Memorial
ricordarsi

Una Città n° 281 / 2022 febbraio
Intervista a Irina Lazarevna Scerbakova
Realizzata da Niccolò Pianciola
MEMORIAL
L’infanzia in una famiglia ebraica molto politicizzata, i primi ricordi legati alla morte di Stalin e al ‘disgelo’, la frequentazione con i dissidenti e i codici inventati per non far sapere che si leggevano libri proibiti, la lettura di Arcipelago e la decisione di raccogliere la voce dei sopravvissuti e quindi l’impegno nell’associazione Memorial, fondata da Sacharov, che dopo tanti anni di tenace impegno è oggi a rischio chiusura. Intervista a Irina Lazarevna Scerbakova.
Irina Lazarevna Scerbakova è nata nel 1949 a Mosca. Storica per passione fin da quando era traduttrice dal tedesco, ha registrato centinaia di testimonianze di reduci dai campi del Gulag, soprattutto donne, tra la fine degli anni Settanta e gli anni Ottanta. Fu poi una delle prime collaboratrici dell’associazione Memorial. Memorial emerse da gruppi di dissidenti democratici che si battevano per la creazione di un memoriale alle vittime delle repressioni staliniane e per la tutela della memoria del periodo di Stalin. Arsenij Borisovic Roginskij (1946-2017) ne fu il principale animatore, mentre il primo presidente dell’associazione fu il fisico e Nobel per la pace Andrej Dmitrievic Sacharov (1921-1989). Nel 1989 l’associazione, che coordinava gli attivisti di decine di città in Russia e in Urss, fu ufficialmente registrata dalle autorità sovietiche. Dagli anni Novanta è divisa in due sezioni separate: Memorial Internazionale, che si occupa di ricerca storica, divulgazione e attività legate alla riabilitazione delle vittime delle repressioni sovietiche e al diritto alla memoria; e il Centro di Memorial per i diritti umani, che monitora, denuncia e dà assistenza giuridica alle vittime di violazioni dei diritti umani in Russia. Nel corso degli anni Memorial è stata insignita di numerosi premi internazionali ed è stata anche candidata al premio Nobel per la pace. In questo periodo lo Stato russo sta distruggendo l’associazione. A fine dicembre 2021 due tribunali moscoviti hanno deliberato la liquidazione sia di Memorial Internazionale, sia del Centro di Memorial per i diritti umani. La sentenza d’appello, il 28 febbraio 2022, ha confermato la sentenza di primo grado. Abbiamo parlato con Irina Scerbakova del suo percorso biografico e di ricerca, della storia di Memorial, e della situazione attuale in Russia. L’intervista è stata registrata il 7 febbraio 2022, dunque prima dell’aggressione russa all’Ucraina.
Qual è il suo retroterra familiare?
Sono una bambina del “disgelo”, si può dire. In questo mi sento molto fortunata. Anche se sono nata quando Stalin era al potere, il mio primo ricordo cosciente risale a quando avevo tre anni. Come tutti i bambini, ho ricordi frammentari anche degli anni precedenti, ma il mio primo ricordo coerente è proprio legato ai giorni della morte di Stalin [nel marzo 1953]. Sono nata in una famiglia moscovita che, come diremmo oggi, era molto politicizzata: mio nonno materno era un impiegato del Comintern. Sopravvisse alle repressioni, un vero miracolo. Mia madre e mio padre si laurearono alla facoltà di lettere dell’Università di Mosca. Mio padre, che era nato nel 1924, andò al fronte durante la Seconda guerra mondiale, e fu poi invalido di guerra. Erano molto attenti a quello che succedeva nel mondo. Inoltre, la mia era una famiglia ebraica. Eravamo, si può dire, una famiglia di intellettuali ebrei. Allora c’era la campagna contro il “cosmopolitismo”, furono mesi tremendi per noi, perché erano stati tutti licenziati dal lavoro. In famiglia erano tutti a casa.
Suo padre che lavoro faceva?
Mio padre era tornato dalla guerra nel 1944, quando era ancora molto giovane, e poi era andato a studiare all’università. All’inizio degli anni Cinquanta aveva appena finito il dottorato, ma non lo prendevano a lavorare da nessuna parte.
Mio nonno aveva degli incarichi per il Partito. Lavorava per l’Informbjuro (com’è noto il Comintern era stato sciolto nel 1943), nella sezione internazionale, e per l’agenzia Tass. Venne licenziato, e aprirono un procedimento contro di lui. Non solo i familiari, ma tutti i nostri amici e conoscenti ebrei erano stati licenziati uno dopo l’altro.
Da quanto tempo la vostra famiglia era a Mosca?
A Mosca, prima della rivoluzione non c’erano ebrei. Eccetto persone molto ricche e coloro che avevano un’istruzione universitaria, tutti gli altri erano stati espulsi dalla città durante il regno dello zar Alessandro III. Era rimasta una comunità poco numerosa che comprendeva persone molto ricche e coloro che ufficialmente si erano convertiti a un’altra religione. La stragrande maggioranza degli ebrei moscoviti arrivò a Mosca dai villaggi [della Zona di residenza ebraica zarista, abolita di fatto durante la Prima guerra mondiale, Ndr] dopo la rivoluzione, negli anni Venti. Tra loro c’erano anche mia nonna e mio nonno. Mio nonno, come funzionario di partito, fu semplicemente trasferito a lavorare nella capitale. La località di origine della mia famiglia era un villaggio vicino alla città di Gomel’. Oggi è nel territorio della Bielorussia, o nella zona di confine tra Russia e Bielorussia.
Ma l’ho interrotta, stava parlando dei suoi ricordi dei giorni della morte di Stalin.
I miei genitori si consultarono con il nonno, considerato persona molto intelligente che capiva di politica e conosceva molte persone importanti. Erano giorni in cui era ormai certo che Stalin sarebbe morto, ma non si sapeva se fosse ancora vivo o no. La diagnosi era chiara, i medici avevano descritto il tipo di respirazione che ha la persona colpita da ictus che sta per morire. “Che succederà dopo la sua morte?”, ci si chiedeva. Molti allora pensavano che, una volta morto Stalin, la situazione sarebbe peggiorata. Pensavano che Stalin fosse l’ultima barriera che difendeva gli ebrei da veri e propri pogrom antisemiti e dalla deportazione. Io avevo tre anni e naturalmente non potevo capire queste discussioni. I miei genitori discutevano di queste cose con i loro amici davanti a me. Evidentemente delle cose che non volevano che io sentissi parlavano quando non c’ero, ma non mi hanno mai detto “esci dalla stanza, quello di cui parliamo non è da bambini”.
Erano i primi di marzo 1953, faceva ancora freddo. Mia madre e io eravamo in strada a fare una coda per comprare delle uova. Le porte del negozio erano aperte e la lunga coda continuava nella via. Eravamo nel centro di Mosca, a tre minuti dal Cremlino. Io mi annoiavo molto e percepivo che le persone in fila erano tese e nervose. Mi sembravano tante persone grigie, avvolte da una qualche pesante preoccupazione. L’atmosfera in città era plumbea in quei giorni. Io ero una chiacchierona tremenda. Sentivo tutto quello che gli adulti dicevano. Da una parte mi annoiavo, dall’altra volevo mostrare di essere già grande e intelligente. Allora, con un tono di voce tale che tutta le persone in coda potevano sentire, ho chiesto a mia madre: “Mamma, ma Stalin allora? È morto alla fine?”. In quel momento ho avvertito che tutta la coda si era come congelata. Una donna che era in piedi in coda davanti a noi si girò e, con un tono impaurito ma non benevolo che mi mise molta paura, disse a mia madre: “Porti via la bambina… Anche la bambina dei nostri vicini parlava e parlava, e alla fine hanno portato via tutta la famiglia”. Allora mia madre mi prese la mano con tanta forza da farmi male (me lo ricordo bene perché non aveva mai fatto, né fece dopo quel giorno una cosa simile -anche sgridarmi, lo faceva molto di rado) e ce ne andammo. Dopo mi disse un’unica frase, che poi non mi ha mai più ripetuto: “Non tutto quello di cui si parla a casa si può ripetere ad alta voce. Ci potresti portare una grande disgrazia”. Così in epoca sovietica ai bambini, fin quasi dalla nascita, si insegnava a capire se una cosa la si poteva dire o no. E da quel momento ho ricordato quella verità.
Ma, come dicevo all’inizio, sono stata molto fortunata. Perché i miei ricordi del periodo successivo a quest’episodio sono come se subito fosse arrivata la primavera, il bel tempo. Sono andata a scuola nel 1956 e quell’anno per la prima volta nel nostro abbecedario non c’era Stalin, e non c’era una singola parola su di lui. E tutti i suoi ritratti erano stati tolti dai muri della scuola. Noi bambini vedevamo dove li avevano messi: stavano in cantina. Anche i suoi busti furono portati via.
Dunque poi i suoi genitori si sistemarono al lavoro. Suo padre era un importante studioso di letteratura [Lazar’ Il’ic Sindel’ (1924-2010), che pubblicava sotto lo pseudonimo di L.I. Lazarev, Ndr]. Come continuò la sua formazione negli anni Cinquanta e Sessanta?
Papà lavorò per lungo tempo alla “Literaturnaja Gazeta”. Tra l’altro, un giorno un collaboratore gli disse: “C’è questo georgiano bravissimo, che canta benissimo, cerca un lavoro…”. Era Bulat Okudžava, lo assunse lui alla “Literaturnaja Gazeta”. A quel tempo Sergej Smirnov era il direttore. Le vittime delle repressioni erano della generazione delle nonne e dei nonni. Gli amici di mio padre erano invece reduci di guerra. La guerra è stata il più importante avvenimento della sua vita. L’ha assolutamente formato.
Dalla “Literaturnaja Gazeta” è poi uscito, o -come si dice in russo- “l’hanno uscito” perché aveva scritto un articolo sulla letteratura di guerra in cui usava due formule che forse ha sentito, ed erano proprio dal suo articolo: “leitenantskaja proza” [lett. “prosa dei tenenti”, la letteratura sulla Seconda guerra mondiale, spesso scritta da reduci, che aveva come protagonisti sottufficiali e soldati, e non si focalizzava sui leader e sull’andamento della guerra in generale] e “okopnaja pravda” [lett. “la verità della trincea”, ovvero la realtà della guerra contrapposta all’abbellimento letterario, memorialistico e anche, e soprattutto, della propaganda ufficiale]. La sezione cultura del Comitato Centrale, o la sezione per la stampa, le giudicò delle formule dannose: “come sarebbe a dire ‘verità della trincea’?”.
