L’insegnamento nelle scuole medie superiori, salvo un breve periodo di due anni in cui ho avuto un incarico in una scuola media serale, ha occupato una parte considerevole della mia vita lavorativa (e cioè, per la precisione, trentuno anni), ma non è stata la mia sola occupazione, poiché è stata preceduta da un periodo di dodici anni in cui ho lavorato (con qualche interruzione) presso la Casa editrice Einaudi, e accompagnata da un’attività di traduttore e di curatore di testi che si è prolungata, anche se in forma via via meno intensa, fino a questi ultimi anni. Questo per dire che la scuola non è stata per me una vocazione spontanea e del tutto disinteressata, ma, in qualche modo, un ripiego, una seconda scelta, anche se, una volta imboccata questa strada, ho cercato di assolvere ai miei doveri nel migliore dei modi possibile, senza riuscire peraltro mai a immedesimarmi totalmente e senza riserve nel mio ruolo professionale e a incarnare, così facendo, la figura ideale dell’insegnante, come mi era stata data la possibilità di conoscerla (almeno in un singolo caso) nei miei anni di scuola, e poi soprattutto attraverso i resoconti e le narrazioni di amici della mia età o più giovani di me che avevano potuto usufruire della guida e dell’assistenza di personaggi veramente conformi a questo modello. E anche nei confronti di alcuni dei miei colleghi (o forse, soprattutto, delle mie colleghe), che, anche senza essere circondati da un’aureola di ammirazione di questo tipo, erano, tuttavia, del tutto a posto nel loro ruolo, e in grado di esibire un curriculum ineccepibile, non ho potuto fare a meno di provare qualcosa di simile a un complesso di inferiorità, come se fossi affetto da una sorta di vizio di origine da cui non sarei mai riuscito a liberarmi completamente (per non dire che, anzi, per una serie di circostanze soggettive e oggettive, questo sentimento si è venuto accentuando proprio nel corso dei miei ultimi anni di vita scolastica).
Avevo fatto qualche esperienza di supplente a Milano nell’inverno 1950-51, prima di recarmi a lavorare da Einaudi, da cui ero rimasto profondamente scioccato, e quasi terrorizzato, nonostante che si trattasse di una classe abbastanza tranquilla degli ultimi anni del ginnasio di allora. Ero ancora psicologicamente troppo fragile per resistere a una prova di questo genere: insegnare il greco e il latino dopo essere uscito da poco dall’università, dove mi ero laureato in lettere classiche, con una tesi su Platone in Sicilia, e avere passato un anno presso l’Istituto Storico di Napoli, nella coscienza di non essere assolutamente in grado di farlo senza l’aiuto di un insegnante più esperto, era come trovarsi all’improvviso a sopportare un peso schiacciante, a cui non avrei mai saputo fare fronte né dal punto di vista delle mie cognizioni effettive in materia né da quello della mia conoscenza degli uomini, anche se si trattava solo di ragazzi quindicenni (o poco più). Ricordo che, in quella classe, si trovava il figlio di un carissimo amico di mio padre, Diego Lanza, che sarebbe diventato poi professore di letteratura greca a Pavia, e che mi disse, qualche tempo dopo, di avere provato un terribile senso di soggezione alla mia presenza, che non era stato certo pari, però, a quello che avevo provato io al cospetto di lui e di tutta la classe.
