Pubblichiamo l’intervento di Nadia Urbinati al nostro convegno “Le due libertà”, svoltosi a Forlì il 10 e 11 gennaio 2002. Nel numero scorso avevamo pubblicato l’intervento di Pino Ferraris.

1. Il termine ‘liberalsocialismo’ è stato coniato da Guido Calogero e Aldo Capitini nel 1940. L’Italia era appena entrata in guerra. Il fascismo godeva di un largo consenso nazionale e, dopo l’epilogo tragico della Guerra di Spagna, di una forte egemonia in Europa. Pensare in termini di ‘dopo-fascismo’ nel 1940 sembrava quanto meno utopistico. Il Manifesto del liberalsocialismo fu un atto di sfida al realismo e una scommessa nella forza della ragione. E fu una scelta realistica perché lungimirante. Il Manifesto fu l’atto costitutivo di un movimento intellettuale e politico e la piattaforma ideologica del Partito d’Azione, che si costituí nel 1942 e riunì i più prestigiosi intellettuali laici anti-fascisti appartenenti a due generazioni: quella che si era formata nel corso della Prima guerra mondiale e negli anni della crisi dello stato liberale, quando cominciò l’ascesa del fascismo; e quella che si era formata nell’Italia fascista e aveva maturato la propria cultura politica e morale nel corso della lotta clandestina contro il regime fascista all’interno o a fianco del movimento “Giustizia e Libertà”, fondato da Carlo Rosselli a Parigi nel 1930.
Molti degli intellettuali liberalsocialisti furono eletti all’Assemblea Costituente che cominciò i suoi lavori dopo il referendum del 1946 (con il quale gli italiani scelsero di darsi una forma repubblicana di governo), e che completò la stesura della Costituzione della Repubblica Italiana alla fine del 1947. Il Manifesto, dunque, fu più che il programma costitutivo di un partito politico; esso fu anche un documento politico consapevolmente orientato a indicare i principi fondativi di una democrazia costituzionale. In questo senso, la sua ragion d’essere trascendeva effettivamente il fascismo. Come nel caso di “Giustizia e Libertà”, anche nel caso del Partito d’Azione l’opposizione al fascismo era motivata da un intento costruttivo o positivo, non semplicemente di opposizione o negativo. Il loro antifascismo era la conclusione coerente di una concezione della politica che era normativamente democratica, un esempio unico nella storia italiana e, come le sorti del Partito d’Azione hanno dimostrato, minoritario nell’Italia del dopoguerra.
Il liberalsocialismo fu il grande sconfitto nella nuova Italia democratica. Le prime elezioni libere a suffragio universale decretarono la scomparsa del Partito d’Azione i cui aderenti presero strade politiche diverse; alcuni entrando a far parte di altri partiti laici e progressisti, altri proseguendo la loro attività intellettuale come studiosi e accademici. Il paradosso delle idee liberalsocialiste fu di essere anacronistiche tanto rispetto alla cultura nazionale italiana, più disposta a riconoscersi in identità comunitarie e di ‘fede’ (cattoliche o comuniste che fossero) che liberali, quanto rispetto all’ordine internazionale che si impose alla fine del secondo conflitto mondiale. Il fallimento del progetto del Partito d’Azione -ovvero l’alleanza delle forze socialiste e democratiche con quelle liberali- facilitò l’egemonia democristiana e il duopolio della politica nazionale tra Democrazia Cristiana e Partito Comunista; un ordine politico che si dimostrò ben presto funzionale all’egemonia democristiana stessa e alla Guerra Fredda.
La logica manichea dell’ordine internazionale e italiano del dopoguerra ha interrotto la ricerca teorica e politica di una convergenza tra ideali socialisti e ideali liberali e democratici che era iniziata nella seconda metà del diciannnovesimo secolo con la conseguenza di determinare un irrigidimento ideologico che è stato deleterio per entrambe le tradizioni perché ha contribuito a dissociare l’idea di giustizia sociale da quella di libertà individuale, orientando la prima verso lo statalismo e la seconda verso una concezione minima o negativa della libertà. L’incapacità della sinistra italiana del dopo Guerra Fredda di darsi un’identità teorica autonoma dal marxismo e, dall’altro lato, l’identificazione del “vero” liberalismo con lo stato minimo e il libero mercato che la destra è riuscita a sedimentare nella recente cultura politica, sono in qualche modo due conseguenze tra loro speculari della sconfitta della strategia liberalsocialista negli anni della costituzione dell’Italia democratica.