Si può dire che lo scontro tra la narrazione ufficiale sulla Seconda guerra mondiale e quello che della guerra volevano invece raccontare gli scrittori reduci di guerra sia stato il primo caso di battaglia pubblica sulla memoria dello stalinismo in Russia?
Assolutamente sì.
Che cosa leggeva al tempo?
Io e i miei leggevamo contemporaneamente gli stessi libri, le novità. Leggevo in fretta, qualcosa mi interessava, qualcos’altro non mi interessava. Sono di una generazione di lettori, leggevamo fin dall’infanzia. Molto presto ho letto le memorie di Evgenija Ginzburg, che mi fecero una grande impressione. Tra l’altro era amica dei miei genitori, veniva a trovarli. Ricordo che a un certo momento tutti dicevano “Solzenycin, Solzenycin”. Avevo dodici anni quando su “Novyi Mir” uscì Una giornata di Ivan Denisovic. Molti membri della redazione erano amici dei miei genitori, li vedevo a casa nostra. Si parlava di questo racconto meraviglioso, intorno al quale c’era una grande battaglia, e Tvardovskij, il direttore di “Novyi Mir”, si batteva per stamparlo. Mi ricordo che il postino ha portato il numero della rivista in cui c’era il testo di Una giornata di Ivan Denisovic. Il postino allora non lasciava quelle riviste spesse nella buca delle lettere, suonava alla porta e le consegnava. Mio padre prese questa rivista molto spessa, grigia, “Novyj Mir”, tra le mani, e disse: “Dio mio, l’hanno pubblicato.” L’ho letto in fretta ed ero molto sorpresa. Non ho assolutamente capito cosa ci fosse di così straordinario in quel racconto. Mi aspettavo un racconto spaventoso e terribile, una storia drammatica. E invece non c’era niente di tutto ciò.
Non capivo. Poi ho letto Padiglione cancro, che mi impressionò di più, poi vari racconti. Solo dopo ho capito, i genitori mi hanno poi spiegato. Solzenycin l’ho visto solo una volta, in Russia, prima che partisse per l’esilio. I miei genitori conoscevano molto bene la sua seconda moglie, Natasa. Veniva spesso a casa nostra per varie faccende. Insomma, mi sono trovata in mezzo ai dissidenti, anche se il dissenso è un concetto molto vago, molto vasto. C’era un gruppo più ristretto di difensori dei diritti umani, ma i dissenzienti [inakomysljascie] e i veri e propri dissidenti erano molti di più.
Al momento di scegliere la facoltà in cui studiare all’università, ho deciso di fare letteratura, ma solo perché mi sentivo male al solo pensiero di dover studiare la storia contemporanea così come era insegnata in Urss allora. A me è sempre interessata la storia sovietica, non mi interessava la storia meno recente, che era insegnata bene ed era meno ideologizzata. Se avessi voluto studiare storia antica o medievale, probabilmente mi sarei iscritta a Storia. Invece mi interessava la storia sovietica e anche la storia del nazionalsocialismo.
È per questo che ha deciso di studiare lingua e letteratura tedesca?
Sì. E poi c’era anche l’influenza familiare del Comintern, dove la lingua franca era il tedesco.
Nella sua famiglia qualcuno parlava yiddish?
Solo la nonna paterna, con suo fratello. Nella famiglia di mia madre erano tutti ebrei da tempo secolarizzati. La mia bisnonna da parte di madre dopo i pogrom del 1905 aveva deciso di rimanere comunque in Russia, e ci fu una totale russificazione delle generazioni successive. Mandò tutti i bambini al ginnasio russo.
Quale generazione della sua famiglia era religiosa?
La generazione dei bisnonni, ma non tutti: la mia bisnonna da parte di madre già non era religiosa. La mia bisnonna da parte di padre, che fu uccisa a Dnepropetrovsk durante la Shoah, invece lo era. La mia bisnonna da parte di madre era un’imprenditrice di successo, coltivava tabacco in una zona tra la Bielorussia e la Russia. Poi durante la rivoluzione furono bruciati i suoi possedimenti e lei morì di tifo durante la grande epidemia della guerra civile. Sua figlia, la mia nonna materna, che in pratica mi ha educato, era una psicologa infantile. Le devo molto.
Gli ebrei russi come noi non avevano né la lingua, né la religione come base della propria identità, ma solo l’antisemitismo. Forse questo in Italia si può capire meglio che altrove. Molti dei miei amici avevano problemi per questo. Molti nascondevano le loro origini, soprattutto quelli la cui famiglia era solo in parte di origine ebraica. C’era un processo di cancellazione. I documenti di identità venivano cambiati, di questo non si parlava… Invece mia nonna ha creato una tradizione familiare. Raccontava moltissimo. E così so come lei aveva studiato al ginnasio, come vivevano prima della rivoluzione, che cosa si diceva dei pogrom che succedevano, cosa faceva la bisnonna, eccetera. C’era insomma una tradizione orale familiare che mi ha aiutato a non avere problemi con la mia autoidentificazione come ebrea. Invece questo era un grosso problema per molti, in un paese con una popolazione ebraica molto assimilata, ma allo stesso tempo con un forte antisemitismo.
Lei ha avuto esperienza diretta di antisemitismo nella vita quotidiana?
Certo! Costantemente. Tutti i bambini che giocavano con me nel cortile del mio condominio e a scuola sapevano che ero ebrea. Il mio cognome è assolutamente ebraico (Scerbakov è il cognome di mio marito, io mi chiamo Sindel), sono bruna, ho il naso grosso… Ma non ho avuto esperienza di antisemitismo diretto a me personalmente.
Forse qualcosa veniva detto alle mie spalle, ma se succedeva non me ne accorgevo. Ma fin dall’infanzia ero cosciente dell’antisemitismo nella nostra società. Erano anni di antisemitismo orribile. Sapevo bene che se non avessi avuto il massimo dei voti in tutte le materie non sarei stata ammessa all’università; e che c’era la quota non ufficiale del 3% di ebrei nelle ammissioni; e che avrei avuto problemi a trovare lavoro. Tutto questo lo sapevo.
La storia della sua famiglia e della sua infanzia è così interessante che temo non arriveremo mai a parlare di Memorial! Facciamo un passo in avanti nel tempo: cosa sapeva dello stalinismo durante il periodo di Breznev? Ho letto una sua intervista in cui raccontava che per lei era stato importante leggere Arcipelago Gulag di Solzenycin in samizdat. Quali erano le vostre fonti di informazione sul passato sovietico, dato che non c’era né libertà di parola né di ricerca storica nel paese? Come ha poi deciso di iniziare il progetto di storia orale di sopravvissuti dei campi del Gulag?
Per me, nella scoperta del passato staliniano, ha avuto un ruolo molto importante Arcipelago Gulag. Ho raccontato questo aneddoto molte volte. Ero giovane quando il romanzo ha iniziato a circolare nel 1973. Ero appena diventata mamma e non stavo lavorando in quel periodo. Mia madre, sapendo che mi avrebbe molto interessato, mi ha portato una delle prime copie del libro che erano arrivate in Urss. Era un libro, non era un dattiloscritto in samizdat. Era stampato su carta molto sottile. Era gennaio o febbraio 1973.
Dove e come era stato stampato il libro?
Era un libro camuffato, era un libro con un’altra copertina, una delle prime edizioni di Arcipelago Gulag stampate all’Ovest. Ce l’aveva data Natasa Solzenycin, che era ancora in Urss. Quella prima volta (poi l’ho riletto molte altre volte) l’ho letto in poche ore.
Mia madre poi mi ha telefonato e io, invece di dire la solita formula che usavamo quando parlavamo al telefono: “Abbiamo già mangiato la scatola di cioccolatini e adesso ve la ridiamo”, ho detto: “Il bambino è stato così buono che ho letto tutto l’Arcipelago”. Mia madre disse: “Tu sei completamente matta”, e riattaccò il telefono.
Di nuovo, come nel 1953!
Esatto! Ma per fortuna non ci successe nulla. Quando ho letto quel libro ho capito una cosa. Ho maturato la consapevolezza che se avessi voluto davvero capire qualcosa, avrei dovuto parlare direttamente con quelle persone. Ma passarono alcuni anni: io non sapevo stenografare, non avevo un registratore… La mia occupazione principale fino alla perestrojka erano traduzioni dal tedesco. In quel periodo, negli anni Settanta, emerse un genere giornalistico nuovo: la “annotazioni da un racconto a voce” [zapisi rasskaza]. Vennero fuori bravissimi giornalisti che erano capaci di scrivere storie di vita, umane.
È il genere praticato da Svetlana Aleksievic, mi sembra.
Sì, assolutamente. Mi ricordo bene quando un’amica disse che in Bielorussia c’era una giornalista bravissima che raccoglieva testimonianze… Poi l’ho anche conosciuta. Io ho iniziato a registrare nel 1979, quando dall’Austria mi hanno portato, e regalato, un registratore portatile Philips (allora era un miracolo della tecnica). Così ero del tutto indipendente, e ho iniziato a fare le interviste tra la fine del 1979 e l’inizio del 1980. All’inizio ho intervistato donne che conoscevo. Andavo da loro. Prima della perestrojka sono riuscita a intervistare molte persone.
Quanti ne ha intervistate? Erano tutte persone provenienti dal suo ambito sociale?
Circa duecento. Sì, erano soprattutto membri dell’intellighenzia provenienti dal mio giro di conoscenze, ma non solo. Ho iniziato con l’intervistare membri del gruppo di coloro che erano stati alla Kolyma.
Intende dire che i “reduci” di specifici lager del Gulag avevano mantenuto stretti rapporti dopo la loro liberazione?
