Dott. Abdulcadir Omar Hussen, ginecologo presso la Clinica Ostetrica dell’Università di Firenze
Io vengo dalla Somalia dove il 95% della popolazione femminile ha subìto la mutilazione genitale. Vi siete mai chiesti perché questa pratica è ancora presente in questi paesi africani e altrove? Perché è ancora così radicata e difesa? In alcune vecchie mappe della Somalia veniva rappresentata una ragazza con tre elementi costanti: le trecce, che per la Somalia e per l’Africa sono un identità, i lacci legati alle gambe dopo la mutilazione genitale e un bastone, che ci parla di una ragazza dedita alla pastorizia. Ecco, forse può essere utile capire che in passato in questi paesi le donne spesso venivano lasciate sole a vigilare il pascolo, per cui rappresentavano una tentazione per il maschio, ad abusarne; evento che avrebbe scatenato una guerra tra le tribù per fare giustizia di chi aveva abusato della ragazza. Parliamo quindi di una forma profondamente radicata sebbene oggi i movimenti delle ragazze somale, delle ragazze africane, abbiano ormai condannato questo rito.
In una indagine elaborata da Efua Dorkenoo nel ’94, risulta che la distribuzione di questa pratica interessa circa 28 paesi. Con le guerre e la conseguente emigrazione, molte di queste popolazioni si sono spostate, sia in paesi vicini dell’Africa, sia in paesi europei o americani. In passato, accadeva che alla chiusura delle scuole, le famiglie immigrate risiedenti in Italia o comunque in Europa, approfittando delle ferie, si recavano nei paesi d’origine. Questo periodo coincideva a volte proprio con la mutilazione dei genitali della bambina. Attualmente, in molti di questi paesi sono in corso delle guerre, per cui è diventato più difficile tornare, così il rischio di mutilazione genitale femminile della bambina si è concentrato qui in Europa. I paesi maggiormente a rischio oggi sono, oltre all’Italia, la Gran Bretagna, l’Olanda, i paesi scandinavi, la Francia e soprattutto gli Stati Uniti che stanno diventando il paese con il maggior afflusso, e poi il Canada e l’Australia, dove però nonostante vi sia una presenza massiccia di immigrati provenienti da paesi dove si pratica la mutilazione genitale femminile, esistono leggi rigorose. In Australia, ad esempio, prima che le bambine escano dal paese nel periodo di vacanze, vengono controllate sia dall’assistente sociale che da un medico, e ricontrollate al ritorno.
Assieme ad alcuni colleghi abbiamo fondato la prima Società Italiana contro le mutilazioni genitali femminili. Ora esiste anche un organo di coordinamento socio-sanitario per gli immigrati; abbiamo creato poi un luogo di riunione soprattutto per le ragazze somale, keniote, senegalesi, etiopiche, ecc. dove è possibile organizzare piccoli seminari per parlare di questo argomento che finora è stato affrontato dai media, restando però un tabù tra le popolazioni interessate.
Entro ora nel merito del mio lavoro.
La mia esperienza e il mio interesse per la pratica della mutilazione genitale femminile è iniziato nel 1980. Inizialmente, i casi che abbiamo affrontato nella clinica ostetrico-ginecologica di Firenze erano dovuti soprattutto alle complicanze delle Mgf che possono essere distinte in fisiche (a breve ed a lungo termine) e psicologiche.
Complicanze fisiche a breve termine sono l’emorragia fino allo shock, il dolore, la ritenzione urinaria, le infezioni, la febbre.
Fra le complicanze fisiche a lungo termine ricordiamo le infezioni ricorrenti dell’apparato urinario, gli ascessi vulvari, le cicatrici cheloidi, la formazione di calcoli, la difficoltà alla fuoriuscita del sangue mestruale, le emorragie, la sterilità, la trasmissione di malattie infettive (Hiv, epatite, etc), l’impossibilità di controlli ginecologici e di screening oncologico.
Le complicanze psicologiche riguardano una sensazione di diminuita femminilità, una riduzione del desiderio sessuale, la dispareunia, la mancanza di orgasmo, la depressione.
La deinfibulazione può avvenire tramite l’utilizzo di mezzi impropri (lamette, coltelli, lame, etc.) o tramite tecniche chirurgiche soprattutto utilizzando il bisturi a lama fredda.
A quel tempo, anche noi per la deinfibulazione facevamo uso della tecnica tradizionale, quindi chirurgica, con due giorni di ricovero in ospedale, per un intervento in anestesia locale o generale.
Negli anni Novanta, il crescente numero di africani provenienti dai paesi dove si pratica la Mgf, il ricongiungimento familiare e l’ ...[continua]

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