2. Il significato di “terza via” che il socialismo liberale prima (Carlo Rosselli) e il liberalsocialismo poi (il Manifesto) ebbero, risentì sensibilmente della contingenza storica. Terza via rispetto a che cosa? Alla fine del diciannovesimo secolo, quando cominciò la traiettoria del socialismo liberale, la “terza via” fu concepita in relazione al socialismo e al liberalismo ufficiali. Da un lato, lo scopo fu quello di contrastare l’egemonia culturale del marxismo all’interno del movimento socialista e la codificazione dottrinaria e deterministica che il pensiero di Marx acquistò negli anni del positivismo, anche per opera di Friedrich Engels e Karl Kautsky. Dall’altro, si voleva elaborare una visione del socialismo che non fosse alternativa al liberalismo; per far questo, occorreva riportare il liberalismo ai suoi fondamentali valori di garanzia delle libertà individuali contro la visione conservatrice e anti-democratica del liberalismo che si era consolidata nelle seconda metà dell’Ottocento insieme ai governi costituzionali. Come si vedrà, in Italia fu un anarchico (cioè un liberale radicale e un socialista non marxista), Francesco Saverio Merlino, a rappresentare questa prima fase della terza via socialista liberale.
La crisi delle istituzioni liberali nel primo dopoguerra, e soprattutto l’avvento del fascismo e del comunismo sovietico, diedero al socialismo liberale una connotazione più militante e più compiutamente democratica. Ora la “terza via” voleva essere un’alternativa rispetto alle due forme di incorporazione della società civile nello stato ottenuta attraverso l’eliminazione del conflitto e della libertà politica. E’ interessante osservare come per Rosselli l’alternativa allo statalismo non era il liberalismo di mercato (o liberismo) ma il socialismo liberale. Tanto il comunismo quanto il corporativismo fascista erano a suo giudizio due espressioni estreme ma speculari del riduzionismo liberista. I miti pianisti degli anni ’30 -il vero obiettivo polemico di Rosselli- erano l’esito aberrante di una visione anti-politica della società centrata sulla razionalità strumentale dell’homo oeconomicus e sull’utopia tecnocratica della sostituzione della politica (luogo degli interessi e della parzialità) con l’amministrazione. Il governo della modernità, se doveva essere governo libero, non si poteva attuare né espungendo la giustizia (liberismo) né eliminando il conflitto (comunismo e fascismo), ma invece creando le condizioni istituzionali per una loro permanente dialettica. La democrazia costituzionale acquistava così un valore sostanziale, ed era la traduzione coerente degli ideali del socialismo liberale.
L’insistenza sul valore morale congiunto della libertà e della giustizia fu l’aspetto che caratterizzò la generazione liberalsocialista che si formò negli anni del fascismo e che collaborò alla costituzione della democrazia italiana. Laicizzando l’eterno ideale del Vangelo, Guido Calogero aveva cercato di dare al programma di Rosselli un fondamento metapolitico attraverso l’elaborazione di una dottrina etica altruistica nella quale libertà e giustizia erano identificati. La “terza via” era in questo caso rispetto al liberalismo e al comunismo.
Calogero aveva cercato di fare del liberalsocialismo una teoria normativa, di dargli una connotazione non semplicemente politica. “A fondamento del liberalsocialismo sta il concetto della sostanziale unità e identità della ragione ideale, che sorregge e giustifica tanto il socialismo nella sua esigenza di giustizia che il liberalismo nella sua esigenza di libertà”; “asserire che non c’è sostanziale differenza tra questi due valori può anche significarsi dicendo che il concetto di giustizia è in ultima analisi identico al concetto di libertà, ossia che quelle caratteristiche, che sembravano a prima vista differenziarli, si manifestavano insussistenti a una considerazione più accurata”. Alla connotazione conflittualistica del socialismo liberale di Rosselli, segnata senza dubbio dalla lotta al fascismo, faceva così seguito una visione di riconciliazione, una prospettiva che a Calogero doveva apparire più in sintonia con la nuova fase costituente e di fondazione delle regole comuni di convivenza democratica.