Sì, soprattutto le donne. E così ho preso a registrare i loro racconti, inizialmente per pura curiosità. Molti non li sbobinavo nemmeno, rimanevano nei cassetti, era anche più sicuro. Poi ho sentito di varie persone che a Leningrado facevano qualcosa di simile. Uno era Arsenij Roginskij, che poi ha fondato Memorial, ma allora io non lo conoscevo. L’ho conosciuto solo dopo che era tornato dal campo di lavoro. Lo condannarono nel 1982, e fu imprigionato per quattro anni. Dopo l’inizio della perestrojka, mi sono trovata in mezzo a questo piccolo gruppo di persone. Non ero una di quegli attivisti che stavano in strada a raccogliere le firme, ma invece partecipavo ai seminari e agli incontri sulla memoria tra il 1987 e il 1988. Ho iniziato a discutere di quello che avevo registrato, di cosa ne pensavo e di come questa memoria si fosse trasmessa. Questo me lo ricordo bene.
All’inizio, quando ci furono le prime conferenze di fondazione di Memorial, tra la fine del 1987 e poi nel 1988, vi presi parte attivamente. Nell’autunno del 1988 vidi Sacharov per la prima volta.
Dunque lei non faceva parte di una rete coesa di persone che si occupavano di storia e memoria del passato sovietico: soltanto la fondazione di Memorial, si può dire, creò questa rete.
Sì, è così. Ho anche iniziato a pubblicare alcuni testi sulle “Moskovskie novosti”, sul Gulag, la memoria, eccetera. Un giorno ero in metropolitana, a Mosca, e nel mio vagone qualcuno stava leggendo le “Moskovskie novosti” dove era pubblicato il mio articolo sul Gulag. In quel momento ho pensato: “Sono qui in questo vagone e ho vissuto abbastanza per vedere questo”. Era una sensazione molto strana, che non dimenticherò mai. Come se pensassi di stare sognando, che non potesse essere vero. Da allora la mia vita si è intrecciata all’attività di Memorial. Da quel momento ho smesso di occuparmi di letteratura. L’unica cosa che ho poi tradotto erano dei racconti di Kafka. Da allora mi sono occupata solo di storia. Ho poi iniziato a insegnare all’Università Russa Statale di Materie Umanistiche di Mosca, che era stata fondata da Afanas’ev. Poi ho lavorato molto negli archivi e in seguito ho iniziato a collaborare strettamente con vari storici tedeschi, con i quali abbiamo fatto molti progetti comuni su vari temi, ad esempio sulla storia della Seconda guerra mondiale. Ho vissuto un anno in Germania e un anno in Austria. A un certo punto ho anche pensato di potermi fermare a lavorare in un’università lì, me l’hanno anche proposto (sono in pratica bilingue, parlo il tedesco pressoché come il russo). Poi ho pubblicato libri e articoli… Tutte queste attività le ho fatte parallelamente ad attività di Memorial. Non lavoravo nei loro uffici, ma eravamo in contatto costante e collaboravamo spessissimo.
Quando è entrata in un archivio sovietico per la prima volta per studiare la storia dello stalinismo?
Nel 1991, nella tarda primavera o l’inizio dell’estate, prima del colpo di stato.
In quale archivio? Subito in quello del Kgb?
Sì! Avevo pubblicato un altro articolo sulle Moskovskie novosti, sui comunisti tedeschi che erano stati consegnati dai sovietici nelle mani della Gestapo dopo il patto nazi-sovietico del 1939, un migliaio di persone. E in questo articolo scrivevo: gli archivi su questo sono chiusi, non possiamo vedere i documenti. Nel frattempo erano stati creati dei gruppi di lavoro per la riabilitazione delle vittime dello stalinismo. E dalla Lubjanka mi telefonarono e mi dissero: “Lei scrive questi articoli, ci accusa… Guardi che i documenti ci sono. Venga pure, se li vuole vedere”.
Ma davvero la prima volta che ha potuto lavorare in archivio sulla storia dello stalinismo è stato alla Lubjanka?
È stato proprio alla Lubjanka…
Ma altri storici avevano potuto forse già lavorare in archivio prima dell’estate del 1991…?
Pochissimi…
Mi riferisco a persone che lavoravano con Memorial…
Beh, poco dopo Arsenij Roginskij, Nikita Petrov, Nikita Ochotin lavorarono molto negli archivi perché iniziò il processo al Pcus. Questo accadde nel 1991, ma dopo l’estate.
Quando lei ha iniziato a lavorare con Memorial alla fine degli anni Ottanta, quanto aveva l’impressione che fosse un movimento, un’organizzazione sovietica, e non solo russa? I suoi membri a Mosca all’inizio erano soprattutto intellettuali moscoviti?
No, c’erano le persone più diverse. C’era qualche filologo. C’era Senja Roginskij, anche se lui è di Piter, e c’è molta differenza tra moscoviti e pietroburghesi. Fin dall’inizio Senja era la persona a cui ero più vicina, e lo rimase anche in seguito.
Mi interessava sapere se ci fossero forti connessioni, iniziative comuni, tra le organizzazioni di Memorial in Russia e Ucraina, ad esempio.
Con qualche persona sì. Ma il lavoro con persone in altre città e poi in altri paesi per quanto mi riguarda iniziò più tardi. Negli anni Novanta, rientrata dalla Germania, dove c’erano molte persone che lavoravano sulla vita quotidiana durante il nazionalsocialismo, ho iniziato a ragionare su questa possibilità. Dopo dieci anni dall’inizio dell’attività di Memorial, mi sembrava che la società in Russia stesse come frenando, non c’era stato quel lavoro sulla memoria che noi di Memorial avevamo sognato avvenisse. In larga parte era per la crisi economica, naturalmente. Avevo la sensazione di dover cercare di capire cosa stesse succedendo. E di nuovo per me la ricerca è stata interessante: negli anni precedenti ero un po’ vissuta di rendita, utilizzando i materiali di storia orale che avevo accumulato prima del crollo dell’Urss. A quel punto mi interessava capire cosa pensassero in quel momento, alla fine degli anni Novanta, gli scolari russi, e che cosa succedesse nelle province. Non pensavo che ne sarebbe uscito un grande progetto, ma Memorial è una rete di organizzazioni e allora c’erano ancora ottanta organizzazioni di Memorial.
Ottanta solo in Russia, o anche in altri stati ex-sovietici?
Solo in Russia, quello era un concorso russo.
Ecco, la mia domanda precedente era appunto se il crollo dello stato sovietico sia stato anche un crollo del Memorial sovietico, per così dire. Ho lavorato a lungo in Kazakistan e so che lì c’era un’organizzazione di Memorial che si chiamava “Adilet”, che da circa una decina d’anni non è più attiva. Queste connessioni con i capitoli non russi di Memorial erano significative prima del 1991? E in seguito sono rimaste?
Alcune sono rimaste, altre si sono interrotte. Con l’Ucraina continuano. Memorial in Russia ha un forte legame con Memorial a Charkov, più che con Kiev. In Bielorussia il regime ha schiacciato tutte le organizzazioni esistenti molto in fretta. Alcuni di loro erano nazionalisti e hanno deciso presto di smettere di collaborare con noi. Ma poi anche questi sono stati repressi. Quelli nei paesi del Baltico sono anche loro andati per la loro strada molto presto. Ma i contatti sono rimasti fino a oggi. Su questo, che è un tema separato e molto ampio, dirò solo una cosa. Alla fine degli anni Ottanta, quando Memorial è stato fondato, pensavamo che recuperare la memoria del terrore ci avrebbe unito, nelle diverse parti dell’Unione Sovietica.
Invece ci ha anche diviso. Perché queste cosiddette “guerre della memoria” sono iniziate ben prima della salita al potere di Putin. Si incominciò a discutere sulle occupazioni… nei paesi del Baltico la conquista e la sovietizzazione è ufficialmente considerata un’occupazione durata quasi cinquant’anni, con l’intervallo dell’occupazione nazista durante la Seconda guerra mondiale; su quale occupazione fosse la peggiore. Nei casi in cui si è riusciti a incolpare qualcun altro, il collaborazionismo e i compromessi locali sono come scomparsi dalla vista. In molti casi la colpa è stata attribuita in toto alla Russia. È una questione politica separata e importante.
La rete di quelli che erano gli attivisti di Memorial nelle varie repubbliche della tarda Unione Sovietica si è poi sfaldata. In particolare nei paesi del Baltico e nell’Ucraina occidentale. In quasi tutta l’Asia Centrale molto presto i dibattiti aperti sugli ultimi anni dell’Urss sono stati chiusi dai dispotismi locali. In Kazakistan invece la storia è diversa, in una certa misura. Ma anche loro sono andati per la loro strada. Hanno iniziato a interpretare il Gulag come parte di una più lunga storia di colonizzazione. E così, invece di lavorare tutti insieme, tutto si è sfaldato, ci siamo divisi e siamo andati in diverse direzioni.
Ricordate specifiche conferenze o altri eventi in cui queste diverse visioni si scontrarono?
Non ricordo i dettagli con precisione, ma certo ci furono. Ne ricordo in relazione allo Holodomor, la carestia del 1932-33 causata dalle politiche di Stalin, che uccise milioni di contadini, circa un quinto della popolazione ucraina, negli anni Novanta, certamente ci furono di questi episodi. Gli attivisti e storici ucraini di Memorial dicevano che lo Holodomor è una carestia solo ucraina, ad esempio. Ma da noi, nel sud della Russia, in Kuban, c’è stata una carestia come quella in Ucraina. Come Memorial negli anni Duemila abbiamo lanciato un appello, abbiamo chiesto a storici e attivisti in Ucraina e in altre aree ex-sovietiche di iniziare un dibattito aperto su queste divergenze, di porre fine alle “guerre della memoria”. Abbiamo proposto di iniziare a parlarci l’uno con l’altro. Ma io in quel periodo mi sono occupata soprattutto del concorso scolastico a cui ho accennato prima.
Questa idea è stata raccolta dai tanti diversi Memorial in Russia. Anche nelle province c’era una crisi profonda. Abbiamo iniziato un dialogo ampio, con gli allievi, gli insegnanti, con le biblioteche locali. E questo progetto è andato avanti per ventidue anni. L’abbiamo lanciato nel 1999 e l’abbiamo chiuso adesso, due settimane fa, nel gennaio 2022. Si chiamava “L’individuo nella Storia: Russia, XX secolo”. Ci interessava la descrizione del destino di persone singole, il cui racconto doveva essere basato su fonti primarie. È stato il più grande concorso storico in Europa. Anche in Italia c’è un concorso simile, abbiamo contatti con gli organizzatori. C’è una rete europea di concorsi storici per le scuole, coordinato centralmente dalla Fondazione Körber in Germania [cf. https://eustory.org]. In tutto ci sono più di venticinque organizzazioni. Quella russa è stata da sempre la più grande. Alcuni anni abbiamo ricevuto tremila lavori di studenti! Negli ultimi anni, nonostante tutte le difficoltà e i problemi, ne abbiamo ricevuti circa 1.500 all’anno. Sono davvero tanti. In ventidue anni, circa 50.000 allievi delle scuole russe hanno partecipato al concorso, insieme a centinaia di insegnanti, che sono stati parte attiva dell’iniziativa e ci hanno aiutato.
