Il 2 aprile ha partecipato a uno degli eventi forse più significativi nella storia recente della Colombia: la liberazione degli ultimi dieci prigionieri detenuti dalle Farc. Questo traguardo è il risultato diretto di anni di lavoro da parte del movimento delle donne colombiane. Può parlarci del percorso per arrivare a ottenere questo obiettivo?
La Casa de la Mujer fin dall’inizio delle sue attività, nel 1982, ha avuto come obiettivo principale quello di contribuire alla creazione di un ambiente idoneo alla pace; un contesto che consideri la negoziazione politica come l’unico strumento etico. L’ambizione è di cambiare i valori che hanno retto la società colombiana negli ultimi 60 anni: l’idea, cioè, della violenza e dell’uso delle armi come unica soluzione per il conflitto.
Abbiamo partecipato ai dialoghi di pace durante la presidenza di Belisario Betancourt, abbiamo preso parte attivamente alla riforma costituzionale con i presidenti Barco e Gaviria, mentre invece durante il governo Pastrana non abbiamo partecipato al dialogo del Caguan tra lo Stato e le Farc perché non vedevamo una reale volontà politica di avanzare verso un processo di negoziazione vera. Durante il governo di Alvaro Uribe abbiamo deciso, con altre organizzazioni colombiane, che la negoziazione politica era l’unica strada percorribile. All’epoca, nell’ambito dell’associazione Colombianos y Colombianas para la paz, nacque un’iniziativa condotta dalla ex-senatrice Piedad Cordoba per la liberazione dei detenuti della forza pubblica in mano alle Farc da ormai più di dieci anni.
Quindi abbiamo cominciato un rapporto epistolare con le Farc in cui chiedevamo se fossero disponibili a un dialogo per ottenere la pace nel paese, se fossero disposti a consegnare le persone sequestrate e se accettassero l’applicazione del Diritto Internazionale Umanitario. Questo scambio epistolare è durato quattro anni. è stato un processo lento, ma con nostra grande sorpresa la guerriglia ha risposto in termini positivi alla nostra prima lettera, dichiarandosi aperta alla discussione e disponibile a una soluzione politica del conflitto. Così abbiamo cominciato a lavorare a questo processo per la liberazione dei detenuti. Un processo con molti ostacoli, sia da parte dello Stato colombiano, sia per la costante persecuzione della nostra associazione. A causa di questo nostro impegno ci hanno infatti trattato come il braccio intellettuale delle Farc.
Noi, comunque, siamo stati soddisfatti del nostro tentativo. In alcune regioni siamo anche riusciti a convincere i vari gruppi guerriglieri ad applicare il diritto internazionale umanitario e quindi a mantenere fuori dal conflitto i civili. Il cammino è stato difficile e tortuoso però abbiamo contribuito alla consegna di 30 persone sane e salve dopo 12-14 anni di sequestro nella selva.
Nel caso dell’ultimo rilascio, questo traguardo è stato ottenuto attraverso un’associazione che riuniva donne provenienti da diversi paesi ma con l’obiettivo di svolgere un’azione umanitaria (Mujeres del mundo para la paz)...
Fin dall’inizio, l’associazione Colombianas y Colombianos para la paz ha scommesso sul ruolo della donna come leader del processo di pace. La nostra non è un’organizzazione o un movimento, ma è un collettivo che riunisce differenti posizioni riguardo allo Stato colombiano e alla guerriglia, ma con un punto in comune: il dialogo come unico strumento etico possibile per arrivare alla pace e l’obiettivo di avvicinare le parti in conflitto. Perché la pace non si ottiene tra quelli che la pensano allo stesso modo, ma con chi la pensa diversamente.
Anche l’idea di riunire un gruppo di donne a livello internazionale che si facessero promotrici della pace nasce da un’iniziativa di Piedad Cordoba, come conseguenza delle sue buone relazioni a livello internazionale e dalla volontà di alcune donne di voler fare qualcosa per risolvere l’eterno conflitto colomb ...[continua]
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