Fabio. L’idea è nata al liceo, lo scientifico Vallisneri di Lucca. Aldo Zanchetta un giorno fece lì un incontro con Pablo Romo, un domenicano che lavorava con il vescovo Samuel Ruiz a San Cristobal. Romo ci parlò di cosa stava avvenendo in Chiapas, cose di cui non sapevamo assolutamente niente. Qualcuno di noi alla fine chiese: “Ma allora noi cosa potremmo fare in concreto dall’Italia per dare una mano, per capire?”, e lui disse “Bueno, potreste costruire una scuola”. Questo succedeva due anni fa. Si cominciò così, senza sapere bene in che cosa ci imbarcavamo. Aldo Zanchetta ci disse “ricordatevi che avete dato la vostra parola e la parola per i Maya è sacra, per cui dovete impegnarvi” e così andò. Progettammo un lavoro all’interno del liceo, che coinvolgesse più studenti. Abbiamo avuto una grossa risposta, un sacco di ragazzi si sono subito aggregati e così abbiamo organizzato una mostra fotografica. Pensavamo che l’impatto visivo potesse essere più forte. Poi il progetto si è ingrandito. Alla mostra, che è stata tenuta in città, in piazza San Michele, è intervenuto il presidente della Provincia di Lucca Andrea Tagliasacchi e ci ha proposto di pubblicare un libro fotografico. Allora facemmo la scommessa di fare un libro che non fosse solo fotografico ma un testo utile, un contributo culturale nuovo, dove si vedesse che era un lavoro nostro, che non siamo giornalisti internazionali ma studenti di Lucca entrati in contatto con questo fenomeno nuovo. Con i soldi della vendita del libro avremmo finanziato la costruzione della scuola.
Luca. Volevamo anche far vedere che il libro era stato scritto da persone che in Chiapas non c’erano mai state. Abbiamo voluto mettere l’accento su cosa rappresentava per noi questa realtà. Per me prima di partire il Chiapas non era un luogo mitico, ma un sogno sì. Si sentiva parlare degli zapatisti, di questi uomini con il passamontagna e, anche se cercavamo di non idealizzare la cosa, beh, l’immagine dell’esercito zapatista, gli uomini delle montagne, sì, a dire la verità, un po’ mitici lo erano. Però il Chiapas rappresentava soprattutto un luogo dove si lottava per qualcosa di nuovo, per qualcosa che qui si è perso. Conoscendo poi quella realtà abbiamo trovato nel nostro animo e nel nostro cuore la voglia di appoggiare la loro lotta, forse perché sentiamo che qua non si riesce neanche a voler rivendicare certe cose. Sono nascoste.
Giulia. Io sono entrata nel gruppo solo dopo aver visto la mostra. Mi hanno colpito molto le immagini, mi hanno incuriosito, mi hanno fatto venire la voglia di conoscere, di studiare cosa succedeva in un posto tanto lontano. Ci raccontavano molte cose del Chiapas, ma avevo la curiosità di vedere se quello che ci raccontavano era vero. Mi hanno fatto venire la voglia di vedere con i miei occhi.
Aldo. L’incontro al liceo è nato un po’ casualmente. Già da due anni, quando venivano dei messicani che lavoravano in Chiapas, li portavo in giro per l’Italia a incontri, dibattiti, convegni. In quel momento c’era Pablo Romo, che avevo conosciuto quando era direttore del centro per i diritti umani Frey Bartolomey. Un giovane frate dal temperamento travolgente, tanto che i primi tempi dell’insurrezione il governo messicano aveva indicato lui come Marcos. E’ stato un incontro fortuito ma fruttuoso. Sono ancora incredulo che ci sia un gruppo di ragazzi così che si è entusiasmato e che lavora a questo ritmo. Sinceramente non l’avrei creduto possibile.
Giulia. Mi attirava anche il fatto che potevi fare qualcosa di concreto, andare al di là delle parole, costruire una scuola, quindi lavorare per delle persone come noi, degli studenti, dei ragazzi; questo mi ha spinto molto.
Alessio. Ero ritornato nell’estate del ‘98 da un viaggio in Brasile dove era missionario un ragazzo che conoscevo ed ero veramente disorientato, perché il cambio da una realtà che per me era sconosciuta, ma in cui mi ero ambientato benissimo, alla nostra era stato fortissimo. Allora occuparsi di altro e di altri destava in ...[continua]
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