Abbiamo pubblicato venticinque libri. La nostra raccolta di lavori dalla Cecenia è uscita anche in traduzione italiana. Sì perché nel 2003 siamo riusciti a fare un concorso anche tra gli scolari ceceni. Questo è stato un progetto molto importante per Memorial. In questi anni abbiamo messo insieme un enorme archivio di memoria regionale sui diversi destini delle persone nel Ventesimo secolo, provenienti dall’Estremo Oriente agli Urali, dalla Siberia a Kaliningrad, dal sud al nord della Russia. Le composizioni parlavano della rivoluzione e della guerra mondiale, della guerra civile e del disgelo, e così via.
Gli scolari raccontavano soprattutto dei loro parenti?
Sì, ma non solo.
E adesso l’archivio dei testi inviati al concorso è digitalizzato?
Sì lo è, ma una cosa è digitalizzare i testi, un’altra creare un database su cui gli storici possano fare ricerche. Ma durante gli ultimi anni, da quando Memorial è stato ufficialmente dichiarato “agente straniero”, per noi lavorare è diventato sempre più difficile. Il concorso è stato una delle concause dell’accusa di “antipatriottismo” nei confronti di Memorial.
In che senso il concorso era “antipatriottico”, secondo le autorità?
Perché avremmo incoraggiato gli scolari a infangare la nostra Storia…
Cosa succederà all’archivio di Memorial, adesso che l’associazione è in corso di liquidazione da parte delle autorità?
Naturalmente ci batteremo perché gli archivi vengano conservati, faremo tutto il possibile. Per quanto riguarda l’archivio del concorso pubblico, è stato digitalizzato e non andrà comunque perso. Ma questo è solo una piccola parte dell’archivio di Memorial, messo insieme in trent’anni di lavoro, milioni di documenti.
È un grande archivio popolare, un archivio della memoria popolare, che ora è in pericolo. Stanno tentando di distruggere questa memoria: e queste non sono parole vuote, è la dura verità. Nessuno sa cosa potrà succedere. Glielo voglio dire chiaramente. Adesso si fanno tante previsioni, ma se vuole sapere il mio parere, sono molto pessimista per quello che potrà succedere in Russia nei prossimi dieci anni. In passato non lo sono mai stata. Sono nata quando al potere c’era Stalin. In tutta la mia vita non sono mai stata tanto pessimista sul futuro del mio paese quanto lo sono ora. Vedere quanto succede è molto duro. Ma questo è solo l’inizio di una valanga spaventosa. La gente vede bene che se fanno questo a Memorial, con organizzazioni molto più piccole e meno prestigiose ci metteranno ancora meno a sbarazzarsene. Si prospettano tempi molto duri, e nessuno di noi sa a che livello di assurdità possano arrivare le nostre autorità.
Perché hanno deciso di distruggere Memorial proprio adesso?
Le autorità non ci hanno mai amato. Pensare il contrario significa raccontarsi favole. Nemmeno negli anni Novanta, per il nostro lavoro di monitoraggio sulle violazioni dei diritti umani durante la guerra in Cecenia. La nostra situazione a partire dagli anni duemila è peggiorata di anno in anno. Le leggi sulle organizzazioni non governative sono peggiorate, i controlli sono diventati più duri, le multe più salate. La legge sugli agenti stranieri è stata un’ulteriore fattore che ci ha cambiato e rovinato la vita. È un processo che è durato anni ed è andato avanti a scatti, peggiorando costantemente. Con l’annessione della Crimea all’inizio del 2014 c’è stato un ulteriore peggioramento. Siamo stati dichiarati “agenti stranieri”, in base alla legge, per i nostri progetti comuni con associazioni e studiosi stranieri, cosa che del resto abbiamo fatto fin dall’inizio della nostra attività… Nel 2014 il Centro per i diritti umani di Memorial è stato dichiarato “agente straniero”; due anni dopo lo è stato Memorial Internazionale. Negli ultimi mesi, con quello che è successo in Bielorussia, con la necessità di organizzare le ultime elezioni parlamentari che preoccupavano il Cremlino, con gli emendamenti costituzionali e l’introduzione del mandato illimitato per il presidente: a causa di tutto questo le repressioni non sono più “puntuali” (come diciamo noi in russo), ma in pratica sono ormai di massa, e prendono forme diverse. Memorial è stato scelto per due ragioni. Primo, per liquidare una organizzazione a rete, sparsa in tutta la Russia. Compromettere il centro di questa rete, nella mentalità cekista [la Ceka era la prima polizia politica bolscevica; “Cekista”, per indicare i membri dei servizi di sicurezza e della polizia politica, è rimasto in uso anche dopo che l’acronimo fu abbandonato, Ndr] significa sbarazzarsi dell’intera rete, in modo da colpire voci critiche all’interno della Russia. Ma è anche un segnale verso l’esterno. Memorial è molto conosciuto in Occidente, dunque questa liquidazione è anche un modo per dire: ce ne freghiamo di voi, potete urlare contro di noi quanto volete. “Non ci importa nulla né dell’Onu né del tribunale europeo per i diritti umani. Guardate, di loro facciamo quello che vogliamo.” Per questo è stato scelto Memorial, e non una organizzazione poco conosciuta.
Non ha l’impressione che l’atteggiamento del potere nei confronti di Memorial sia peggiorato quando avete iniziato a occuparvi non solo delle vittime, ma anche dei carnefici? Penso al caso dello storico di Memorial Jurij Alekseevic Dmitriev che, nelle sue ricerche sui massacri staliniani in Karelia, non ha solo recuperato i nomi delle vittime, ma anche quelli dei loro esecutori, e ora marcisce in prigione con l’accusa di pedofilia nei confronti della propria figlia adottiva.
Sì certamente, questo è un ulteriore fattore. E gettare fango sugli avversari è uno dei loro metodi da sempre.
Quali sono state le fasi dei rapporti tra Memorial e il potere politico?
All’inizio è stato molto difficile organizzarsi. Gorbacev aveva molta paura di noi: “Che cos’è questa organizzazione che è stata organizzata dal basso, non c’è mai stato niente di simile in Urss…” Il Politburo ha discusso della questione per ben due volte. Poi alla fine, dopo la morte di Sacharov, Gorbacev ha dato l’autorizzazione alla registrazione nel 1989. Dopo il colpo di stato del 1991 e le successive riforme economiche, sono iniziati i problemi: il processo al partito comunista dell’Urss è fallito, ad esempio. Ma in quel periodo persone di Memorial sedevano prima al Soviet Supremo e poi alla Duma; Sergej Kovalev era nel Comitato sui diritti umani, e così via. C’era una lotta per la memoria, ma poi con l’arrivo delle riforme e dei problemi economici, l’atteggiamento generale è diventato: “Abbiamo altre cose a cui pensare... Fate quello che volete, ma adesso non possiamo aiutarvi”.
Non era sempre così, ma la tendenza era quella. E poi nel 1994 iniziò la guerra in Cecenia, e Memorial, con i suoi difensori dei diritti umani e le denunce dei crimini delle autorità, è diventata una organizzazione molto scomoda. Anche i liberali negli anni Novanta erano molto seccati: “Ma cosa vogliono questi vecchi dissidenti con il loro Stalin che non interessa più a nessuno! Bisogna darsi al business, pensare al futuro, non alle piramidi d’Egitto!”. A volte ci sentivamo come tante cassandre non ascoltate da nessuno. Negli anni duemila, con la formazione della “dottrina patriottica”, la situazione è andata aggravandosi. Nel periodo di Putin l’atteggiamento delle autorità è stato: la memoria la gestiamo noi, il memoriale delle vittime dello stalinismo lo facciamo, ma come vogliamo noi. Spesso si sente dire: “Ma guardate, a Mosca c’è il museo del Gulag, Putin ha inaugurato un monumento alle vittime delle repressioni, i libri di storia continuano ad uscire…”. Ma anche a questo verrà posto fine, quando verrà approvata questa tremenda nuova “dottrina nazionale” di cui stanno discutendo adesso al Ministero dell’educazione. È una dottrina sulla memoria nazionale, assolutamente mostruosa. È peggio che tradizionalista, è iper-conservatrice, assolutamente stalinista. Insomma la tendenza rispetto alla memoria dello stalinismo è prima la presa di controllo da parte dello stato, poi la marginalizzazione, e via via la sua proibizione, con diversi pretesti. Soprattutto la seconda guerra mondiale. Ritorniamo da dove abbiamo iniziato: la guerra è stato il primo campo di battaglia sulla memoria dello stalinismo, e ora è diventata, al contrario, lo strumento per l’oscuramento della memoria dello stalinismo. Siamo in una situazione politica molto pesante, che ci sta portando ad allontanarci sempre di più dall’Occidente e da qualsiasi valore democratico.
Come sono stati connessi fin dall’inizio lo studio della storia e la difesa dei diritti umani?
Fin dagli anni Novanta, Memorial si è battuta per i reali diritti delle vittime della repressione e i loro discendenti. Le persone che hanno lavorato a Memorial hanno preso parte alla stesura della legge sugli archivi e sulla riabilitazione. E ancora oggi, ci battiamo per il diritto alla memoria, il diritto ad accedere agli archivi, che sono sempre più chiusi. E, ormai, anche semplicemente per il diritto a dire la verità sul passato. Senza contare che in Memorial sono entrati molti dei dissidenti sovietici che si erano battuti per i diritti umani, come Sergej Adamovic Kovalev, scomparso l’anno scorso.
Come possiamo aiutarvi?
