Il vecchio generale Jovan Djviak, già numero due dell’esercito bosniaco e simbolo della pacifica e difficile battaglia per una Bosnia interetnica (essendo egli serbo, ma fedele all’idea che si possa vivere insieme), ha sfoderato in una lunga trasmissione della TV bosniaca, un fiocco giallo all’occhiello, con la baldanza con cui i generali esibiscono le medaglie. C’è gente che piange, a Sarajevo, quando sente questa storia, e non ci deve meravigliare. C’è di tutto, in quel pianto: il senso di impotenza quando un vecchio amico patisce un’ingiustizia, la gratitudine per quanto si è ricevuto, la disillusione verso un paese che si credeva giusto, anche se un po’ imbelle, arruffone e artista, e si scopre spietato e vendicativo come un orologio svizzero. Per Sofri un gruppo di bosniaci è salito fino a Venezia, ospite di Cacciari e Bettin. Per lui, i sarajevesi si erano ripromessi di incontrarsi, alla vigilia della visita del Papa, nella sala del Kamerni Teatar, nel cui buio caffé Sofri distribuiva le merende alla sua banda di ragazzini, che credeva di aver adottato e che invece lo adottarono. Poi la sala si è rivelata occupata, e l’incontro è ripiegato in una stradina poco lontano, nella sala conferenze della GP Bosnia, un’impresa pubblica di costruzioni. L’addobbo della sala era scarno: un manifesto disegnato per l’occasione da Meho Zajmovic, uno dei migliori scrittori della scena bosniaca, alcuni manifesti che riprendevano, nel nome di Sofri, lo stile del Trio di Sarajevo, diventato famoso ai tempi dell’assedio ("To be or not to be Adriano Sofree"), un cestino di fiocchetti gialli sulla tovaglia rossa che copriva il tavolo. La scena sembrava sottratta di peso da un film di Kusturica (non so se l’osservazione piacerebbe ad Abdullah Sidran, che si aggira per la sala con in braccio il figlioletto, tale e quale a lui), forse per il polveroso aspetto del palazzo stile jugoslavo, forse per i capelli ritornati color rosso fuoco di molte delle signore presenti, e certo per i toni commossi di molti interventi. Quelli del pittore Vassilievic, dello scrittore Marko Vesovic e del poeta Izet Sarajlic ("due strade di Sarajevo dovranno essere dedicate, prima o poi, a due persone: Tadeus Mazowieski e Adriano Sofri"). Quelli dei professori universitari e quelli dei cittadini comuni ("Adriano è venuto a trovarci nella Sarajevo che era una prigione. Perché ora a noi non è concesso di andare a trovare lui?"). Naturalmente, era significativo anche il silenzio. Quello del mite Jacob Finci, esponente della comunità ebraica, o quello di Kanita Focak, che se avesse preso la parola avrebbe dovuto piangere davanti a tutti.
Fuori c’era il clamore di giorni particolari: arrivava il Papa, trascinandosi dietro la sua emozione, e il grande circo della sicurezza e dell’informazione. E’ passato su Sarajevo come una cometa, e Adriano Sofri non l’ha potuto vedere (del resto é difficile anche che abbia potuto vedere la cometa nel ritaglio di cielo della cella). In quella sala, nei nomi, nelle lingue e nelle parole batteva il cuore antico della Sarajevo multietnica, e fiera di esserlo, tollerante e perciò capace di indignarsi, quando vede che l’assedio tocca ad altri. Così è stato come se si trattasse di tradurre una metafora in una fitta corporale, quando Nicola Krstic si è alzato per ultimo dalla sua sedia in prima fila -un po’ a fatica, è ingrassato di nuovo- e si è fatto avanti, incerto. Ha detto: "mi fa male il cuore", e gli faceva male davvero, impallidito e con quei sorrisi strani con cui si rassicurano gli spettatori incerti. Ha aggiunto poche parole, e tra le parole sfuggiva, involontaria, una lezione. La vittima di ieri ci guarda, con la pena e l’autorità che le viene da quanto ha patito ...[continua]
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