Sarebbe stato ben diverso l’impatto che l’esperienza scolastica avrebbe avuto su di me dodici anni dopo, quando avevo dietro le mie spalle una lunga esperienza di lavoro editoriale, sia pure contrassegnata da periodi di crisi e di depressioni anche acute, e - ciò che non era meno importante - potevo contare sulla vicinanza e sul sostegno della donna con cui mi ero sposato. L’insegnamento della filosofia, della psicologia e della pedagogia negli istituti magistrali, e per lo più in classi a composizione esclusivamente femminile, anche se comportava (e avrebbe continuato a comportare anche in seguito) uno studio intenso e costante, era un compito relativamente leggero, che non poteva dare luogo a nessun trauma violento. In particolare, lo studio della storia del pensiero e della prassi educativa e di un certo numero di classici della pedagogia moderna e contemporanea mi sarebbe stato di grande utilità nell’approccio ai problemi della vita scolastica e nello sforzo di stabilire un rapporto più stretto e più cordiale con gli studenti, che non potevano restare insensibili a quelle tematiche e a quel tipo di ragionamenti. Insomma, avevo scelto o trovato, per mia fortuna, la via migliore per entrare nella scuola nel modo più indolore e meno frustrante che fosse possibile, e cioè in quello più congeniale ai miei interessi e alle mie capacità, e che, inoltre, devo subito aggiungere, si veniva a trovare singolarmente in sintonia con le tendenze che venivano maturando in quegli anni nella scuola e nella società italiana (ma anche nel resto del mondo), e che sarebbero sfociate di lì a poco nella contestazione giovanile del ‘68.
Così, per una serie di circostanze del tutto accidentali, o comunque impreviste dal mio povero io cosciente, la mia esperienza scolastica ha potuto situarsi, almeno nei primi tempi, in una linea di quasi perfetta continuità con l’impegno politico (o, se si preferisce, politico-culturale, o politico-educativo) che mi aveva spinto ad entrare nella Casa editrice Einaudi e che era poi stato anche la causa della mia finale estromissione da essa. Dove avrei potuto trovare, infatti, un terreno più fertile per lo sviluppo delle mie riflessioni, e poi anche, a partire da un certo momento, per iniziative pratiche concrete, di quello rappresentato dalla scuola media superiore negli ultimi anni ‘60? Qui mi trovavo in contatto, non più o non solo con un mondo di intellettuali e di libri, ma con un campione rappresentativo di quella metà delle nuove generazioni che, a quell’epoca, era già in condizione di frequentare quell’ordine complessivo di scuole, e che si sarebbe posto, in quello stesso torno di tempo, il problema (o se lo sarebbero posto, in modo più concreto, gli studenti universitari che uscivano dalle sue file) di stabilire un rapporto di collaborazione e di solidarietà con quell’altra metà che aveva imboccato la via di un’attività lavorativa subalterna in vista di un rinnovamento radicale della società italiana e dei rapporti fra le classi e le nazioni su scala mondiale. I rapporti che avevo avuto modo di intrattenere con Raniero Panzieri e col gruppo dei “Quaderni Rossi” nei primi anni ‘60, e che mi avevano ridestato dall’apatia in cui ero caduto nella seconda metà degli anni ‘50, e poi quelli che avevo cominciato ad intrecciare coi redattori dei “Quaderni Piacentini” e con alcuni dei loro collaboratori fra il 1964 e il 1970, mi avevano preparato ad accogliere e a registrare con una certa prontezza i sintomi che si venivano manifestando un po’ ovunque (a cominciare dagli Stati Uniti d’America) nel mondo della scuola e dell’università e negli atteggiamenti delle nuove generazioni, che non potevano fare a meno di ripercuotersi e di svilupparsi anche presso di noi.
