Fanno parte di quelle donne-coraggio che tutti i giorni escono da casa per andare a dare un senso alla vita delle ragazzine nelle scuole clandestine in cui il sapere, la conoscenza, l’istruzione sono sovversione. Arrivano direttamente da Kabul (*). Ci avviciniamo a loro come si trattasse di miracolate. Sono smaglianti di giovinezza e determinazione. I loro volti si sono finalmente liberati da quel velo pesante "il tchadri", "questa prigione in cui siamo in sospensiva permanente, sempre al limite del soffocamento". Ci sembrano libere e rilassate. Momento fulmineo, furtivo. Quando l’obiettivo di una macchina fotografica indiscreta tenta di fissare questo momento eccezionale risultante dall’incontro fra algerine in lotta come loro contro l’integralismo islamista, si proteggono prontamente il viso, preoccupate di non venire riconosciute al loro ritorno a casa. Ci confermano quanto la conquista della democrazia e della libertà si paghino con dure conseguenze e debba essere una lotta permanente. Questo incontro è eccezionale, pieno di emozione e di determinazione. Perché loro sanno che capiamo al volo le ragioni della loro lotta. Anche nella lingua persiana, l’Algeria si dice El Djazair...
Come si fa per lasciare l’Afghanistan oggi per testimoniare e denunciare il regime totalitario dei talibani? Non ne sapremo molto perché bisogna preservare tutti coloro che si sono assunti il rischio di farle uscire e le aspettano per rifare il cammino in senso inverso. Perché l’esilio non è la loro scelta. Ad ascoltarle parlare, le si sente emergere, a prezzo di sacrifici inauditi, da un incubo che loro dovranno combattere ancora per lungo tempo. L’ascolto della testimonianza sulle atrocità che subiscono popolazioni intere a Kabul e nei dintorni controllati dai talibani, ci rimanda immediatamente al nostro vissuto. A queste decine di volti anonimi delle afgane rapite e violentate poi rivendute in Pakistan si sovrappongono i volti delle nostre ragazze messe in schiavitù dagli emiri del Gia.
Cosa significa essere donne e vivere a Kabul oggi? "Schiava, sì, è così, essere una schiava." risponde Souhila. "E’ duro da sopportare il "tchadri", questo lungo velo sempre di colore scuro, larghissimo perché plissettato in cui si deve inserire una grata all’altezza del viso. E’ qualcosa di pesante, che rende handicappate. Perdo l’equilibrio, soffoco, divento sorda. Il tchadri è un’infamia, ci priva della nostra identità. Mi sento talmente umiliata che mi succede di rinunciare ad uscire. Ed è proprio quello che cercano i talibani, rinchiuderci nelle nostre case trasformate in prigione e trasformare tutti gli uomini in carcerieri di queste prigioni." Dall’aprile 1997, un nuovo decreto dei talibani obbliga la popolazione a verniciare di nero i vetri delle finestre in particolare quelle che danno sui cortili interni delle case. Questi editti, uno più infamante dell’altro, non riguardano solo le donne. Riguardano tutta la società.
Ouachma, ancora studentessa nel 1996, si ricorda tuttora del momento in cui le truppe dei talibani arrivarono a Kabul. "Era un giovedì, il 26 ottobre, ero all’università e la notizia si è diffusa molto velocemente. Il giorno dopo, hanno percorso in lungo e in largo le strade coi camion e hanno proibito agli abitanti di uscire. Alcuni giorni dopo, la loro radio (radio chariaa) si è messa a dettare la lista delle proibizioni, delle nuove leggi e delle punizioni cui ognuno sarebbe incorso se si fosse allontanato dalla "retta via" che loro avevano appena imposto." Le prime misure hanno riguardato prima di tutto le donne. Tchadri obbligatorio. Proibizione di andare a scuola, alla scuola superiore o all’università per le ragazze. Chiusura delle scuole femminili. Separazione degli spazi fra donne e uomini. Le donne non avevano più diritto ...[continua]
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