Toni Capuozzo, giornalista e scrittore, ha recentemente pubblicato, da Feltrinelli, Il giorno dopo la guerra, tra la Bosnia di oggi e un'Italia lontana.

Devo partire da Olivo, e dalla sua storia. Olivo abitava a Cividale, una cittadina ai piedi delle montagne, infilata alle spalle dall’aria fredda che scende da Caporetto. In mezzo passa un fiume dove andavamo a fare il bagno d’estate, quando ci siamo stancati delle rogge. Noleggiavamo un motorino Garelli e uno guidava il motorino, e gli altri con le biciclette, a farsi trainare a turno dal motorino.
Però sulle ruote delle biciclette attaccavamo, con una molletta da biancheria, una cartolina, e la cartolina tra i raggi faceva un rumore quasi come il Garelli che faceva l’andatura in testa al gruppo. Ma veniamo all’Olivo. Che era un tipo smilzo e quasi senza età, però per noi era vecchio, perché aveva i capelli come certi angeli nei quadri delle chiese, con i riccioli e le onde, però bianchi. Si diceva di lui che fosse figlio della relazione tra una cameriera e un nobile della famiglia che la teneva a servizio. Ma forse era lui che lo diceva, e gli piaceva di farlo credere, perché era sempre meglio che dire figlio di nessuno, come era stato. Era senza casa, ma sempre allegro. Girava sempre attorno al fiume, con un triciclo dove raccoglieva bottiglie e ferri vecchi. Al collo portava un fazzoletto rosso, e andava alle manifestazioni declamando poesie in friulano che facevano sempre rima:
Tutti popoli saranno signori / senza bombe, coi trattori. / Neppure un soldo per il cannone, / bensì tanti per l’istruzione. / Se in terra faremo pace, / d’ogni bene avremo le chiavi.
Aveva trascorso la guerra al confino, e durante la Resistenza aveva passato il tempo a rubare camicie e calzini di lana da un deposito sorvegliato dai cosacchi. Vendeva le calze ai ricchi, e le regalava ai poveri e ai partigiani. Una notte si arrampicò sul campanile e cancellò con la vernice un’immagine di Mussolini che stava sul quadrante dell’orologio. Quando è finita la guerra, si è costruito una baracca di legno sulla riva del fiume, che a turno le amministrazioni e le piene  cercavano di portargli via. Ma lui ricostruiva, con un mulino che gli faceva la corrente elettrica, un lavandino con il rubinetto che era come un soprammobile perché non c’era l’acqua, e un televisore vuoto che gli serviva da dispensa. Mangiava solo brodo, e all’osteria ordinava sempre bicarbonato con acqua, perché soffriva, senza darlo a vedere, di ulcera. A carnevale si vestiva da antico romano, e aveva una faccia proprio da imperatore romano. D’estate vestiva sempre  una maglietta bianca,  pulita, e il fazzoletto rosso, che faceva portare a mo’ di collare anche ai due bastardini che lo seguivano dappertutto. Si diceva che mangiasse i gatti, e qualche volta anche un colombo. Normalmente gli dava da mangiare, ai colombi, però qualche volta ne prendeva uno a tradimento. Ha avuto tanti processi, ma tutti dal pretore. Uno era stato proprio per i colombi. Il pretore gli ha detto: “Lo sai che i colombi sono di tutti?” E Olivo ha risposto: “Sissignore. Infatti io ho mangiato proprio il mio” Qualche volta le sue stranezze erano acrobatiche. Si metteva a bandiera su un pilone, nonostante fosse già avanti con gli anni, oppure si arrampicava in cima al campanile e si metteva a testa in giù, con le gambe per aria, a guardare Cividale al rovescio. Gli piaceva stupire, e aveva la battuta pronta. Una volta che faceva il becchino, a chi gli aveva chiesto per curiosità chi era morto quel giorno, aveva risposto: “Oggi? Due vivi, sono morti.”
La vecchia Hiba Braje era nata il primo gennaio del 1910, a Sarajevo. La domenica dell’attentato all’Arciduca Hiba Braje aveva quattro anni e mezzo, e viveva in un mondo costituito da una bambola di pezza e da una capretta, che aveva per orizzonte ultimo un prato scosceso sul colle di Pofalici, a Sarajevo. Non seppe nulla dell’attentato, e capì poco di quanto successe dopo: ricordò solo che la capretta venne mangiata, ma non sapeva se per disperazione o per festeggiare qualcosa, nell’aia dove non zampettava ormai nessuna gallina. La seconda guerra mondiale la sorprese moglie e madre di tre figli, tutti ancora così piccoli da trasformare il suo ricordo della guerra in una lunga ed esausta compravendita di uova, galline e farina in cambio del latte che riuscì a non far mancare mai ai suoi bambini. In cambio, alla fine della guerra, legata a una corda in cucina, era sopravvissuta alle c ...[continua]

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