E’ estremamente significativo che, come vedremo, la soluzione armonicistica di Calogero si consumò insieme alla fase costituente e al crescente pessimismo sulle reali possibilità di instaurare in Italia una democrazia compiuta e radicale. Il saggio di Norberto Bobbio del 1954 rappresenta in qualche modo un ritorno alle posizioni di Rosselli. Bobbio ribadì, da allora instancabilmente nel corso della sua lunga militanza intellettuale, che il socialismo liberale non ha altro fondamento se non la credenza che la libertà individuale non debba essere dissociata da una sua distribuzione quanto più possibile egualitaria. Ma si tratta di una scelta etico-politica che non nasce spontaneamente dal liberalismo, e che invece deriva da una concezione normativa, ovvero dalla consapevolezza che libertà ed eguaglianza non rinviino a qualità innate o a diritti naturali, ma siano ideali della modernità che acquistano la loro forza morale proprio dalla considerazione realistica che “gli esseri umani non sono di fatto nati liberi e uguali” ma lo possono diventare qualora lottino contro le resistenze politiche, economiche e ideologiche che via via incontrano. In altre parole, il socialismo liberale è e rimane un’idea regolativa, una scelta etica e ideologica che presuppone, e a sua volta genera, conflitto politico e sociale, perché dà della democrazia un significato antagonistico e normativo, come forma della dialettica politica tra interessi e credenze che sono e presumibilmente resteranno contrapposti. I nemici della democrazia non sono svaniti con la sconfitta del fascismo e con l’adozione di una costituzione democratica. Essi si sono trasferiti dal campo della libertà politica (tutelato dalle regole costituzionali) a quello della distribuzione sociale dei beni, ovvero delle opportunità reali che gli individui hanno di essere liberi. Nella società democratica contemporanea, il vero antagonista del socialismo liberale non è il comunismo o il fascismo, ma invece il liberismo, ovvero una visione della libertà come affermazione degli interessi individuali contro la società e gli altri individui, una visione cioè o indifferente o apertamente ostile a questioni di giustizia sociale. In sostanza, per Bobbio, il socialismo liberale è un’interpretazione della libertà dal punto di vista della sua distribuzione ed effettiva espressione. In questo senso, esso è una visione politica che incalza la democrazia a restare fedele alle proprie stesse promesse.

3. L’orientamento ideologico del socialismo liberale e del liberalsocialismo era composito e si ispirava alle tre tradizioni politiche più rappresentative dell’Italia moderna, quella liberale, quella repubblicana e quella socialista, tutte accomunate da una visione laica dello stato e dal riconoscimento della libertà individuale e dell’eguaglianza politica come premesse fondamentali del vivere civile e della giustizia sociale. Il liberalsocialismo fu l’espressione più compiuta della cultura politica democratica che l’Italia produsse nel corso della sua storia nazionale. Fu l’esito di un processo di revisione teorica del pensiero liberale e di quello socialista che cominciò a partire dalla nascita dei governi rappresentativi e in coincidenza con la loro graduale trasformazione democratica.
La storia dell’ideale liberalsocialista è ad un tempo parte della storia della sinistra europea e peculiarmente italiana. I suoi fondamenti teorici sono da cercarsi nella tradizione liberale anglosassone, la più matura e teoricamente sofisticata, e quella che per prima è riuscita a coniugare il principio liberale dell’auto-dipendenza individuale con la ricerca delle condizioni sociali e politiche necessarie per la sua attuazione concreta. In questo senso è ragionevole far iniziare il percorso liberalsocialista con John Stuart Mill, innanzi tutto perché egli ha compreso che l’evoluzione della società civile e delle istituzioni del governo rappresentativo rendevano obsoleto il “vecchio liberalismo” di matrice manchesteriana, e in secondo luogo perché egli ha contribuito a tenere l’idea di libertà in diretta relazione con quella di eguaglianza. Il liberalismo di Mill non era fondato sui diritti naturali -anche se contemplava l’esistenza di diritti morali individuali non negoziabili né per ragioni di utilità sociale e né per ragioni di benessere generale. Il suo era un liberalismo immanentistico che riconosceva la dimensione storica della cultura dei diritti, e del diritto di proprietà in modo particolare. La distribuzione della ricchezza era per Mill l’esito di una lotta sociale cruenta tutt’altro che conclusa, e in questo senso era soggetta alla deliberazione politica e al conflitto degli interessi organizzati. In una prospettiva di graduale estensione della cittadinanza -quale fu la prospettiva adottata da Mill nell’analizzare le trasformazioni della società del suo tempo-, le funzioni del governo si estendevano fino a comprendere questioni di giustizia e di emancipazione dal bisogno, ma anche questioni di libertà da relazioni patriarcali e di dominio. Il diritto al lavoro, la revisione in senso egualitario della famiglia e del matrimonio, la regolamentazione dei rapporti economici fra industriali e lavoratori, e quindi la libertà di organizzazione sindacale e di sciopero, infine la proposta di superare l’ordine economico classista in un’ordine cooperativo, erano gli obiettivi che Mill aveva messo al centro del suo liberalismo. Il suo ideale era quello di creare non una società omogenea e senza conflitto, come per i socialisti marxisti, ma una società nella quale le ragioni dell’antagonismo risiedessero effettivamente nelle differenze e nelle potenzialità individuali: una società che si impegnava a promuovere lo sviluppo delle capacità individuali ed era quindi compiutamente liberale e democratica.
Il primo intellettuale italiano che condivise queste idee fu Francesco Saverio Merlino, il quale le denotò col nome di “socialismo libertario” e le propose in polemica sia con il Partito Socialista che con il movimento anarchico, al quale egli apparteneva. Rispetto ai socialisti, Merlino rivendicò la necessità di emancipare il socialismo dal fatalismo marxista e di recuperare il ruolo educativo ed emancipazionista della partecipazione politica.
Egli dunque comprese la necessità di allargare lo spettro della battaglia politica della sinistra ben oltre i temi sociali.
