Umberto Santino, fondatore e direttore del Centro siciliano di documentazione “Giuseppe Impastato” di Palermo, ha pubblicato Storia del movimento antimafia. Dalla lotta di classe all’impegno civile, Editori Riuniti, Roma 2000.

La tesi di fondo del tuo libro è che in Sicilia, contemporaneamente alla nascita, più di un secolo fa, della mafia è nata anche la lotta contro di essa, a cominciare dai Fasci siciliani, un movimento poco conosciuto fuori dalla Sicilia. Ce ne puoi parlare?
Con questo libro ho cercato di ricostruire la storia delle lotte sociali contro la mafia in Sicilia, che hanno più di un secolo alle spalle. E’ una storia iniziata nell’ultimo decennio dell’800, che purtroppo è stata totalmente dimenticata, cancellata anche dai libri di storia. Inoltre ho cercato di sgombrare il campo da uno stereotipo molto diffuso che identifica la Sicilia con la mafia. E’ vero che la Sicilia ha generato la mafia, ma è altrettanto vero che ha generato anche l’antimafia, non con l’impegno di eroi solitari ma con grandi movimenti di massa, come le lotte contadine, durate fino agli ’50 del XX secolo, con la parentesi del ventennio fascista.
In questo arco di tempo si possono individuare tre grandi ondate: la prima, dal 1891 al 1894, con i Fasci siciliani, un movimento di 300.000-400.000 persone; la seconda con le lotte degli anni che precedettero il Fascismo e l’ultima con le lotte degli anni ‘40-’50, durate quasi 10 anni, a cui parteciparono più di mezzo milione di persone. E’ stato un movimento organizzato, con un’articolazione complessa di strutture associative: vi erano dentro partiti (il partito socialista e il partito comunista), sindacati, leghe di contadini, cooperative. Nella sede del Fascio di Palermo, uno dei più numerosi, in via Alloro, nel centro storico della città, si tenne il congresso fondativo dei Fasci Siciliani e si costituì anche il partito socialista. Non c’è nemmeno una targa a ricordare l’avvenimento, mentre in una piazza centrale della città c’è il monumento a Francesco Crispi, ex protagonista del Risorgimento, allora capo del governo e massacratore dei Fasci.
Possiamo affermare che la lotta contro la mafia ha costituito la specificità del conflitto sociale in Sicilia, dove il nemico di classe era identificato nei proprietari terrieri e nei mafiosi, questi ultimi visti non solo come criminali ma come uno strato sociale borghese che condivideva gli interessi degli agrari. L’analisi della mafia come “industria della violenza” che serve per accumulare e comandare, e quindi per affermare il ruolo sociale e istituzionale della borghesia siciliana, e dei mafiosi come “facinorosi della classe media” emerge già nel 1876 dall’inchiesta di Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino che, ancora molto giovani, sull’onda del rumore suscitato dalla costituzione, nel 1875, della prima Commissione parlamentare d’inchiesta sulla mafia, scesero in Sicilia per condurre una sorta di controinchiesta, raccogliendo testimonianze dirette, interviste, dati sulla proprietà terriera e sui contratti agrari ecc. E giunsero alla conclusione che la mafia non era una delle tante forme di delinquenza che c’erano un po’ dovunque: i gruppi mafiosi usavano la violenza per arricchirsi e per acquisire l’esercizio del potere e agivano con la copertura dei “manutengoli”, in primo luogo degli agrari che condividevano con i mafiosi un interesse fondamentale: il controllo, con tutti i mezzi, della forza lavoro contadina.
Lo scontro dei contadini con i mafiosi e con gli agrari avviene sul terreno dei bisogni della vita quotidiana. I contadini lottavano per il miglioramento delle condizioni di vita. Nel periodo dei Fasci lottavano per la riforma dei contratti agrari; nel primo e nel secondo dopoguerra per la riforma agraria, ma anche per la democratizzazione, per la conquista dei Comuni, per avere un ruolo nella società in cui vivevano.
Ho sottolineato questi aspetti anche per contrastare altri due stereotipi, che circolano soprattutto in ambiente accademico ma sono diffusi anche al di fuori di essi: il primo va sotto il nome di “familismo amorale”, introdotto dall’antropologo americano Banfield, secondo cui i meridionali si limitano a coltivare gli interessi del nucleo familiare. Il secondo è quello della mancanza di senso civico (l’incivisme di Putnam): i siciliani, e i meridionali in genere, non avrebbero il senso della comunità, agirebbero soltanto come individui. I movimenti contadini sono stati grandi movim ...[continua]

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