Ma questa fortunata concatenazione di circostanze aveva una contropartita non altrettanto positiva nelle ricadute che tutto ciò non poteva fare a meno di avere sui miei rapporti con l’istituzione scolastica, o, per dir meglio, con la dimensione propriamente professionale del mio lavoro di insegnante. Potrei riassumere la natura di questa contraddizione, o di questa antinomia praticamente insolubile, dicendo che mi sono trovato a contestare il mio ruolo di insegnante prima ancora di averlo indossato e fatto mio, di averlo assimilato e penetrato fino in fondo, in tutte le sue implicazioni e in tutte le sue esigenze. Le cose si sarebbero configurate diversamente se fossi entrato nella scuola una decina di anni prima, e avessi avuto il modo e il tempo di acquisire un habitus professionale più solido e possibilmente impeccabile, che avrebbe potuto consentirmi, a quel punto, di impegnarmi a fondo in un’opera di riforma del mio stesso insegnamento, dei suoi metodi, dei suoi contenuti, della sua stessa natura, e quindi anche, in prospettiva, o, per dir meglio, in stretta congiunzione con quella, in un’attività propositiva diretta a promuovere cambiamenti di carattere strutturale nella direzione che mi sarebbe parsa desiderabile. Solo in questo caso la dimensione didattica e la dimensione politica della mia attività avrebbero potuto fondersi strettamente fra loro, laddove invece, al punto in cui mi trovavo, e in conseguenza della sfasatura temporale di cui ho parlato, non poteva fare a meno di crearsi, fra l’una e l’altra, un dissidio praticamente insanabile, di cui gli studenti non potevano fare a meno di rendersi conto, tanto è vero che molti di essi, che accoglievano con entusiasmo i miei interventi nelle assemblee (che erano allora, e sarebbero rimasti ancora negli anni ‘70, molto frequenti), e in generale mi consideravano come una guida o, per dir meglio, come un punto di riferimento sicuro nell’attività di contestazione e di proposta che si svolgeva nella scuola, mi confessavano di non essere altrettanto entusiasti delle mie lezioni ordinarie, che erano, tutto sommato, di tipo tradizionale, e che si attenevano abbastanza scrupolosamente ai programmi. C’era, in esse, anche se forse non sempre, qualcosa di sforzato e insieme di incompiuto, di rimasto, per così dire, a metà, come se la materia che insegnavo, nonostante tutti gli sforzi che avevo fatto per impadronirmene, non fosse ancora completamente dominata e posseduta, non fosse diventata, se si può dir così, una seconda natura, e non mi consentisse quindi quella libertà di movimento, quella sovranità nella trattazione degli argomenti, e quindi anche quella familiarità nella conservazione con gli studenti che può concedersi solo chi si sente perfettamente signore in casa propria, che caratterizzano, o dovrebbero caratterizzare, l’insegnante che è diventato un virtuoso nel suo mestiere, e che, grazie a questa “virtù” (di cui può valere la pena di sottolineare il duplice significato), è anche in grado di attirare e di soggiogare completamente l’attenzione degli studenti.
Si può spiegare così come, nell’autunno del 1970, quando la forza del movimento studentesco, e anche quella del movimento insegnanti, in cui, a Torino, avevo svolto, insieme ad altri compagni, un ruolo abbastanza rilevante, mostravano chiaramente i segni del declino, la volontà di impegnarmi fino in fondo in un’attività di profilo marcatamente politico mi abbia spinto a lasciare l’Istituto Magistrale, nell’intenzione di dedicarmi esclusivamente alla traduzione e alla cura di testi che potessero servire in qualche modo alla causa.
È in questo periodo che feci uscire presso Einaudi il Capitalismo militare di Melman, preceduto da una mia lunga introduzione, e presso Feltrinelli (insieme a Sandro Sarti, di me più esperto nella conoscenza dell’inglese, e particolarmente benemerito in questo campo) il libro di Mark Lane Una generazione nel Vietnam, che conteneva le testimonianze di reduci e di disertori americani sulle torture e sui crimini di guerra. Ma ben presto dovetti rendermi conto che un’attività di collaboratore editoriale univocamente diretta al conseguimento di determinati risultati, e cioè a finalità di ordine politico, non sarebbe stata in grado di procurarmi un reddito sufficiente e dovetti cercare nuovamente rifugio nella scuola.