Contro i socialisti italiani, tradizionalmente restii a includere nel loro programma la battaglia per il suffragio universale maschile e femminile perché pessimisti sulla maturità politica delle masse popolari; e contro gli anarchici, la cui tradizionale ostilità nei confronti dello stato e delle istituzioni politiche impediva loro di comprendere l’importanza della lotta parlamentare e del riformismo, Merlino recuperò il valore dell’organizzazione politica come forma di autodeterminazione finalizzata alla conquista di una più ampia libertà e di una più sostanziale eguaglianza. Egli contestò il dualismo, caro agli anarchici, fra democrazia diretta e democrazia indiretta e accettò la rappresentanza democratica, interpretandola come “avvocatura” per promuovere ed estendere i diritti, e come veicolo di selezione delle élite e di controllo del potere della maggioranza. Infine, partendo da un’interpretazione del socialismo non come scienza ma come scelta morale, egli sviluppò una teoria della giustizia fondata sul principio liberale del valore primario dell’individuo e propose una politica di redistribuzione della ricchezza e lo sviluppo di un’economia cooperativa. In questo contesto, il socialismo veniva ad avere una funzione nuova rispetto a quella che tradizionalmente aveva all’interno della visione marxista: esso era un’ideologia, una convinzione morale giustificata dai valori stessi della modernità, quelli che tanto il cristianesimo quanto il liberalismo avevano contribuito a rendere cultura diffusa, ovvero l’eguaglianza e la libertà. Il socialismo di Merlino, come osservò Emile Durkheim nella recensione all’edizione francese di Formes et essence du socialisme, non era il socialismo dei socialisti (quello dottrinario o artificiale), ma era il socialismo oggettivo o delle cose, espressione di quella “spinta confusa e semi-cosciente” che muoveva la società moderna verso una più compiuta conformità ai suoi principi ispiratori. In sostanza, come per Rosselli, per Merlino il socialismo era liberalismo realizzato rispetto al quale il marxismo era una possibile e transitoria espressione.
La critica di Merlino della concezione deterministica del marxismo (quella che aveva conquistato credibilità negli anni del positivismo) metteva in luce un problema che fu cruciale per gli sviluppi del socialismo liberale: i rapporti tra socialismo e marxismo. Marx non fu estraneo alla formazione intellettuale dei socialisti liberali italiani. Ma si trattava di un Marx eterodosso e diviso in due -da un lato il leader dell’Internazionale che aveva colto la centralità del movimento politico e della battaglia politica; dall’altro lo scienziato sociale che aveva cercato le ragioni del socialismo nella necessità storica e nella dialettica oggettiva della struttura economica. Un Marx del conflitto politico e della centralità della volontà nella determinazione del corso storico; e un Marx del superamento del conflitto e della certezza teleologica che la storia potesse fare quello che la volontà non sembrava avere da sola la forza di fare. La dicotomia venne efficacemente illustrata da Rosselli in Socialismo liberale: il marxismo ereditato dai socialisti della Seconda Internazionale, scriveva, aveva cercato di identificare la giustizia con la scienza; il suo era il linguaggio della profezia e dell’apostolato. Nella fase costitutiva del movimento, la fede nella certezza che la società futura non fosse solo un desideratum era necessaria. Ma, una volta che il socialismo diventò un movimento organizzato e intraprese la strada della dialettica politica e del riformismo, il determinismo marxista si scontrò immediatamente con le regole dell’agire politico. Il socialismo dovette cercare di conciliare il suo ideale con la pratica della competizione politica, ovvero con gli stessi principi liberali.
La complessità della relazione tra teoria e pratica esaltava l’inadeguatezza dell’impostazione marxista, radicale nella certezza del fine ultimo e contemporaneamente pronta a trasgredire la coerenza ai principi per ragioni di tattica politica. Come il Partito Socialista aveva mostrato nel corso della sua storia parlamentare, alle proclamazioni apocalittiche sulla fine del capitalismo seguivano immancabilmente le trattative con il governo per ottenere riforme legislative. Questo dualismo si rivelò deleterio perché ostacolò lo sviluppo di un’etica della politica riformista e contribuì a percepire il riformismo come una concessione tattica (necessaria, ma negativa) e una pratica del compromesso esposta ad un uso strumentale della politica e, soprattutto, degli stessi ideali socialisti.
