, come cruciale è stato il contributo all’individuazione della forma in pittura. Penso, naturalmente, soprattutto al Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini, del ‘94, in cui è il pittore -ed un pittore destinato a venir ben presto superato dalle ragioni di una nuova sensibilità estetica- ad entrare nel vivo della storia cosmica e umana, soffrendo in sé i misteri (dolorosi e gaudiosi) della Creazione, concepita sempre ancora in corso, sempre ancora consegnata ed affidata alle energie metamorfiche della vita.
E’, però, una poesia, in particolare, a cogliere l’evidenza, la realtà, nella sua vocazione e nella sua grazia, di una coincidenza perfetta tra occhio umano e colore vero delle cose del mondo, tra occhio e luce che, se pure è destinata fatalmente a trascolorare, inscrive la pittura nell’azione creativa, nell’“opera del mondo”, si potrebbe dire, con una necessità che va oltre la relatività dei linguaggi e che la vorrebbe, appunto per questo, giunta al suo definitivo tramonto.

Pittura mi mancavi: infine, eccolo, /
è forte, è nell’aria, / lo captano a uno a uno i miei sensi magati / il desiderio / umano e non umano / dei palmizi e delle dune, / dei cieli e delle rocce, / delle cose, / tutte, di natura e d’arte / che accompagnano l’uomo, / ne commentano la sorte - / anelano, è il momento, / a entrare nella spera della loro vera forma, esse, / ciascuna nella propria / come stelle nel loro firmamento, / ciascuna a dimora nella gemma / del suo colore vero / da materia e essenza. / Io l’accendo. Tutti noi attendiamo / L’avvento della luce / Che ci unifica e ci assolve.


Sì, io ho avuto sempre questa attenzione, certo non programmatica, non disciplinare, alle cose dell’arte che mi si presentavano e sembrava toccassero la sostanza del discorso artistico in generale, del linguaggio. Noi, nel ricordo, a posteriori, quanto valore diamo all’icona, a quello che rappresenta, a quello che simbolizza: quanto della sensibilità si solidifica, anche idealizzato, appunto nella visualità delle vere icone, che sono tutte icone; qualcosa che è nel fluire, nel verificarsi continuo della comunicazione. Alcune stagioni hanno avuto, direi, in particolare, la forza di farlo, di assumere questi vortici, questo significato. Una di queste stagioni si è riassunta pochi giorni orsono a Firenze, con Giotto e Masaccio, ed ora dopo il restauro, si possono ancora vedere entrambi, nella stessa chiesa. Qui, in questo frangente, l’umanità ha avuto il suo momento di ascesa, il suo centro, raggiungendolo: il Cristo.
Ecco la Trinità, c’è il Cristo, ma c’è anche il Padre e lo Spirito… Questa è stata una stagione, ma ci sono state molte altre stagioni; molti altri episodi hanno avuto questa potenza. Io ho ritenuto, ho sentito ad un certo punto che anche l’icona, questa superiore iconicità che l’arte raggiunge, anche questa, poi, è divorata da se stessa in un certo senso… L’intenzione che c’è in queste cose sfonda il limite bellissimo, concreto, che ha raggiunto, per andare oltre; e questo è un po’ il senso di Simone Martini: c’è qualcosa che anche l’arte non può dire. E questo non è un senso di fallimento, è anzi uno slancio ulteriore dell’anima, dello spirito che gratifica quello che nella perfezione sembrava raggiunto, e però nello stesso tempo se ne libera. Io questo l’ho visto specialmente nei grandissimi artisti, ad esempio in Michelangelo, che ad un certo punto addirittura abbandona il suo grande mestiere: ora io dico mestiere in un senso alto; a me interessa più quello che è il principio piuttosto che la sua enunciazione formale, partecipare all’origine e non all’effetto. E ...[continua]

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