Per due anni (1972-1974) ho insegnato, con orario ridotto, in una scuola media serale a Mirafiori Sud. Dal punto di vista pedagogico, e anche dal punto di vista umano, è stata forse l’esperienza più interessante e più convincente di tutta la mia vita lavorativa. Per la prima volta avevo l’impressione di essere veramente utile, e cioè di poter dare ai miei allievi (che avevano, in generale, l’età degli studenti liceali, e spesso anche qualche anno di più) qualcosa che, in quelle circostanze, essi avrebbero potuto difficilmente ricevere da altri. Avevo molto tempo a disposizione, ma lo passavo quasi interamente nella preparazione di materiali che potessero aiutarli nell’attività di scrivere, o anche solo in quella di leggere dei testi. Molti di quei materiali, riletti oggi a distanza, mi sembrano quanto di meglio mi sia riuscito di fare nel corso della mia vita. Ma quando mi giunse l’offerta di un posto di ruolo presso il Liceo D’Azeglio, che avrebbe posto termine all’incertezza delle mie condizioni e che avrebbe contribuito ad assicurare un minimo di stabilità all’esistenza della mia famiglia, non fui in grado di dire di no e dovetti chinare la testa, ben sapendo che quella scelta avrebbe comportato un graduale affievolimento e isterilimento del mio impegno politico, dal momento che il Liceo Classico, con le sue 18 ore settimanali, e con la necessità di insegnare, insieme alla filosofia, anche la storia, mi avrebbe costretto a un lavoro estenuante di preparazione e di studio, che avrebbe tarpato le ali anche a qualunque tentativo di innovazione didattica nel quadro delle lezioni. Prima avrei dovuto mettermi in condizione di insegnare, con un minimo di sicurezza, la storia del pensiero e del genere umano (e già la semplice formulazione di questa esigenza contiene in sé, come è fin troppo evidente, l’impossibilità di soddisfarla in un tempo determinato, e quindi la sostanziale assurdità, o, per dir meglio, la “cattiva infinità”, di un proposito di questo genere), e poi si sarebbe potuto parlare di una riforma della scuola e promuovere azioni e iniziative rivolte al perseguimento di questo nobile fine. E così, a 47 anni di età, ho dovuto firmare la mia resa di fronte al destino, dopo avere cercato di procrastinarla oltre i limiti del possibile e forse anche del lecito. Qualcuno ha detto che, nella mia vita, non sono mai stato in grado di tenere il debito conto di quel fattore essenziale che è costituito dal tempo. E temo che, purtroppo, chi si è espresso in questi termini avesse almeno parzialmente ragione.
Al D’Azeglio, dove sono rimasto solo cinque anni, perché, nel 1979, sono stato costretto a trasferirmi ad Aosta per seguire la mia famiglia che, nel frattempo, si era spostata in quella località, ho vissuto ancora una stagione di lotte scolastiche, che hanno avuto luogo soprattutto sul tema della riforma degli organi di gestione della scuola, e cioè della creazione dei cosiddetti organi collegiali, alcuni dei quali già esistenti, e altri, invece, frutto tutt’altro che irrilevante (anche se poi, a poco a poco, svuotato internamente dei suoi contenuti e ridotto a poco più di un guscio vuoto e formale) della rivolta studentesca del decennio precedente. Su questo tema, insieme a Francesco Coppellotti e a un gruppo di altri insegnanti torinesi attivamente impegnati sui problemi della riforma della scuola, abbiamo fatto uscire un opuscolo di una quarantina di pagine in cui la versione che sarebbe poi stata definitiva dei cosiddetti decreti delegati veniva sottoposta a una critica rigorosa dal punto di vista di una democrazia assembleare di base come quella prevista e auspicata dal movimento studentesco. Un altro tema di discussione degli insegnanti del D’Azeglio è stato rappresentato, in quegli anni, da un progetto di sperimentazione generale a livello di istituto alla cui stesura e formulazione ho contribuito attivamente per la mia parte, ma che non è passato, a mio giudizio, per la resistenza conservatrice e corporativa di molti insegnanti (fra cui anche una parte notevole di quelli che si dicevano di sinistra). Dal punto di vista della qualità media degli studenti (e anche del valore degli insegnanti), il D’Azeglio è stato certamente la scuola migliore in cui abbia avuto modo di lavorare. Ma, purtroppo, al mio ritorno da Aosta, tutti i posti di ruolo erano impegnati e ho dovuto trasferirmi altrove.