Aiutare lo si può fare come sempre si è fatto in passato: stampando da voi quello che non si può stampare qui, aiutando le persone che scappano, ad esempio dalla Bielorussia, ma anche dalla Russia, dove questo sta già succedendo. Dunque aiutare nel modo più concreto. Ma la cosa più importante è fare pressione sui vostri parlamenti e governi perché non facciano compromessi indegni. E non perché io penso che si possa in qualche modo cambiare la situazione dall’esterno. Questo è impossibile, come sapete. La situazione potrà cambiare solo dall’interno della Russia Ma perché per le persone che vogliono cambiare la situazione, e sperano in questo, dal punto di vista morale e psicologico è insopportabile veder regnare quello che indica una parola che Sergej Adamovic odiava: la Realpolitik. Perché allora vince chi ora è al potere da noi, che dice costantemente che gli occidentali in realtà si vendono al miglior offerente, che non osservano i valori di cui tanto parlano, che li compriamo con il nostro gas e il nostro petrolio, che in ogni caso tutto è deciso, in fin dei conti, dai soldi. I Cekisti oggi al potere hanno un totale disprezzo per la democrazia, per il pensiero occidentale, per tutto questo. E devo dire che l’Italia in relazione a questo è un posto abbastanza peculiare. Anche perché in gioco ci sono forti interessi economici e politici. Durante l’epoca di Berlusconi, questo era scritto a caratteri cubitali. Certo, quello che noi intellettuali e studiosi possiamo fare è poco. Le nostre forze sono deboli, ma non abbiamo alternativa. Non possiamo rinunciare ai nostri valori.
(a cura di Niccolò Pianciola)
Qual è il suo retroterra familiare?
Sono una bambina del “disgelo”, si può dire. In questo mi sento molto fortunata. Anche se sono nata quando Stalin era al potere, il mio primo ricordo cosciente risale a quando avevo tre anni. Come tutti i bambini, ho ricordi frammentari anche degli anni precedenti, ma il mio primo ricordo coerente è proprio legato ai giorni della morte di Stalin [nel marzo 1953]. Sono nata in una famiglia moscovita che, come diremmo oggi, era molto politicizzata: mio nonno materno era un impiegato del Comintern. Sopravvisse alle repressioni, un vero miracolo. Mia madre e mio padre si laurearono alla facoltà di lettere dell’Università di Mosca. Mio padre, che era nato nel 1924, andò al fronte durante la Seconda guerra mondiale, e fu poi invalido di guerra. Erano molto attenti a quello che succedeva nel mondo. Inoltre, la mia era una famiglia ebraica. Eravamo, si può dire, una famiglia di intellettuali ebrei. Allora c’era la campagna contro il “cosmopolitismo”, furono mesi tremendi per noi, perché erano stati tutti licenziati dal lavoro. In famiglia erano tutti a casa.
Suo padre che lavoro faceva?
Mio padre era tornato dalla guerra nel 1944, quando era ancora molto giovane, e poi era andato a studiare all’università. All’inizio degli anni Cinquanta aveva appena finito il dottorato, ma non lo prendevano a lavorare da nessuna parte.
Mio nonno aveva degli incarichi per il Partito. Lavorava per l’Informbjuro (com’è noto il Comintern era stato sciolto nel 1943), nella sezione internazionale, e per l’agenzia Tass. Venne licenziato, e aprirono un procedimento contro di lui. Non solo i familiari, ma tutti i nostri amici e conoscenti ebrei erano stati licenziati uno dopo l’altro.
Da quanto tempo la vostra famiglia era a Mosca?
A Mosca, prima della rivoluzione non c’erano ebrei. Eccetto persone molto ricche e coloro che avevano un’istruzione universitaria, tutti gli altri erano stati espulsi dalla città durante il regno dello zar Alessandro III. Era rimasta una comunità poco numerosa che comprendeva persone molto ricche e coloro che ufficialmente si erano convertiti a un’altra religione. La stragrande maggioranza degli ebrei moscoviti arrivò a Mosca dai villaggi [della Zona di residenza ebraica zarista, abolita di fatto durante la Prima guerra mondiale, Ndr] dopo la rivoluzione, negli anni Venti. Tra loro c’erano anche mia nonna e mio nonno. Mio nonno, come funzionario di partito, fu semplicemente trasferito a lavorare nella capitale. La località di origine della mia famiglia era un villaggio vicino alla città di Gomel’. Oggi è nel territorio della Bielorussia, o nella zona di confine tra Russia e Bielorussia.
Ma l’ho interrotta, stava parlando dei suoi ricordi dei giorni della morte di Stalin.
I miei genitori si consultarono con il nonno, considerato persona molto intelligente che capiva di politica e conosceva molte persone importanti. Erano giorni in cui era ormai certo che Stalin sarebbe morto, ma non si sapeva se fosse ancora vivo o no. La diagnosi era chiara, i medici avevano descritto il tipo di respirazione che ha la persona colpita da ictus che sta per morire. “Che succederà dopo la sua morte?”, ci si chiedeva. Molti allora pensavano che, una volta morto Stalin, la situazione sarebbe peggiorata. Pensavano che Stalin fosse l’ultima barriera che difendeva gli ebrei da veri e propri pogrom antisemiti e dalla deportazione. Io avevo tre anni e naturalmente non potevo capire queste discussioni. I miei genitori discutevano di queste cose con i loro amici davanti a me. Evidentemente delle cose che non volevano che io sentissi parlavano quando non c’ero, ma non mi hanno mai detto “esci dalla stanza, quello di cui parliamo non è da bambini”.
Erano i primi di marzo 1953, faceva ancora freddo. Mia madre e io eravamo in strada a fare una coda per comprare delle uova. Le porte del negozio erano aperte e la lunga coda continuava nella via. Eravamo nel centro di Mosca, a tre minuti dal Cremlino. Io mi annoiavo molto e percepivo che le persone in fila erano tese e nervose. Mi sembravano tante persone grigie, avvolte da una qualche pesante preoccupazione. L’atmosfera in città era plumbea in quei giorni. Io ero una chiacchierona tremenda. Sentivo tutto quello che gli adulti dicevano. Da una parte mi annoiavo, dall’altra volevo mostrare di essere già grande e intelligente. Allora, con un tono di voce tale che tutta le persone in coda potevano sentire, ho chiesto a mia madre: “Mamma, ma Stalin allora? È morto alla fine?”. In quel momento ho avvertito che tutta la coda si era come congelata. Una donna che era in piedi in coda davanti a noi si girò e, con un tono impaurito ma non benevolo che mi mise molta paura, disse a mia madre: “Porti via la bambina… Anche la bambina dei nostri vicini parlava e parlava, e alla fine hanno portato via tutta la famiglia”. Allora mia madre mi prese la mano con tanta forza da farmi male (me lo ricordo bene perché non aveva mai fatto, né fece dopo quel giorno una cosa simile -anche sgridarmi, lo faceva molto di rado) e ce ne andammo. Dopo mi disse un’unica frase, che poi non mi ha mai più ripetuto: “Non tutto quello di cui si parla a casa si può ripetere ad alta voce. Ci potresti portare una grande disgrazia”. Così in epoca sovietica ai bambini, fin quasi dalla nascita, si insegnava a capire se una cosa la si poteva dire o no. E da quel momento ho ricordato quella verità.
Ma, come dicevo all’inizio, sono stata molto fortunata. Perché i miei ricordi del periodo successivo a quest’episodio sono come se subito fosse arrivata la primavera, il bel tempo. Sono andata a scuola nel 1956 e quell’anno per la prima volta nel nostro abbecedario non c’era Stalin, e non c’era una singola parola su di lui. E tutti i suoi ritratti erano stati tolti dai muri della scuola. Noi bambini vedevamo dove li avevano messi: stavano in cantina. Anche i suoi busti furono portati via.
Dunque poi i suoi genitori si sistemarono al lavoro. Suo padre era un importante studioso di letteratura [Lazar’ Il’ic Sindel’ (1924-2010), che pubblicava sotto lo pseudonimo di L.I. Lazarev, Ndr]. Come continuò la sua formazione negli anni Cinquanta e Sessanta?
Papà lavorò per lungo tempo alla “Literaturnaja Gazeta”. Tra l’altro, un giorno un collaboratore gli disse: “C’è questo georgiano bravissimo, che canta benissimo, cerca un lavoro…”. Era Bulat Okudžava, lo assunse lui alla “Literaturnaja Gazeta”. A quel tempo Sergej Smirnov era il direttore. Le vittime delle repressioni erano della generazione delle nonne e dei nonni. Gli amici di mio padre erano invece reduci di guerra. La guerra è stata il più importante avvenimento della sua vita. L’ha assolutamente formato.
Dalla “Literaturnaja Gazeta” è poi uscito, o -come si dice in russo- “l’hanno uscito” perché aveva scritto un articolo sulla letteratura di guerra in cui usava due formule che forse ha sentito, ed erano proprio dal suo articolo: “leitenantskaja proza” [lett. “prosa dei tenenti”, la letteratura sulla Seconda guerra mondiale, spesso scritta da reduci, che aveva come protagonisti sottufficiali e soldati, e non si focalizzava sui leader e sull’andamento della guerra in generale] e “okopnaja pravda” [lett. “la verità della trincea”, ovvero la realtà della guerra contrapposta all’abbellimento letterario, memorialistico e anche, e soprattutto, della propaganda ufficiale]. La sezione cultura del Comitato Centrale, o la sezione per la stampa, le giudicò delle formule dannose: “come sarebbe a dire ‘verità della trincea’?”.
Si può dire che lo scontro tra la narrazione ufficiale sulla Seconda guerra mondiale e quello che della guerra volevano invece raccontare gli scrittori reduci di guerra sia stato il primo caso di battaglia pubblica sulla memoria dello stalinismo in Russia?
Assolutamente sì.
Che cosa leggeva al tempo?
Io e i miei leggevamo contemporaneamente gli stessi libri, le novità. Leggevo in fretta, qualcosa mi interessava, qualcos’altro non mi interessava. Sono di una generazione di lettori, leggevamo fin dall’infanzia. Molto presto ho letto le memorie di Evgenija Ginzburg, che mi fecero una grande impressione. Tra l’altro era amica dei miei genitori, veniva a trovarli. Ricordo che a un certo momento tutti dicevano “Solzenycin, Solzenycin”. Avevo dodici anni quando su “Novyi Mir” uscì Una giornata di Ivan Denisovic. Molti membri della redazione erano amici dei miei genitori, li vedevo a casa nostra. Si parlava di questo racconto meraviglioso, intorno al quale c’era una grande battaglia, e Tvardovskij, il direttore di “Novyi Mir”, si batteva per stamparlo. Mi ricordo che il postino ha portato il numero della rivista in cui c’era il testo di Una giornata di Ivan Denisovic. Il postino allora non lasciava quelle riviste spesse nella buca delle lettere, suonava alla porta e le consegnava. Mio padre prese questa rivista molto spessa, grigia, “Novyj Mir”, tra le mani, e disse: “Dio mio, l’hanno pubblicato.” L’ho letto in fretta ed ero molto sorpresa. Non ho assolutamente capito cosa ci fosse di così straordinario in quel racconto. Mi aspettavo un racconto spaventoso e terribile, una storia drammatica. E invece non c’era niente di tutto ciò.