Chiedendo agli amici socialisti di andare oltre Marx e di essere socialisti senza essere marxisti, Rosselli poneva un problema di estrema importanza per la sinistra moderna: abbandonare una visione teleologica della storia era vitale per la stessa moralità della lotta politica, perché consentiva di spostare l’attenzione dall’oziosa discussione sulle tendenze fatali del capitalismo alla riflessione sui principi che dovevano orientare l’azione politica. Rosselli sollevò cioè il problema di delineare un’etica del riformismo, di stabilire una relazione tra teoria e pratica socialista consona a una società che aveva rinunciato alla rivoluzione violenta senza tuttavia aver rinunciato al perseguimento della giustizia sociale. Di fatto, l’opzione del socialismo liberale era per lui, giustamente, un’opzione di democrazia perché nel socialismo liberale il metodo politico non era né dissociato, né in contraddizione con il fine della lotta politica: all’estensione della libertà si può giungere solo attraverso e con il metodo della libertà.
La pratica liberale del conflitto e della competizione politica, concludeva Rosselli, ha obbligato il socialismo a ripensare i propri fondamenti in chiave squisitamente etica, non più scientifica. Recuperare al di sotto della costruzione marxista i principi ispiratori del marxismo significava portare il socialismo oltre le discussioni sulla ‘corretta’ interpretazione del pensiero di Marx che avevano affaticato e consumato il revisionismo della Seconda Internazionale. Significava, appunto, andare oltre Marx, come aveva scritto Henry de Man; essere socialisti senza essere marxisti; aderire al movimento in nome dei valori che esso esprimeva anziché in nome di una dottrina, e quindi liberare la partecipazione e l’azione politica da ogni autorità esterna e superiore alla scelta ragionata e consapevole di chi aderiva alle idee socialiste. Il motto di Eduard Bernstein, “il movimento è tutto, il fine è niente” fu tradotto da Rosselli in chiave di autonomia politica del partito e dei suoi aderenti: la storia del socialismo diventava un capitolo della storia del processo di emancipazione iniziato con la Riforma protestante. In questo senso, egli scriveva con molto acume che la storia del socialismo, esattamente come la storia della società occidentale, andava gradualmente nella direzione del liberalismo. Il socialismo non era un liberalismo rovesciato, dunque, ma ne era il suo sviluppo.
A situare il socialismo all’interno della tradizione liberale e democratica era stato un filosofo, Rodolfo Mondolfo, in uno scritto del 1906 dal titolo significativo Dalla Dichiarazione dei diritti al Manifesto dei comunisti. Mondolfo aveva teorizzato la continuità, non soltanto del socialismo, ma anche del marxismo rispetto all’ideale liberale dell’autonomia individuale rivendicato dalla Riforma e poi dalla Rivoluzione francese. La “filosofia della prassi” marxista era “erede della filosofia classica della libertà, portata da essa alle più decisive conclusioni”. La Rivoluzione francese aveva infatti superato la visione ‘conservativa’ dello stato e della politica che era propria del liberalismo dei diritti naturali e aveva attribuito ai diritti un carattere rivendicativo: i diritti erano attuabili attraverso la cittadinanza. La Rivoluzione francese cioè, aveva assegnato all’azione degli individui associati nelle istituzioni politiche e nei movimenti un potere diretto nella determinazione delle sorti della società, e in questo modo esaltato la funzione emancipatrice della libertà politica e messo in circolazione una visione del liberalismo secondo la quale i diritti di libertà non erano pre-politici, ma erano poteri esercitati attraverso le istituzioni dello stato democratico. La filosofia di Marx non era che un’espressione radicale della filosofia dell’autonomia individuale in quanto estendeva alla sfera sociale la critica della dipendenza e del monopolio del potere che il liberalismo aveva tenuto confinata nella sfera legal-istituzionale ed economica.
Proseguendo in questa direzione storicista, Guido De Ruggiero avrebbe inserito il socialismo nella Storia del liberalismo europeo per farne un’espressione contemporanea, peculiare alla società industriale, della traiettoria politica iniziata con la Rivoluzione inglese e la Riforma Protestante.
Il Marx dei socialisti liberali italiani era dunque un Marx azionista e volontarista, molto più in sintonia con la tradizione di Machiavelli che con il quietismo evoluzionistico di Herbert Spencer che aveva contrassegnato il pensiero socialista nell’età del positivismo. Un Marx eterodosso e politico, esito di due eventi importanti: da un lato il processo di revisione dottrinaria del marxismo iniziato da Eduard Bernstein e Georges Sorel e proseguito in Italia dallo stesso Mondolfo e da Benedetto Croce; dall’altro la Rivoluzione d’Ottobre. Il revisionismo contribuì a corrodere alle radici la struttura deterministica del socialismo marxista ottocentesco portando in primo piano la tensione fra ideali e fine, e quindi esaltando la funzione dell’ideologia e della dimensione psicologica e morale contro quella della struttura economica e dei meccanismi impersonali della dinamica sociale. Infine, la Rivoluzione d’Ottobre, a prescindere dagli esiti autocratici che conosciamo, aveva prepotentemente messo fine alla revisione del marxismo mostrando con la forza di un evento straordinario il ruolo della volontà politica e dell’ “eccezionale” nella storia, e soprattutto la funzione creatrice delle ideologie e dell’organizzazione politica. Benché critici del socialismo sovietico, e più in generale dello statalismo, socialisti liberali e liberalsocialisti non furono indifferenti all’impresa di Lenin e apprezzarono il ruolo democratico che i soviet ebbero nella prima fase della rivoluzione. Non meno che per Antonio Gramsci, il quale salutò quella di Lenin come una rivoluzione Contro il Capitale, la rivoluzione del 1917 fu importante anche per i liberali. In ogni caso essa condizionò la generazione di pensatori e leader politici italiani che si erano formati nel corso della Prima guerra mondiale, tutti indistintamente accomunati da una radicale opposizione alla filosofia positivista per la preminenza da essa assegnata ai processi sociali o ‘oggettivi’ ed esterni rispetto a quelli morali o ‘soggettivi’ e interni.