Non dirò nulla delle scuole dove ho lavorato successivamente (il Liceo Scientifico Bérard di Aosta, il Cattaneo di Torino e infine il Galileo Ferraris nella stessa città), se non che erano tutte licei scientifici, dove, quindi, ho insegnato complessivamente per 18 anni sui 31 della mia carriera scolastica. Nel primo caso, e, per certi aspetti, anche nel secondo, la mia scelta è stata obbligata, ma, a poco a poco, ho finito per convincermi che il Liceo Scientifico fosse la sede migliore in cui operare in vista dell’attuazione di un tentativo di scuola media superiore unitaria, sul modello della scuola media superiore inglese, creata dai laburisti, in cui avrebbero dovuto essere previsti indirizzi diversi, fra i quali, tuttavia, il passaggio avrebbe dovuto essere relativamente facile e non avrebbe dovuto comportare necessariamente la perdita di uno o più anni (come accadeva invece, almeno fino a poco tempo fa, in Italia). Il Liceo Scientifico è il tipo di scuola che si presta maggiormente a fungere da base di un esperimento di questo genere, poiché, a differenza del Classico, di cui conserva diverse caratteristiche, non è sbilanciato eccessivamente verso un determinato gruppo di materie e consente la convivenza, su piede di parità, delle “due culture” di cui ha parlato Charles Snow nel suo noto libretto. Il suo solo (o, per dir meglio, il suo principale) difetto è quello di non fare posto alle scienze sociali (economia, diritto, e forse anche psicologia e sociologia), che dovrebbero costituire l’anello mancante, il vincolo di connessione strutturale fra le materie umanistiche e scientifiche, che, altrimenti, rimangono separate fra loro da un abisso incolmabile. E poiché il Liceo Ferraris, che è, forse, in termini di fama e di risultati, il primo liceo scientifico di Torino, è sito nello stesso palazzo in cui si trova anche l’Istituto Tecnico Commerciale Sommeiller, che occupa più o meno lo stesso posto fra gli istituti della sua categoria, e il passaggio (fisico, beninteso) fra l’uno e l’altro è del tutto agevole e comodo, al punto che può dare luogo, a volte, a episodi di rivalità o addirittura ad incidenti fra gli studenti delle due scuole, mi sembrava che un’idea di questo genere avrebbe potuto e dovuto affacciarsi alla mente degli insegnanti progressisti dell’uno e dell’altro istituto, e più in generale di Torino, ed essere presa in considerazione anche dalle autorità che dovrebbero sovrintendere all’organizzazione generale delle scuole e all’elaborazione di nuovi progetti. Che ciò non sia accaduto, e cioè che non se ne sia nemmeno discusso, dimostra, se ce ne fosse bisogno, che, purtroppo, gli intenti riformatori che dovrebbero essere il naturale prodotto di un pensiero orientato verso la creazione delle condizioni di una democrazia egualitaria e di una cultura veramente universale e omogenea siano del tutto estranei alla grande maggioranza degli insegnanti come degli uomini politici, e non si presentano neppure come ipotesi alla mente degli interessati e degli addetti ai lavori in questo campo. Quando sono arrivato al Galileo Ferraris, c’era una Preside che era certo una degnissima persona, ma da cui non ci si poteva aspettare nessuna collaborazione in questo senso, e quando poi arrivò il Preside attuale, su cui forse avrei potuto anche fare assegnamento, i lavori della Commissione Brocca erano terminati, o si erano già arenati completamente, ed era chiaro che non sarebbe stato più nemmeno possibile anche solo avanzare seriamente una proposta di questo genere. Inoltre, la data del mio distacco dalla scuola si avvicinava ormai a grandi passi, e avrebbe avuto poco senso, per me personalmente, impegnarmi per un’iniziativa di cui non avrei potuto, anche nella migliore delle ipotesi, seguire e assecondare la realizzazione neppure nei suoi stadî iniziali.
