Renzo Imbeni
Io penso che abbia un significato molto importante la decisione presa di consegnare il premio Alexander Langer a due donne che pur essendo state collocate, da vicende che non dipendevano da loro, in due fronti che dovevano contrapporsi e cercare di distruggersi a vicenda, hanno dimostrato col loro comportamento personale che si può reagire anche nelle situazioni più difficili e tragiche a questo destino verso cui autorità superiori, o un retaggio storico, sembrano collocare milioni di persone nel corso della nostra storia lontana e recente.
Il comitato dei garanti ha messo l’accento, nell’assegnare questo premio, su una motivazione che leggerò integralmente.
Con l’assegnazione di questo premio alla memoria di Alexander Langer vogliamo innanzi tutto segnalare un caso di solidarietà e di coraggio civile avvenuto nel quadro di uno dei più tragici eventi di questo secolo: il massacro di 800.000 cittadini del Ruanda, in maggioranza di etnia tutsi, ma anche di molte persone di origine hutu perpetrato nel corso di poche settimane a partire dal 7 aprile 1994. La tutsi Yolande Mukagasana e la hutu Jacqueline Mukansonera si conoscono appena, ma Jacqueline si assume il compito di salvare Yolande da una morte sicura, a rischio della sua vita.
Altri casi simili si sono certamente verificati in Ruanda nel 1994 così come durante altri genocidi di altri paesi. Vogliamo segnalare questo episodio che Yolande racconta nel suo libro-testimonianza, "La mort ne veut pas de moi" (La morte non mi ha voluta) che è stato edito in francese nel 1997, ma che è stato già tradotto in italiano -e io invito tutti i presenti a leggerlo perché è di un interesse straordinario- perché dimostra che anche nelle situazioni più brutali ed estreme esistono spazi per le responsabilità e le iniziative individuali e come sia possibile perseguire valori come la tolleranza e la convivenza fra gli esseri umani.
In particolare abbiamo voluto premiare in Yolande Mukagasana non solo la vittima di un genocidio in cui ha perso l’intera sua famiglia, ma anche il suo coraggio, la sua volontà di sopravvivere per testimoniare la sua esperienza affinché eventi così atroci non vengano abbandonati all’oblio, non possano ripetersi ed i responsabili non restino impuniti. E in Jacqueline Mukansonera, non solo l’audacia, l’inventiva, la coerenza con cui è riuscita a salvare Yolande, ma anche la discrezione e la modestia con cui è ritornata al suo lavoro in associazioni cristiane nel Ruanda del dopo genocidio.
Vogliamo inoltre, attraverso il premio a queste due persone, ricordare il genocidio del 1994 in Ruanda perché non venga archiviato nella nostra memoria europea come uno dei tanti eventi drammatici che si svolgono in aree considerate lontane e periferiche del nostro pianeta. Soltanto mezzo secolo fa nel cuore dell’Europa, ebrei e ariani di Germania, Italia, Francia, Olanda, Ungheria ed altri paesi si sono trovati in situazioni non dissimili da quelle dei tutsi e hutu del Ruanda e hanno dovuto affrontare scelte analoghe, e così in questi ultimi anni i croati, i bosniaci, i serbi o i kossovari o, in un contesto diverso, gli stessi algerini.
A Yolande e Jacqueline vogliamo dire che non vengono da un mondo esotico e lontano, ma che viviamo tutti una storia unitaria e indivisibile e identico è comunque il valore universale dei diritti umani.
Vogliamo inoltre con questo premio esprimere anche una nostra polemica nei confronti dell’Europa e del mondo occidentale: il genocidio del 1994 in Ruanda era da tempo annunciato ed esplicitamente programmato dal regime di Juvénal Habyarimana con il quale molti paesi, in primo luogo la Francia, intrattenevano intensi rapporti di cooperazione, anche militare. Le responsabilità di molti paesi dell’Europa in Ruanda risalgono certo a tempi lontani quando le potenze coloniali manipolavano ed esasperavano vere o presunte differenze etniche sulla base di politiche note, ma non abbastanza meditate, se ancora all’inizio di questo decennio gli ...[continua]
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