4. Il liberalismo italiano era stato il protagonista dell’unità nazionale (avvenuta nel 1861) e l’artefice del governo costituzionale. Nel corso del secondo Ottocento, esso si era progressivamente identificato con l’oligarchia economico-militare e aveva perseguito una politica internazionale colonialista e una politica nazionale autoritaria. Costretto a concedere il suffragio universale maschile nel 1911, quasi a risarcimento della partecipazione dei coscritti alle guerre coloniali e come deterrenza nei confronti del crescente consenso politico del Partito Socialista e del movimento sindacale, lo stato monarchico-liberale si era dimostrato assolutamente inadeguato a governare la transizione verso la democrazia, ed era rimasto tenacemente ancorato a una pratica di doppiezza: blande concessioni riformistiche ai socialisti per garantirne il sostegno ai governi liberali, ed esplicite politiche economiche protezionistiche per difendere gli interessi del blocco agrario-industriale che direttamente rappresentava. La Prima guerra mondiale, con le enormi difficoltà economiche e sociali che l’accompagnarono, segnò la fine del liberalismo ottocentesco, un liberalismo anti-egualitario e anti-democratico, incapace di comprendere il fenomeno emergente del populismo fascista e di difendere il costituzionalismo.
Il socialismo liberale italiano non può essere adeguatamente compreso se non si tiene presente la revisione in senso attivista e idealista del liberalismo italiano. Una revisione che passò, da un lato, attraverso il recupero della libertà economica contro il protezionismo (una posizione questa che nei primi anni del secolo ebbe l’appoggio anche di intellettuali anarchici e comunisti, come per esempio Merlino e Gramsci) e, dall’altro, attraverso la rivalutazione della funzione emancipatrice del conflitto politico e la riscoperta della dimensione etica dei valori liberali dell’autonomia e della responsabilità individuale (fu in questa cornice che il liberalismo di mercato trovò la propria giustificazione etica). Piero Gobetti e Benedetto Croce contribuirono, seppure in modi diversi, al rinnovamento del liberalismo italiano preparandolo, se così si può dire, alla ‘contaminazione’ col socialismo.
Piero Gobetti fu uno dei più brillanti e originali intellettuali italiani del Primo dopoguerra. Morto alla sola età di venticinque anni (nel 1926) a Parigi, dove era esiliato per sfuggire alle persecuzioni e alle violenze fasciste, nella sua breve vita egli diede un contributo determinante al movimento culturale di revisione idealistica del liberalismo attraverso la fondazione di riviste (la più importante fu Rivoluzione Liberale), di una casa editrice, la battaglia politica e la ricerca di alleanze con le componenti più eterodosse della politica italiana, come il Partito Comunista di Gramsci. Convinto assertore delle origini protestanti del liberalismo, Gobetti spiegò la debolezza dello stato e del liberalismo italiani con il fallimento della Riforma religiosa e si impegnò in un’opera di ricostruzione storica della tradizione politica nazionale incentrata su quegli autori e quelle idee che più direttamente avevano anticipato o espresso i principi della modernità liberale.
Machiavelli tornò ad essere centrale, non però come teorico della ragion di stato, ma come anticipatore della “Riforma politica” italiana, ovvero dell’unico esempio di Protestantesimo che secondo Gobetti l’Italia fu in grado di esprimere, quello dell’autonomia della politica e della concezione della libertà come autogoverno nelle sfere laiche della vita: quella economica (Machiavelli esaltò l’imprenditoria cittadina contro il parassitismo della rendita fondiaria e delle classi feudali), quella politica (Machiavelli esaltò la partecipazione attiva alla vita della città come condizione di libertà), e quella morale (Machiavelli contrappose alla morale cattolica, essenzialmente privata, eteronoma e passiva, un’etica dell’autonomia e della responsabilità). Attraverso Machiavelli e la cultura laica e illuminista italiana, minoritaria rispetto a quella cattolica, Gobetti recuperò in sostanza la funzione etica della politica e diede del liberalismo un’interpretazione profondamente attivista e emancipazionista: il liberalismo non era soltanto teoria del governo limitato e costituzionale, ma era anche teoria dell’azione responsabile e della realizzazione individuale, nella vita sociale così come in quella politica. Era una filosofia della vita e una cultura morale, non solo una teoria politica.
