Nella loro indignazione morale per l’occupazione israeliana della Cisgiordania e di Gaza e per il trattamento dei palestinesi, sembra che Forti e soci non abbiano assolutamente colto la tesi centrale dell’intervista da me rilasciata a Una Città. (Sembra inoltre che siano dell’idea che l’ignoranza tanto dei principi dell’analisi economica, che dei dati dell’economia palestinese, in particolare quella della Striscia di Gaza, possa essere compensata da una sfilza di invettive, insinuazioni e allusioni). La domanda cui l’intervista, da me rilasciata quasi un anno prima della sua pubblicazione, ha tentato di dare risposta, riguardava le prospettive economiche di Gaza dopo la prevista evacuazione d’Israele, annunciata poco prima. Il modo migliore di affrontare il problema era quello di valutare i mutamenti dell’economia palestinese tra il periodo precedente al 1967, quando non vi erano scambi con Israele (così come non vi era legame diretto tra Gaza e la Cisgiordania) e i successivi primi venti o venticinque anni della sua forzata integrazione con l’economia israeliana; e poi di nuovo tra quest’ultimo periodo e gli anni a partire dal 1993 o 1994, e in particolar modo gli anni che vanno dallo scoppio della seconda Intifada in poi, quando l’integrazione delle due economie ha cominciato a logorarsi. I miei critici trovano difficile ingoiare (o anche poco politico ammettere) che nel primo periodo considerato l’occupazione israeliana ha prodotto una crescita economica molto rapida con un aumento, in termini reali, del reddito pro capite dei palestinesi doppio rispetto a quello registrato in Israele tra il 1968 e il 1993. Ciò è stato determinato dal fatto che l’occupazione ha anche al tempo stesso creato un mercato enorme, per gli standard locali, sia per la forza lavoro che per i prodotti palestinesi. E tutto ciò è avvenuto nonostante alcune restrizioni imposte da Israele, tese a proteggere interessi costituiti come quelli che facevano capo alla lobby dei coltivatori israeliani, in assenza delle quali la crescita sarebbe stata anche più rapida.

Nonostante il sarcasmo dei miei critici, questo è esattamente quanto previsto dalla teoria economica e verificato sul campo. Sottolinearlo non significa giustificare l’occupazione. Viceversa, negarlo o ignorarlo significa rinunciare a tentar di capire quali problemi dovrà affrontare l’economia palestinese e in particolare l’economia di Gaza. Il tentativo di Forti e soci di confutare la mia tesi rivela solo scarsa conoscenza dei fatti, se non un intento di deliberato travisamento degli stessi. Infatti, essi fanno decorrere dal periodo precedente al 1993 le misure repressive d’Israele che, al contrario, hanno cominciato ad essere applicate, con crescente rigidità e risultati devastanti, da quella data in poi. Fino ad allora, e sicuramente fino al 1987, la circolazione di persone, mezzi e merci tra Israele e i territori palestinesi occupati era, di fatto, del tutto libera e priva di controlli. All’epoca, i posti di blocco, le chiusure, per non parlare delle draconiane misure preventive e punitive elencate nel loro intervento, e che Israele ha adottato nei confronti dei palestinesi negli ultimi cinque anni, erano solo futuribili. Il 46% della forza lavoro di Gaza, impiegata in quegli anni in Israele, non poteva essere stata sottoposta alla “quotidiana umiliazione dei posti di blocco”, come loro affermano, perché di fatto allora i posti di blocco non esistevano; né i palestinesi erano in alcun modo impiegati in “condizione di semi-schiavitù”, una descrizione che meglio si addice alle condizioni dei lavoratori tailandesi, cinesi e di altre nazionalità che li hanno sostituiti (che è uno dei motivi per cui agricoltori e impresari edili israeliani li preferiscono ai palestinesi).

Gli autori sembrano inoltre ignorare il fatto che i palestinesi potevano esportare, e infatti esportavano, le loro merci in Giordania e, attraverso questa, fino alla regione del Golfo, molto prima che venisse firmato il trattato di pace tra Israele e la Giordania. Il volume di questi scambi era limitato solo dal desiderio da parte della Giordania di evitare la concorrenza nei confronti dei suoi stessi produttori (il che al tempo stesso costituiva anche la ragione per cui Israele li incoraggiava). Fin dal 1980 potevano anche commerciare direttamente con l’Egitto. Il fatto che gli autori non abbiano dimestichezza con l’economia di Gaza è ulteriormente dimostrato dal sarcasmo contenuto nella l ...[continua]

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