Non capivo. Poi ho letto Padiglione cancro, che mi impressionò di più, poi vari racconti. Solo dopo ho capito, i genitori mi hanno poi spiegato. Solzenycin l’ho visto solo una volta, in Russia, prima che partisse per l’esilio. I miei genitori conoscevano molto bene la sua seconda moglie, Natasa. Veniva spesso a casa nostra per varie faccende. Insomma, mi sono trovata in mezzo ai dissidenti, anche se il dissenso è un concetto molto vago, molto vasto. C’era un gruppo più ristretto di difensori dei diritti umani, ma i dissenzienti [inakomysljascie] e i veri e propri dissidenti erano molti di più.
Al momento di scegliere la facoltà in cui studiare all’università, ho deciso di fare letteratura, ma solo perché mi sentivo male al solo pensiero di dover studiare la storia contemporanea così come era insegnata in Urss allora. A me è sempre interessata la storia sovietica, non mi interessava la storia meno recente, che era insegnata bene ed era meno ideologizzata. Se avessi voluto studiare storia antica o medievale, probabilmente mi sarei iscritta a Storia. Invece mi interessava la storia sovietica e anche la storia del nazionalsocialismo.
È per questo che ha deciso di studiare lingua e letteratura tedesca?
Sì. E poi c’era anche l’influenza familiare del Comintern, dove la lingua franca era il tedesco.
Nella sua famiglia qualcuno parlava yiddish?
Solo la nonna paterna, con suo fratello. Nella famiglia di mia madre erano tutti ebrei da tempo secolarizzati. La mia bisnonna da parte di madre dopo i pogrom del 1905 aveva deciso di rimanere comunque in Russia, e ci fu una totale russificazione delle generazioni successive. Mandò tutti i bambini al ginnasio russo.
Quale generazione della sua famiglia era religiosa?
La generazione dei bisnonni, ma non tutti: la mia bisnonna da parte di madre già non era religiosa. La mia bisnonna da parte di padre, che fu uccisa a Dnepropetrovsk durante la Shoah, invece lo era. La mia bisnonna da parte di madre era un’imprenditrice di successo, coltivava tabacco in una zona tra la Bielorussia e la Russia. Poi durante la rivoluzione furono bruciati i suoi possedimenti e lei morì di tifo durante la grande epidemia della guerra civile. Sua figlia, la mia nonna materna, che in pratica mi ha educato, era una psicologa infantile. Le devo molto.
Gli ebrei russi come noi non avevano né la lingua, né la religione come base della propria identità, ma solo l’antisemitismo. Forse questo in Italia si può capire meglio che altrove. Molti dei miei amici avevano problemi per questo. Molti nascondevano le loro origini, soprattutto quelli la cui famiglia era solo in parte di origine ebraica. C’era un processo di cancellazione. I documenti di identità venivano cambiati, di questo non si parlava… Invece mia nonna ha creato una tradizione familiare. Raccontava moltissimo. E così so come lei aveva studiato al ginnasio, come vivevano prima della rivoluzione, che cosa si diceva dei pogrom che succedevano, cosa faceva la bisnonna, eccetera. C’era insomma una tradizione orale familiare che mi ha aiutato a non avere problemi con la mia autoidentificazione come ebrea. Invece questo era un grosso problema per molti, in un paese con una popolazione ebraica molto assimilata, ma allo stesso tempo con un forte antisemitismo.
Lei ha avuto esperienza diretta di antisemitismo nella vita quotidiana?
Certo! Costantemente. Tutti i bambini che giocavano con me nel cortile del mio condominio e a scuola sapevano che ero ebrea. Il mio cognome è assolutamente ebraico (Scerbakov è il cognome di mio marito, io mi chiamo Sindel), sono bruna, ho il naso grosso… Ma non ho avuto esperienza di antisemitismo diretto a me personalmente.
Forse qualcosa veniva detto alle mie spalle, ma se succedeva non me ne accorgevo. Ma fin dall’infanzia ero cosciente dell’antisemitismo nella nostra società. Erano anni di antisemitismo orribile. Sapevo bene che se non avessi avuto il massimo dei voti in tutte le materie non sarei stata ammessa all’università; e che c’era la quota non ufficiale del 3% di ebrei nelle ammissioni; e che avrei avuto problemi a trovare lavoro. Tutto questo lo sapevo.
La storia della sua famiglia e della sua infanzia è così interessante che temo non arriveremo mai a parlare di Memorial! Facciamo un passo in avanti nel tempo: cosa sapeva dello stalinismo durante il periodo di Breznev? Ho letto una sua intervista in cui raccontava che per lei era stato importante leggere Arcipelago Gulag di Solzenycin in samizdat. Quali erano le vostre fonti di informazione sul passato sovietico, dato che non c’era né libertà di parola né di ricerca storica nel paese? Come ha poi deciso di iniziare il progetto di storia orale di sopravvissuti dei campi del Gulag?
Per me, nella scoperta del passato staliniano, ha avuto un ruolo molto importante Arcipelago Gulag. Ho raccontato questo aneddoto molte volte. Ero giovane quando il romanzo ha iniziato a circolare nel 1973. Ero appena diventata mamma e non stavo lavorando in quel periodo. Mia madre, sapendo che mi avrebbe molto interessato, mi ha portato una delle prime copie del libro che erano arrivate in Urss. Era un libro, non era un dattiloscritto in samizdat. Era stampato su carta molto sottile. Era gennaio o febbraio 1973.
Dove e come era stato stampato il libro?
Era un libro camuffato, era un libro con un’altra copertina, una delle prime edizioni di Arcipelago Gulag stampate all’Ovest. Ce l’aveva data Natasa Solzenycin, che era ancora in Urss. Quella prima volta (poi l’ho riletto molte altre volte) l’ho letto in poche ore.
Mia madre poi mi ha telefonato e io, invece di dire la solita formula che usavamo quando parlavamo al telefono: “Abbiamo già mangiato la scatola di cioccolatini e adesso ve la ridiamo”, ho detto: “Il bambino è stato così buono che ho letto tutto l’Arcipelago”. Mia madre disse: “Tu sei completamente matta”, e riattaccò il telefono.
Di nuovo, come nel 1953!
Esatto! Ma per fortuna non ci successe nulla. Quando ho letto quel libro ho capito una cosa. Ho maturato la consapevolezza che se avessi voluto davvero capire qualcosa, avrei dovuto parlare direttamente con quelle persone. Ma passarono alcuni anni: io non sapevo stenografare, non avevo un registratore… La mia occupazione principale fino alla perestrojka erano traduzioni dal tedesco. In quel periodo, negli anni Settanta, emerse un genere giornalistico nuovo: la “annotazioni da un racconto a voce” [zapisi rasskaza]. Vennero fuori bravissimi giornalisti che erano capaci di scrivere storie di vita, umane.
È il genere praticato da Svetlana Aleksievic, mi sembra.
Sì, assolutamente. Mi ricordo bene quando un’amica disse che in Bielorussia c’era una giornalista bravissima che raccoglieva testimonianze… Poi l’ho anche conosciuta. Io ho iniziato a registrare nel 1979, quando dall’Austria mi hanno portato, e regalato, un registratore portatile Philips (allora era un miracolo della tecnica). Così ero del tutto indipendente, e ho iniziato a fare le interviste tra la fine del 1979 e l’inizio del 1980. All’inizio ho intervistato donne che conoscevo. Andavo da loro. Prima della perestrojka sono riuscita a intervistare molte persone.
Quanti ne ha intervistate? Erano tutte persone provenienti dal suo ambito sociale?
Circa duecento. Sì, erano soprattutto membri dell’intellighenzia provenienti dal mio giro di conoscenze, ma non solo. Ho iniziato con l’intervistare membri del gruppo di coloro che erano stati alla Kolyma.
Intende dire che i “reduci” di specifici lager del Gulag avevano mantenuto stretti rapporti dopo la loro liberazione?
Sì, soprattutto le donne. E così ho preso a registrare i loro racconti, inizialmente per pura curiosità. Molti non li sbobinavo nemmeno, rimanevano nei cassetti, era anche più sicuro. Poi ho sentito di varie persone che a Leningrado facevano qualcosa di simile. Uno era Arsenij Roginskij, che poi ha fondato Memorial, ma allora io non lo conoscevo. L’ho conosciuto solo dopo che era tornato dal campo di lavoro. Lo condannarono nel 1982, e fu imprigionato per quattro anni. Dopo l’inizio della perestrojka, mi sono trovata in mezzo a questo piccolo gruppo di persone. Non ero una di quegli attivisti che stavano in strada a raccogliere le firme, ma invece partecipavo ai seminari e agli incontri sulla memoria tra il 1987 e il 1988. Ho iniziato a discutere di quello che avevo registrato, di cosa ne pensavo e di come questa memoria si fosse trasmessa. Questo me lo ricordo bene.
All’inizio, quando ci furono le prime conferenze di fondazione di Memorial, tra la fine del 1987 e poi nel 1988, vi presi parte attivamente. Nell’autunno del 1988 vidi Sacharov per la prima volta.
Dunque lei non faceva parte di una rete coesa di persone che si occupavano di storia e memoria del passato sovietico: soltanto la fondazione di Memorial, si può dire, creò questa rete.