Benché non fosse un liberalsocialista, nel 1924, nella rivista Rivoluzione Liberale Gobetti ospitò il primo degli articoli che Rosselli dedicò al socialismo liberale (Liberalismo socialista) e condivise con Rosselli tanto l’esigenza di emancipare il socialismo dall’ipoteca del determinismo marxista, quanto la proposta di legare la libertà all’eguaglianza e, soprattutto, di assegnare alla libertà una dimensione attiva con lo scopo di rimuovere gli ostacoli sociali e culturali alla realizzazione dell’individualità. Comuni a Gobetti e Rosselli, come ai liberalsocialisti della generazione successiva, furono la denuncia dello stato burocratico e la proposta di larghe autonomie locali (Altiero Spinelli, uno dei padri fondatori dell’unità europea, fu un liberalsocialista) e conseguentemente una critica radicale dello statalismo -una critica che, si rafforzò nel corso degli anni ’30, in coincidenza con la vittoria del fascismo e la trasformazione corporativa dello stato italiano intrapresa dal regime di Mussolini.
Un contributo non meno importante alla revisione del liberalismo venne da Benedetto Croce. Croce non fu un liberale radicale come Gobetti, né come Gobetti identificò la dimensione etica del liberalismo con i valori espressi dalla Riforma Protestante, anche se riconobbe la funzione egualitaria e individualista della tradizione puritana. Critico nei confronti della teoria dei diritti naturali e del razionalismo illuminista, Croce collocò il liberalismo all’interno della filosofia storicista e ne fece una dottrina della libertà immanente al processo della modernità. La realizzazione della libertà era progressiva e passava attraverso le forme della vita associata, da quella economica (economia di mercato) a quella politica (governo costituzionale rappresentativo), ma si esprimeva compiutamente nella sfera etica come autonomia individuale e ricerca della verità. L’ispirazione aristotelica ed hegeliana della filosofia crociana si espresse in un liberalismo non democratico al cui fondamento era una visione gerarchica e ascendente dei valori e delle sfere di vita, dove l’utile era strumentale al giusto, e il giusto al buono e al vero. In questa cornice si spiega la polemica che nel 1928 Croce ingaggiò con il maggior teorico italiano del liberalismo di mercato (al quale Croce diede il nome di liberismo), e futuro presidente della Repubblica, Luigi Einaudi.
Nella risposta a Einaudi, Croce metteva a segno due operazioni importanti. Da un lato, precisava la non identificabilità di liberalismo e liberismo, e dall’altro, fissava i confini del liberalismo nei confronti del socialismo. Identificando la sfera economica con la sfera dell’utile e subordinandola a quella del giusto e del bene, Croce giustificava di fatto l’ingerenza della sfera politica in quella sociale ed economica in nome di ragioni etiche superiori all’interesse individuale. Dava cioè del liberalismo una lettura perfezionista che, teoricamente, non escludeva politiche di giustizia sociale, anche se per Croce l’intervento della politica doveva essere finalizzato a rafforzare lo stato, non a promuovere valori che egli riteneva esterni alla libertà, come per esempio l’eguaglianza o la giustizia. Comunque sia, la sua interpretazione etica del liberalismo diede ai liberali e ai socialisti liberali un buon argomento teorico contro il liberalismo del mercato.
D’altro canto, però, Croce faceva col socialismo ciò che Isaiah Berlin fece decenni più tardi con le teorie socialdemocratiche: stabilì una differenza netta tra libertà e ciò che libertà non è, come l’eguaglianza e l’auto-governo democratico, e confinò la “vera” libertà all’interno della teoria della responsabilità e dell’autonomia morale della scelta individuale. Pur condividendo la teoria kantiana dell’autonomia individuale, e quindi andando ben al di là della libertà negativa codificata da Berlin, Croce esorcizzò sul nascere, e con gli strumenti teorici dello storicismo, i tentativi già allora in corso di dare del liberalismo un significato allargato e sociale con lo scopo di farne un potenziale alleato del socialismo. Nell’articolo su Liberismo e liberalismo, egli fece non a caso riferimento a On Liberalism di L.T. Hobhouse, pubblicato nel 1911, come a un “paradosso” proprio perché includeva nel liberalismo obiettivi (per esempio il diritto al lavoro) che invece avevano soltanto una funzione strumentale rispetto alla manifestazione della libertà e che non potevano coerentemente dirsi liberali.