Questa era la prospettiva in cui avrei voluto muovermi, se le circostanze non fossero state del tutto avverse, e se non lo fossero diventate sempre di più nel corso degli anni; ma, in mancanza di meglio, e cercando di capire che cosa avrei potuto fare anche da solo, ho accolto con favore, e ho cercato di valorizzare al massimo, le possibilità offerte dal nuovo Concordato stipulato fra Stato e Chiesa sotto il governo di Craxi, e precisamente quella di propormi come insegnante dell’ora alternativa all’insegnamento della religione cattolica per gli studenti che ne avessero fatto spontaneamente richiesta. A mio avviso, l’idea scaturita dal cervello di Craxi, di cui detestavo la politica sotto ogni altro rispetto, non era priva, nella sua estrosità, di una valenza politica potenziale e anche di una carica culturale tutt’altro che ovvia, che sarebbe stato il caso di accogliere e di attualizzare, in linea di principio, nella realtà effettiva della scuola. Un’ora sola alla settimana era poco (anche se nei primi due o tre anni, quando l’interesse degli studenti era al massimo, ho potuto farmene assegnare anche più di una, che avevano luogo, beninteso, in classi diverse, e che prendevano il posto delle ore destinate alle supplenze, quasi sempre vuote e noiose nelle grandi città, mentre le cose possono andare altrimenti in provincia, come ho potuto constatare con mia grande sorpresa ad Aosta), ma era pur sempre meglio che niente, e il rapporto che potevo stabilire con gli studenti in questa attività di tipo seminariale bastava a consolarmi dell’aridità e della pesantezza delle ore che ero costretto a dedicare allo svolgimento dei programmi ministeriali. Il difetto principale della “trovata” di Craxi, che, nelle condizioni date, era destinata a causarne il fallimento, era quello di non avere provveduto a introdurre il minimo incentivo di carattere economico per gli insegnanti che fossero disposti ad assumersi l’onere di tenere un corso apposito, sia pure di un’ora sola, su una tematica spesso del tutto estranea, e sempre comunque trasversale, rispetto ai programmi abituali, che richiedeva, pertanto, una preparazione ad hoc e una certa capacità di invenzione e di costruzione originale di una “traccia”, o di un itinerario didattico, che doveva essere riempito, per lo più, con materiali e notizie tratti da fonti diverse e irreperibili nella maggior parte dei manuali scolastici. Solo chi, come il sottoscritto, fosse motivato da un interesse particolare per le possibilità implicite in un lavoro di questo genere, e potesse quindi mettere nel calcolo dei costi e dei benefici dell’impresa anche i vantaggi indiretti che ne sarebbero potuti derivare per sé stesso e per gli sviluppi futuri della sua attività, nella forma di una maggiore chiarezza di idee su questioni di importanza nodale e decisiva, di progressi sensibili nella comprensione della logica interna e dei requisiti essenziali di una trattazione soddisfacente dell’argomento, a prescindere dalla gratificazione intrinseca che tutte queste illuminazioni e scoperte avrebbero potuto procurare all’insegnante e, almeno in una certa misura, anche agli studenti, che partecipavano attivamente, con la loro attenzione e con le loro domande, alla dinamica produttiva della loro genesi, avrebbe potuto sobbarcarsi a cuor leggero ad uno sforzo che, a tutta prima, avrebbe anche potuto apparire del tutto gratuito e supererogatorio. Ma, una volta che fossero state date queste condizioni, la scelta meritava certamente di essere fatta. Lo svolgimento dell’ora alternativa era quindi per me, quasi sempre, tranne che forse negli ultimi anni, come il socchiudersi di uno spiraglio su quella che avrebbe potuto essere una scuola diversa, caratterizzata da un rapporto del tutto diverso fra insegnanti e studenti, e ricco tesoro di conoscenze inesplorate che, pur essendo potenzialmente presenti nel patrimonio complessivo delle mie letture e delle mie riflessioni (così come il desiderio di partecipare ad esse era potenzialmente presente nell’animo degli studenti), non mi era dato di far venire alla luce, per tutte le ragioni che non è difficile immaginare, nel corso delle ore ordinarie di insegnamento.