Sì, è così. Ho anche iniziato a pubblicare alcuni testi sulle “Moskovskie novosti”, sul Gulag, la memoria, eccetera. Un giorno ero in metropolitana, a Mosca, e nel mio vagone qualcuno stava leggendo le “Moskovskie novosti” dove era pubblicato il mio articolo sul Gulag. In quel momento ho pensato: “Sono qui in questo vagone e ho vissuto abbastanza per vedere questo”. Era una sensazione molto strana, che non dimenticherò mai. Come se pensassi di stare sognando, che non potesse essere vero. Da allora la mia vita si è intrecciata all’attività di Memorial. Da quel momento ho smesso di occuparmi di letteratura. L’unica cosa che ho poi tradotto erano dei racconti di Kafka. Da allora mi sono occupata solo di storia. Ho poi iniziato a insegnare all’Università Russa Statale di Materie Umanistiche di Mosca, che era stata fondata da Afanas’ev. Poi ho lavorato molto negli archivi e in seguito ho iniziato a collaborare strettamente con vari storici tedeschi, con i quali abbiamo fatto molti progetti comuni su vari temi, ad esempio sulla storia della Seconda guerra mondiale. Ho vissuto un anno in Germania e un anno in Austria. A un certo punto ho anche pensato di potermi fermare a lavorare in un’università lì, me l’hanno anche proposto (sono in pratica bilingue, parlo il tedesco pressoché come il russo). Poi ho pubblicato libri e articoli… Tutte queste attività le ho fatte parallelamente ad attività di Memorial. Non lavoravo nei loro uffici, ma eravamo in contatto costante e collaboravamo spessissimo.
Quando è entrata in un archivio sovietico per la prima volta per studiare la storia dello stalinismo?
Nel 1991, nella tarda primavera o l’inizio dell’estate, prima del colpo di stato.
In quale archivio? Subito in quello del Kgb?
Sì! Avevo pubblicato un altro articolo sulle Moskovskie novosti, sui comunisti tedeschi che erano stati consegnati dai sovietici nelle mani della Gestapo dopo il patto nazi-sovietico del 1939, un migliaio di persone. E in questo articolo scrivevo: gli archivi su questo sono chiusi, non possiamo vedere i documenti. Nel frattempo erano stati creati dei gruppi di lavoro per la riabilitazione delle vittime dello stalinismo. E dalla Lubjanka mi telefonarono e mi dissero: “Lei scrive questi articoli, ci accusa… Guardi che i documenti ci sono. Venga pure, se li vuole vedere”.
Ma davvero la prima volta che ha potuto lavorare in archivio sulla storia dello stalinismo è stato alla Lubjanka?
È stato proprio alla Lubjanka…
Ma altri storici avevano potuto forse già lavorare in archivio prima dell’estate del 1991…?
Pochissimi…
Mi riferisco a persone che lavoravano con Memorial…
Beh, poco dopo Arsenij Roginskij, Nikita Petrov, Nikita Ochotin lavorarono molto negli archivi perché iniziò il processo al Pcus. Questo accadde nel 1991, ma dopo l’estate.
Quando lei ha iniziato a lavorare con Memorial alla fine degli anni Ottanta, quanto aveva l’impressione che fosse un movimento, un’organizzazione sovietica, e non solo russa? I suoi membri a Mosca all’inizio erano soprattutto intellettuali moscoviti?
No, c’erano le persone più diverse. C’era qualche filologo. C’era Senja Roginskij, anche se lui è di Piter, e c’è molta differenza tra moscoviti e pietroburghesi. Fin dall’inizio Senja era la persona a cui ero più vicina, e lo rimase anche in seguito.
Mi interessava sapere se ci fossero forti connessioni, iniziative comuni, tra le organizzazioni di Memorial in Russia e Ucraina, ad esempio.
Con qualche persona sì. Ma il lavoro con persone in altre città e poi in altri paesi per quanto mi riguarda iniziò più tardi. Negli anni Novanta, rientrata dalla Germania, dove c’erano molte persone che lavoravano sulla vita quotidiana durante il nazionalsocialismo, ho iniziato a ragionare su questa possibilità. Dopo dieci anni dall’inizio dell’attività di Memorial, mi sembrava che la società in Russia stesse come frenando, non c’era stato quel lavoro sulla memoria che noi di Memorial avevamo sognato avvenisse. In larga parte era per la crisi economica, naturalmente. Avevo la sensazione di dover cercare di capire cosa stesse succedendo. E di nuovo per me la ricerca è stata interessante: negli anni precedenti ero un po’ vissuta di rendita, utilizzando i materiali di storia orale che avevo accumulato prima del crollo dell’Urss. A quel punto mi interessava capire cosa pensassero in quel momento, alla fine degli anni Novanta, gli scolari russi, e che cosa succedesse nelle province. Non pensavo che ne sarebbe uscito un grande progetto, ma Memorial è una rete di organizzazioni e allora c’erano ancora ottanta organizzazioni di Memorial.
Ottanta solo in Russia, o anche in altri stati ex-sovietici?
Solo in Russia, quello era un concorso russo.
Ecco, la mia domanda precedente era appunto se il crollo dello stato sovietico sia stato anche un crollo del Memorial sovietico, per così dire. Ho lavorato a lungo in Kazakistan e so che lì c’era un’organizzazione di Memorial che si chiamava “Adilet”, che da circa una decina d’anni non è più attiva. Queste connessioni con i capitoli non russi di Memorial erano significative prima del 1991? E in seguito sono rimaste?
Alcune sono rimaste, altre si sono interrotte. Con l’Ucraina continuano. Memorial in Russia ha un forte legame con Memorial a Charkov, più che con Kiev. In Bielorussia il regime ha schiacciato tutte le organizzazioni esistenti molto in fretta. Alcuni di loro erano nazionalisti e hanno deciso presto di smettere di collaborare con noi. Ma poi anche questi sono stati repressi. Quelli nei paesi del Baltico sono anche loro andati per la loro strada molto presto. Ma i contatti sono rimasti fino a oggi. Su questo, che è un tema separato e molto ampio, dirò solo una cosa. Alla fine degli anni Ottanta, quando Memorial è stato fondato, pensavamo che recuperare la memoria del terrore ci avrebbe unito, nelle diverse parti dell’Unione Sovietica.
Invece ci ha anche diviso. Perché queste cosiddette “guerre della memoria” sono iniziate ben prima della salita al potere di Putin. Si incominciò a discutere sulle occupazioni… nei paesi del Baltico la conquista e la sovietizzazione è ufficialmente considerata un’occupazione durata quasi cinquant’anni, con l’intervallo dell’occupazione nazista durante la Seconda guerra mondiale; su quale occupazione fosse la peggiore. Nei casi in cui si è riusciti a incolpare qualcun altro, il collaborazionismo e i compromessi locali sono come scomparsi dalla vista. In molti casi la colpa è stata attribuita in toto alla Russia. È una questione politica separata e importante.
La rete di quelli che erano gli attivisti di Memorial nelle varie repubbliche della tarda Unione Sovietica si è poi sfaldata. In particolare nei paesi del Baltico e nell’Ucraina occidentale. In quasi tutta l’Asia Centrale molto presto i dibattiti aperti sugli ultimi anni dell’Urss sono stati chiusi dai dispotismi locali. In Kazakistan invece la storia è diversa, in una certa misura. Ma anche loro sono andati per la loro strada. Hanno iniziato a interpretare il Gulag come parte di una più lunga storia di colonizzazione. E così, invece di lavorare tutti insieme, tutto si è sfaldato, ci siamo divisi e siamo andati in diverse direzioni.
Ricordate specifiche conferenze o altri eventi in cui queste diverse visioni si scontrarono?
Non ricordo i dettagli con precisione, ma certo ci furono. Ne ricordo in relazione allo Holodomor, la carestia del 1932-33 causata dalle politiche di Stalin, che uccise milioni di contadini, circa un quinto della popolazione ucraina, negli anni Novanta, certamente ci furono di questi episodi. Gli attivisti e storici ucraini di Memorial dicevano che lo Holodomor è una carestia solo ucraina, ad esempio. Ma da noi, nel sud della Russia, in Kuban, c’è stata una carestia come quella in Ucraina. Come Memorial negli anni Duemila abbiamo lanciato un appello, abbiamo chiesto a storici e attivisti in Ucraina e in altre aree ex-sovietiche di iniziare un dibattito aperto su queste divergenze, di porre fine alle “guerre della memoria”. Abbiamo proposto di iniziare a parlarci l’uno con l’altro. Ma io in quel periodo mi sono occupata soprattutto del concorso scolastico a cui ho accennato prima.
Questa idea è stata raccolta dai tanti diversi Memorial in Russia. Anche nelle province c’era una crisi profonda. Abbiamo iniziato un dialogo ampio, con gli allievi, gli insegnanti, con le biblioteche locali. E questo progetto è andato avanti per ventidue anni. L’abbiamo lanciato nel 1999 e l’abbiamo chiuso adesso, due settimane fa, nel gennaio 2022. Si chiamava “L’individuo nella Storia: Russia, XX secolo”. Ci interessava la descrizione del destino di persone singole, il cui racconto doveva essere basato su fonti primarie. È stato il più grande concorso storico in Europa. Anche in Italia c’è un concorso simile, abbiamo contatti con gli organizzatori. C’è una rete europea di concorsi storici per le scuole, coordinato centralmente dalla Fondazione Körber in Germania [cf. https://eustory.org]. In tutto ci sono più di venticinque organizzazioni. Quella russa è stata da sempre la più grande. Alcuni anni abbiamo ricevuto tremila lavori di studenti! Negli ultimi anni, nonostante tutte le difficoltà e i problemi, ne abbiamo ricevuti circa 1.500 all’anno. Sono davvero tanti. In ventidue anni, circa 50.000 allievi delle scuole russe hanno partecipato al concorso, insieme a centinaia di insegnanti, che sono stati parte attiva dell’iniziativa e ci hanno aiutato.
Abbiamo pubblicato venticinque libri. La nostra raccolta di lavori dalla Cecenia è uscita anche in traduzione italiana. Sì perché nel 2003 siamo riusciti a fare un concorso anche tra gli scolari ceceni. Questo è stato un progetto molto importante per Memorial. In questi anni abbiamo messo insieme un enorme archivio di memoria regionale sui diversi destini delle persone nel Ventesimo secolo, provenienti dall’Estremo Oriente agli Urali, dalla Siberia a Kaliningrad, dal sud al nord della Russia. Le composizioni parlavano della rivoluzione e della guerra mondiale, della guerra civile e del disgelo, e così via.
Gli scolari raccontavano soprattutto dei loro parenti?
Sì, ma non solo.
E adesso l’archivio dei testi inviati al concorso è digitalizzato?