Quando uscì Socialismo liberale di Rosselli, Croce perfezionò e radicalizzò questa critica. Pur nutrendo una sincera ammirazione per la coerenza morale e l’antifascismo di Rosselli, Croce accusò la sua proposta politica di ibridismo, e obiettò che Rosselli era caduto nell’ “errore logico di giustapporre” il liberalismo con il socialismo, coniando una “formula sintetica” che era un ossimoro. Il socialismo liberale era per Croce come un “ircocervo”, un animale mitologico metà caprone e metà cervo, frutto di una “giustapposizione” immaginifica del corpo goffo del socialismo sulle gambe agili del liberalismo.
Croce ebbe il merito di mettere in luce con chiarezza teorica che la questione di una relazione possibile fra liberalismo e socialismo era in effetti una questione di interpretazione della libertà. E fu non a caso nel contesto della nozione di libertà che Norberto Bobbio impostò il suo dialogo con i comunisti italiani nel saggio Della libertà dei moderni comparata a quella dei posteri del 1954 e completò la riflessione sui principi del liberalsocialismo. Infatti, benché i liberalsocialisti del dopoguerra avessero cercato, come nel menzionato caso di Calogero, di teorizzare l’identità di libertà e giustizia, la tensione tra le due categorie non era per Bobbio superabile, né era un male che non lo fosse.
E’ certo probabile che dietro il bisogno di sintesi teorica di Calogero vi fosse l’esigenza politica di assecondare la pacificazione della società italiana, di stabilire principi comuni e risolvere il problema italiano di accomodare le istituzioni ad una cultura politica fondata sul consenso unanime a principi di convivenza civile democratica. Tuttavia, conquistata la libertà e scritta la costituzione, l’antagonismo politico tornava ad accendersi, benché faticosamente tenuto dentro i limiti delle regole costituzionali. In ogni caso, era evidente che il perseguimento della giustizia sociale non poteva avvenire senza limitare la libertà individuale.
Bobbio ripropose in forma assai esplicita questa impossibilità di sintesi. Ed è proprio questo aspetto consapevolmente pragmatico del socialismo liberale che merita di essere sottolineato, il senso cioè che la tensione tra i due valori -che è concretamente una tensione tra interessi sociali diversi e anche contrapposti- non sia un elemento negativo. Bobbio ripropose negli anni ‘50 quello che liberali come Gobetti e socialisti liberali come Rosselli avevano anticipato nel corso e durante la lotta contro il fascismo, ovvero l’aspetto positivo del dissenso e dell’antagonismo politico, riflesso del dissenso e dell’antagonismo che i valori liberali e quelli socialisti generavano.
Quando Bobbio scriveva, nel 1954, aveva come interlocutori gli intellettuali comunisti, i quali proponevano di invertire la priorità dell’eguaglianza rispetto alla libertà e opponevano alla nozione liberale di libertà quella roussoviana. Benché secondo una strategia marcamente diversa da quella armonicista di Calogero, anche per i comunisti la tensione tra libertà e giustizia (o eguaglianza) era un segno di imperfezione, apparteneva a una democrazia non realizzata.
Nella sua risposta ai comunisti, Bobbio esplicitava indirettamente quelle che furono le due anime del liberalsocialismo italiano: l’una, quella che faceva capo a Rosselli, mai interessata a stipulare una sintesi teorica tra liberalismo e socialismo; l’altra, legata essenzialmente al nome di Calogero, orientata a superare le ragioni del dissenso teorico tra liberalismo e socialismo (come la stessa formula ‘liberalsocialismo’ lascia intendere). I diritti di libertà -“la libertà da”- e i diritti sociali -“la libertà di”- restavano per Bobbio diversi e non sintetizzabili. Tuttavia, contrariamente a quanto fece Berlin quattro anni dopo, Bobbio chiarì anche che opporre l’una libertà all’altra aveva poco senso perché l’azione umana, per esprimersi, aveva bisogno di entrambe. La relazione di limitazione reciproca delle due libertà era però di tipo pragmatico, perché teoricamente la libertà individuale non poteva essere identificata con le sue condizioni di esistenza. Tuttavia, contrariamente alle ragioni della teoria, la politica si nutre di scelte ideali, quindi di pluralismo delle opinioni, dei valori e di conflitto.
La sinistra, ha scritto Bobbio nel 1994, in Destra e Sinistra, è denotata da una scelta ideologica a favore dell’eguaglianza; il liberalismo da una scelta a favore della libertà individuale. In entrambi i casi, la scelta non può essere neutralizzata con la ricerca di identità teoriche, le quali sono oltretutto contraddittorie e praticamente irrealizzabili.
La scelta di chi si dichiara di sinistra non può che propendere per una interpretazione della libertà all’interno di una prospettiva egualitaria o delle concrete opportunità (Amartya Sen direbbe capability) che le persone hanno di essere libere. Chi si preoccupa non semplicemente della libertà individuale, ma anche di quanti possano effettivamente godere di essa e di come ne godono, non è semplicemente liberale, ma socialista liberale.