L’immigrazione algerina in Francia ha vissuto un primo periodo di grave esclusione sociale da un lato, e chiusura comunitaria dall’altro. Potete raccontare?
Jamila. La chiusura comunitaria non avviene per caso, può essere spiegata storicamente, bisogna risalire a 30-40 anni fa quando ci hanno messi nei ghetti, a quel tempo ci mettevano nelle bidonvilles, poi nelle cités de transit, in seguito nelle cités d’urgence, poi negli Hlm (habitation à loyer modéré). Questi erano i luoghi preposti a ospitare le persone più povere che in quell’epoca eravamo noi.
Il mio caso comunque è un po’ diverso perché io non ho vissuto in città ma in un paese in cui eravamo i soli algerini, per cui non c’erano i problemi che potevano esserci nelle cités. Certo, mia madre è stata costretta a lavorare in un’epoca in cui non era normale che le donne lavorassero, lei poi essendo una donna magrebina… Però almeno non c’era su di noi lo “sguardo dell’altro”, cioè della comunità algerina, che ha degli aspetti patriarcali, anche tribali in cui l’individuo non esiste.
Tra l’altro, i miei genitori non si sono chiusi, insomma, abbiamo vissuto tranquillamente.
Era il periodo della guerra di Algeria, e io ho capito cosa stesse accadendo perché essendo i miei genitori analfabeti leggevo io la posta, infatti tenevo io i legami con l’Algeria. Ora sono felice di conoscere la mia storia perché credo che oggi il maggiore problema dei giovani immigrati riguardi la loro identità: quando non si conosce la propria storia, qualunque essa sia, non si è armati nei confronti delle persone che si hanno di fronte, questo già spiega la chiusura comunitaria.
In seguito ho avuto anche la fortuna di passare 15 anni in Algeria; è stata una scelta, mi sono sposata e abbiamo deciso di vivere laggiù, i nostri figli sono nati laggiù.
Tania. Io invece ho vissuto proprio con “lo sguardo” della comunità, tanto più doloroso in quanto donna. Le nostre madri non ci hanno lasciato vivere come volevamo: da bambine non c’era problema, ma nel momento in cui arrivavano le mestruazioni era finita, bisognava stare attente, era la galera. Io ho vissuto un’adolescenza molto dolorosa e infatti con mia madre non siamo mai state molto in armonia.
Del resto, i miei genitori, quando sono arrivati qui, avevano in mente di tornare, erano venuti per guadagnare il più possibile, per costruirsi un futuro in Algeria, quindi non bisognava allontanarsi dalle tradizioni della società algerina; le comunità dei ghetti conservavano il più possibile le tradizioni, senza rendersi conto che l’Algeria intanto andava avanti, si evolveva, per cui a un certo punto c’erano dei comportamenti che non corrispondevano più alla realtà sociale del nostro paese.
Françoise. Io sono arrivata a Marsiglia nel ‘62, non venivo da lontano, dalla Provenza, ma non conoscevo questa città. Mi sono trasferita per lavorare come maestra; tra l’altro nella prima classe che ho avuto gli allievi venivano esclusivamente da una bidonville di zingari spagnoli e magrebini. Siccome ero quella giovane, l’ultima arrivata, mi avevano gentilmente scaricato tutti bambini disagiati. In classe ne avevo 40, ma non ho quasi mai avuto problemi coi bambini del Maghreb poiché erano tutte femmine -nel ‘62 alle elementari c’erano ancora le scuole separate maschi-femmine- e queste bambine volevano imparare ad ogni costo; nelle classi maschili, non c’era affatto lo stesso atteggiamento. Tra l’altro, parliamo di bambine che spesso dovevano combattere contro il padre e i fratelli che non le volevano mandare a scuola, e a volte addirittura con la madre che era quella che manteneva la tradizione.
Io sono andata in pensione 4 anni fa e ricordo che ancora allora c’erano famiglie in cui le figlie erano costrette a servire padre e fratelli a mezzogiorno e a nutrirsi degli avanzi. Ricordo di ragazze che il pomeriggio si sentivano male e se chiedevo cosa succedeva rispondevano: “Non ho mangiato”, perché? “Perché non c’era più niente”.
Avevo insegnato loro a barare: “Quando arrivi devi mangiare per prima mentre sei sola in cucina e poi servi gli altri”. La scuola ha permesso alle generazioni successive di aprirsi e superare certe cose. Ma mentre i padri, entrando nel mondo del lavoro, sono cambiati, le madri sono rimaste un po’ in disparte, anche perché più legate all ...[continua]
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