Il testo che segue è l’introduzione di Gianni Sofri al Forum.
In questi ultimi anni si è tornati a parlare molto del Novecento, per motivi diversi, grandi e piccoli. Intanto, ci si avvia alla fine del secolo, e del millennio, e si è tentati dai bilanci. Libri come Il secolo breve di Eric John Hobsbawm hanno posto un problema di periodizzazione. Per questo autore, si tratta, per l’appunto, di un "secolo breve", che comincia nel ’14 e finisce nell’89: l’arco di tempo che ha visto, soprattutto, ascesa, trionfo e caduta del "socialismo realizzato". Altri hanno espresso dubbi: ogni periodizzazione storica si fonda sulla scelta del tema che si intende privilegiare, ed è da questa scelta che si viene indotti a dare più o meno importanza ai fattori di continuità o di rottura.
Il riparlare del Novecento ha fatto sì che ci chiedesse anche per che cosa questo secolo verrà ricordato quando lo si riterrà ormai parte della Storia moderna, e non più contemporanea, ammesso che valgano ancora queste nostre suddivisioni. Così, per qualcuno, il Novecento è soprattutto il secolo dell’aspirina e della penicillina, della vittoria su alcune grandi malattie (ma anche, a limitare gli entusiasmi, dell’insorgere di nuove terribili epidemie, e del ritorno di altre). Per altri è il secolo dell’Asia, del suo avvento prepotente al centro della scena mondiale. Per altri ancora è l’epoca dei totalitarismi. C’è chi mette in bilancio, affidandogli un ruolo storico fondamentale, il trionfo della velocità nel viaggiare e nel comunicare, che ha rimpicciolito il mondo e ne ha unificato la storia. Potrei continuare, ma qui poco m’importa. M’importa invece che non si dimentichi che il Novecento (visto in questo caso come un "secolo lungo") è stato anche il secolo dei genocidi, e di questo parlerò, per introdurre alla discussione e, soprattutto, alle testimonianze che ascolteremo.
A quanto pare, il termine "genocidio" venne usato per la prima volta nel 1944 da Raphael Lemkin, un polacco immigrato negli Stati Uniti, professore di diritto internazionale alla Yale University. Lemkin, che sarebbe poi stato uno dei protagonisti del grande dibattito postbellico sulla fondazione di una nuova giustizia internazionale, dette del fenomeno una definizione che colpisce ancora oggi per la sua ricchezza e precisione:
Per "genocidio" intendiamo la distruzione di una nazione o di un gruppo etnico ... In senso generale, genocidio non significa necessariamente la distruzione immediata di una nazione, se non quando esso è realizzato mediante lo sterminio di tutti i membri di una nazione. Esso intende piuttosto designare un piano coordinato di differenti azioni miranti a distruggere i fondamenti essenziali della vita dei gruppi nazionali, per annientare questi gruppi stessi. Obiettivi di un piano siffatto sarebbero la disintegrazione delle istituzioni politiche e sociali, della cultura, della lingua, dei sentimenti nazionali, della religione e della vita economica dei gruppi nazionali, e la distruzione della sicurezza personale, della libertà, della salute, della dignità e persino delle vite degli individui che appartengono a tali gruppi. Il genocidio è diretto contro il gruppo nazionale in quanto entità, e le azioni che esso provoca sono condotte contro individui, non a causa delle loro qualità individuali, ma in quanto membri del gruppo nazionale. (Cit. da Yves Ternon, Lo Stato criminale. I genocidi del XX secolo, Milano, Corbaccio, 1997, p.13).
Negli ultimi anni della guerra, e subito dopo la sua fine, ci fu un gran fervore di studi e di iniziative internazionali in questo campo. Il momento era particolarmente emozionante: alla tragica rivelazione dei crimini di guerra nazisti si accompagnava -nelle intenzioni di giuristi, filosofi e politici- una decisa aspirazione a modificare il quadro del diritto internazionale. Si votò una Convenzione sul genocidio e si iniziò a lavorare per la costituzione di un Tribunale internazionale permanente. Poi, con l’avvento della guerra fredda, prevalsero le diffidenze e i timo ...[continua]
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