Era nel corso dell’ora alternativa che sentivo rivivere in me, in forma continuativa e consistente, quello che si potrebbe chiamare lo spirito del ‘68, e cioè quella possibilità di comunicazione diretta con gli studenti e, in linea potenziale, con “tutti”, che rimaneva come soffocata e repressa nel corso dello svolgimento dei programmi normali e della verifica più o meno meccanica e quantitativa dei risultati conseguiti dagli allievi. Credo che non solo per me, ma anche per loro, questa esperienza costituisse una sorta di liberazione, che ci permetteva di toccare, per così dire, con mano ciò che sarebbe stato possibile fare ed apprendere in una scuola emancipata dall’incantesimo della repressione e del dominio di classe.
Un’altra esperienza di cui vorrei riferire qui, e che è stata anch’essa un hors-d’œuvre isolato nel grigiore delle giornate dedicate alla routine del lavoro scolastico, è stata rappresentata da un’inchiesta fatta in due classi del Liceo Cattaneo (una quarta e una quinta) sulle materie studiate nel Liceo Scientifico, in cui gli studenti venivano invitati a dire quali di esse avrebbero voluto espungere dal curriculum e quali invece mettere al loro posto, quali modifiche avrebbero voluto introdurre nei contenuti dell’una e dell’altra e nei metodi adottati nella loro trattazione, e a formulare, in generale, tutte le idee e le esigenze che potevano avere concepito o provato nel corso dello studio e della riflessione su di esse. L’insegnamento della storia e della filosofia era stato oggetto, com’è ovvio, di un’attenzione e di una cura particolare nella formulazione del questionario, anche perché le domande ad esse relative avevano già costituito un tema frequente di riflessioni e di discussioni nel corso delle lezioni. Le risposte potevano andare da un semplice sì o no a un discorsetto relativamente lungo in cui gli studenti (spesso i migliori e i più provveduti) esprimevano i loro dubbi e le loro incertezze, e cioè, in altri termini, i pro e i contro che si potevano addurre a favore dell’uno o dell’altro corno del dilemma enunciato. Un elenco statistico delle risposte e una sintesi ragionata delle risultanze che scaturivano da ogni gruppo di esse, con una serie di considerazioni introduttive e conclusive da parte di chi aveva programmato e condotto l’inchiesta (a cui aveva partecipato anche una valente collega della mia scuola), sono stati pubblicati come allegato al numero di ottobre del 1985 della rivista “Rossoscuola”, edita a quel tempo a Torino; e devo dire che questa inchiesta è una delle cose che sono più orgoglioso di essere riuscito a impostare e a condurre a termine nel corso della mia abbastanza lunga carriera scolastica, poiché mi sembra che da essa si possa vedere che cosa si dovrebbe far emergere dalle teste degli studenti, da quello che si potrebbe chiamare il cervello collettivo di una classe o di una comunità, che, nel suo insieme, e in tutta la varietà delle sue inclinazioni e delle sue sfumature, mostra di poter essere un giudice e un critico più acuto di qualunque ispettore scolastico o consulente ministeriale (con tutto il rispetto che posso avere per gli uni e per gli altri), se non altro perché gli studenti sono le cavie involontarie che vengono sottoposte quotidianamente a questa prova e avrebbero quindi il diritto di esprimersi e di pronunciarsi su tutti i suoi aspetti e su tutte le sue modalità, di cui hanno una conoscenza e un’esperienza più diretta di chiunque altro, dal momento che soltanto loro sono in grado, almeno in potenza, di produrre una sintesi complessiva dei suoi vari elementi e di stabilire i confronti e le relazioni necessarie, mentre gli insegnanti, nella maggior parte dei casi, almeno nelle scuole medie superiori, che soffrono in modo particolare di questa mancanza di coordinamento e di ricomposizione unitaria del corpo docente, tendono a chiudersi ciascuno nel proprio ruolo e non sono in grado di valutare, e spesso nemmeno di concepire, l’effetto cumulativo delle loro azioni separate e disgiunte.
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