Sì lo è, ma una cosa è digitalizzare i testi, un’altra creare un database su cui gli storici possano fare ricerche. Ma durante gli ultimi anni, da quando Memorial è stato ufficialmente dichiarato “agente straniero”, per noi lavorare è diventato sempre più difficile. Il concorso è stato una delle concause dell’accusa di “antipatriottismo” nei confronti di Memorial.
In che senso il concorso era “antipatriottico”, secondo le autorità?
Perché avremmo incoraggiato gli scolari a infangare la nostra Storia…
Cosa succederà all’archivio di Memorial, adesso che l’associazione è in corso di liquidazione da parte delle autorità?
Naturalmente ci batteremo perché gli archivi vengano conservati, faremo tutto il possibile. Per quanto riguarda l’archivio del concorso pubblico, è stato digitalizzato e non andrà comunque perso. Ma questo è solo una piccola parte dell’archivio di Memorial, messo insieme in trent’anni di lavoro, milioni di documenti.
È un grande archivio popolare, un archivio della memoria popolare, che ora è in pericolo. Stanno tentando di distruggere questa memoria: e queste non sono parole vuote, è la dura verità. Nessuno sa cosa potrà succedere. Glielo voglio dire chiaramente. Adesso si fanno tante previsioni, ma se vuole sapere il mio parere, sono molto pessimista per quello che potrà succedere in Russia nei prossimi dieci anni. In passato non lo sono mai stata. Sono nata quando al potere c’era Stalin. In tutta la mia vita non sono mai stata tanto pessimista sul futuro del mio paese quanto lo sono ora. Vedere quanto succede è molto duro. Ma questo è solo l’inizio di una valanga spaventosa. La gente vede bene che se fanno questo a Memorial, con organizzazioni molto più piccole e meno prestigiose ci metteranno ancora meno a sbarazzarsene. Si prospettano tempi molto duri, e nessuno di noi sa a che livello di assurdità possano arrivare le nostre autorità.
Perché hanno deciso di distruggere Memorial proprio adesso?
Le autorità non ci hanno mai amato. Pensare il contrario significa raccontarsi favole. Nemmeno negli anni Novanta, per il nostro lavoro di monitoraggio sulle violazioni dei diritti umani durante la guerra in Cecenia. La nostra situazione a partire dagli anni duemila è peggiorata di anno in anno. Le leggi sulle organizzazioni non governative sono peggiorate, i controlli sono diventati più duri, le multe più salate. La legge sugli agenti stranieri è stata un’ulteriore fattore che ci ha cambiato e rovinato la vita. È un processo che è durato anni ed è andato avanti a scatti, peggiorando costantemente. Con l’annessione della Crimea all’inizio del 2014 c’è stato un ulteriore peggioramento. Siamo stati dichiarati “agenti stranieri”, in base alla legge, per i nostri progetti comuni con associazioni e studiosi stranieri, cosa che del resto abbiamo fatto fin dall’inizio della nostra attività… Nel 2014 il Centro per i diritti umani di Memorial è stato dichiarato “agente straniero”; due anni dopo lo è stato Memorial Internazionale. Negli ultimi mesi, con quello che è successo in Bielorussia, con la necessità di organizzare le ultime elezioni parlamentari che preoccupavano il Cremlino, con gli emendamenti costituzionali e l’introduzione del mandato illimitato per il presidente: a causa di tutto questo le repressioni non sono più “puntuali” (come diciamo noi in russo), ma in pratica sono ormai di massa, e prendono forme diverse. Memorial è stato scelto per due ragioni. Primo, per liquidare una organizzazione a rete, sparsa in tutta la Russia. Compromettere il centro di questa rete, nella mentalità cekista [la Ceka era la prima polizia politica bolscevica; “Cekista”, per indicare i membri dei servizi di sicurezza e della polizia politica, è rimasto in uso anche dopo che l’acronimo fu abbandonato, Ndr] significa sbarazzarsi dell’intera rete, in modo da colpire voci critiche all’interno della Russia. Ma è anche un segnale verso l’esterno. Memorial è molto conosciuto in Occidente, dunque questa liquidazione è anche un modo per dire: ce ne freghiamo di voi, potete urlare contro di noi quanto volete. “Non ci importa nulla né dell’Onu né del tribunale europeo per i diritti umani. Guardate, di loro facciamo quello che vogliamo.” Per questo è stato scelto Memorial, e non una organizzazione poco conosciuta.
Non ha l’impressione che l’atteggiamento del potere nei confronti di Memorial sia peggiorato quando avete iniziato a occuparvi non solo delle vittime, ma anche dei carnefici? Penso al caso dello storico di Memorial Jurij Alekseevic Dmitriev che, nelle sue ricerche sui massacri staliniani in Karelia, non ha solo recuperato i nomi delle vittime, ma anche quelli dei loro esecutori, e ora marcisce in prigione con l’accusa di pedofilia nei confronti della propria figlia adottiva.
Sì certamente, questo è un ulteriore fattore. E gettare fango sugli avversari è uno dei loro metodi da sempre.
Quali sono state le fasi dei rapporti tra Memorial e il potere politico?
All’inizio è stato molto difficile organizzarsi. Gorbacev aveva molta paura di noi: “Che cos’è questa organizzazione che è stata organizzata dal basso, non c’è mai stato niente di simile in Urss…” Il Politburo ha discusso della questione per ben due volte. Poi alla fine, dopo la morte di Sacharov, Gorbacev ha dato l’autorizzazione alla registrazione nel 1989. Dopo il colpo di stato del 1991 e le successive riforme economiche, sono iniziati i problemi: il processo al partito comunista dell’Urss è fallito, ad esempio. Ma in quel periodo persone di Memorial sedevano prima al Soviet Supremo e poi alla Duma; Sergej Kovalev era nel Comitato sui diritti umani, e così via. C’era una lotta per la memoria, ma poi con l’arrivo delle riforme e dei problemi economici, l’atteggiamento generale è diventato: “Abbiamo altre cose a cui pensare... Fate quello che volete, ma adesso non possiamo aiutarvi”.
Non era sempre così, ma la tendenza era quella. E poi nel 1994 iniziò la guerra in Cecenia, e Memorial, con i suoi difensori dei diritti umani e le denunce dei crimini delle autorità, è diventata una organizzazione molto scomoda. Anche i liberali negli anni Novanta erano molto seccati: “Ma cosa vogliono questi vecchi dissidenti con il loro Stalin che non interessa più a nessuno! Bisogna darsi al business, pensare al futuro, non alle piramidi d’Egitto!”. A volte ci sentivamo come tante cassandre non ascoltate da nessuno. Negli anni duemila, con la formazione della “dottrina patriottica”, la situazione è andata aggravandosi. Nel periodo di Putin l’atteggiamento delle autorità è stato: la memoria la gestiamo noi, il memoriale delle vittime dello stalinismo lo facciamo, ma come vogliamo noi. Spesso si sente dire: “Ma guardate, a Mosca c’è il museo del Gulag, Putin ha inaugurato un monumento alle vittime delle repressioni, i libri di storia continuano ad uscire…”. Ma anche a questo verrà posto fine, quando verrà approvata questa tremenda nuova “dottrina nazionale” di cui stanno discutendo adesso al Ministero dell’educazione. È una dottrina sulla memoria nazionale, assolutamente mostruosa. È peggio che tradizionalista, è iper-conservatrice, assolutamente stalinista. Insomma la tendenza rispetto alla memoria dello stalinismo è prima la presa di controllo da parte dello stato, poi la marginalizzazione, e via via la sua proibizione, con diversi pretesti. Soprattutto la seconda guerra mondiale. Ritorniamo da dove abbiamo iniziato: la guerra è stato il primo campo di battaglia sulla memoria dello stalinismo, e ora è diventata, al contrario, lo strumento per l’oscuramento della memoria dello stalinismo. Siamo in una situazione politica molto pesante, che ci sta portando ad allontanarci sempre di più dall’Occidente e da qualsiasi valore democratico.
Come sono stati connessi fin dall’inizio lo studio della storia e la difesa dei diritti umani?
Fin dagli anni Novanta, Memorial si è battuta per i reali diritti delle vittime della repressione e i loro discendenti. Le persone che hanno lavorato a Memorial hanno preso parte alla stesura della legge sugli archivi e sulla riabilitazione. E ancora oggi, ci battiamo per il diritto alla memoria, il diritto ad accedere agli archivi, che sono sempre più chiusi. E, ormai, anche semplicemente per il diritto a dire la verità sul passato. Senza contare che in Memorial sono entrati molti dei dissidenti sovietici che si erano battuti per i diritti umani, come Sergej Adamovic Kovalev, scomparso l’anno scorso.
Come possiamo aiutarvi?
Aiutare lo si può fare come sempre si è fatto in passato: stampando da voi quello che non si può stampare qui, aiutando le persone che scappano, ad esempio dalla Bielorussia, ma anche dalla Russia, dove questo sta già succedendo. Dunque aiutare nel modo più concreto. Ma la cosa più importante è fare pressione sui vostri parlamenti e governi perché non facciano compromessi indegni. E non perché io penso che si possa in qualche modo cambiare la situazione dall’esterno. Questo è impossibile, come sapete. La situazione potrà cambiare solo dall’interno della Russia Ma perché per le persone che vogliono cambiare la situazione, e sperano in questo, dal punto di vista morale e psicologico è insopportabile veder regnare quello che indica una parola che Sergej Adamovic odiava: la Realpolitik. Perché allora vince chi ora è al potere da noi, che dice costantemente che gli occidentali in realtà si vendono al miglior offerente, che non osservano i valori di cui tanto parlano, che li compriamo con il nostro gas e il nostro petrolio, che in ogni caso tutto è deciso, in fin dei conti, dai soldi. I Cekisti oggi al potere hanno un totale disprezzo per la democrazia, per il pensiero occidentale, per tutto questo. E devo dire che l’Italia in relazione a questo è un posto abbastanza peculiare. Anche perché in gioco ci sono forti interessi economici e politici. Durante l’epoca di Berlusconi, questo era scritto a caratteri cubitali. Certo, quello che noi intellettuali e studiosi possiamo fare è poco. Le nostre forze sono deboli, ma non abbiamo alternativa. Non possiamo rinunciare ai nostri valori.
(a cura di Niccolò Pianciola)
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