Nelle Eumenidi di Eschilo si racconta di Oreste che, avendo ucciso per vendicare il padre la madre Clitemnestra, è sottoposto ad Atene a giudizio. A sua difesa scende in campo Apollo, divinità solare e maschile, contro di lui infuriano invece le Erinni, rappresentanti del più antico diritto materno violato dal gesto omicida di Oreste. Esse conoscono come sacra, vale a dire intoccabile senza contaminazione, solo la madre e chiedono la punizione esemplare del figlio impuro. Come è noto, non la spunteranno. Con loro grande disappunto, Pallade Atena voterà a favore di Oreste, tradendo il proprio divino sesso. Non pochi commentatori hanno letto in questa tragedia giudiziaria la drammatizzazione di un passaggio cruciale nella storia dell’umanità: la fine del matriarcato comunitario (e comunista) e la nascita del nuovo ordine “apollineo” caratterizzato dal primato incondizionato del padre, dalla proprietà privata, dal primato della razionalità discorsiva sulla poesia originaria ecc. Ma non è questo il punto. Sono piuttosto le argomentazioni con cui il dio si rivolge ai giudici per persuaderli della innocenza (nel senso religioso della non impurità) di Oreste a riguardarci direttamente. Si tenga presente che esse suonavano per quell’immaginario tribunale ateniese come qualcosa di nient’affatto ovvio, come qualcosa di fino allora “inaudito”: “Non è la madre che genera chi è chiamato suo figlio,/ ma solo nutrice del seme gettato in lei./ Genera l’uomo che la feconda, ella, come ospite a ospite,/ conserva il germoglio, se un dio non lo soffoca prima”. La madre insomma ospita, è terra che deve essere arata e fecondata dal seme paterno. La vita non le appartiene direttamente ed esclusivamente. Al limite, continuava infatti Apollo, con un’osservazione che, in tempi di ingegneria genetica, molto dovrebbe farci riflettere, la sua funzione è inessenziale: non vi sono forse dei che nascono senza concorso materno? L’inizio sta nel seme del padre, oggi diremmo, salmodiando insieme ai difensori della “vita”, “fin dal momento del primo concepimento...”. La vita appartiene al Padre non alla donna, questo è dunque il nuovo diritto paterno inauguratosi ad Atene in quel fatidico giorno con grande delusione delle Erinni, ben espressa dal semicoro che, dopo la sentenza, canta sconsolato: “Ohi, nuovi dèi/ voi calpestate le antiche norme”. Il punto di vista “tradizionale” delle Erinni era naturalmente opposto: la vita appartiene alla madre, alla Terra. La funzione del seme maschile è del tutto occasionale. L’importanza che nella concezione patriarcale si riconoscerà all’attimo del concepimento era qui del tutto sconosciuta. La prima origine di un essere coincideva con l’attimo del compimento perfetto nel parto, con l’esposizione al mondo, la quale è tragicamente pensata come immissione nel circolo della distruzione inevitabile. Grazie a questa antica storia qualche nube ideologica comincia allora lentamente a dissiparsi, qualche assoluto si relativizza, qualche presunta ovvietà diviene problematica. L’argomento degli avversari del diritto all’aborto è apparentemente irresistibile. Esso infatti suona: chi può decidere sulla vita a venire? Nessuno, dunque l’aborto è un attentato all’ordine naturale. La vicenda eschilea è allora esemplare. Non c’è qualcosa come la “vita” che deve essere salvaguardata “sempre e comunque”, non c’è se non nella mente di qualche grande semplificatore un si o un no alla vita come tale. C’è piuttosto un problema, per così dire, “politico”, una decisione da prendere che riguarda i rapporti di forza tra i sessi e due opposte concezioni della comunità e del sacro. Stabilire quando inizia la vita non è una constatazione neutra, magari da affidare allo sguardo puro della scienza. Questa infatti, se è in buona fede, non potrà che constatare, tautologicamente, che la vita è sempre già iniziata. Stabilire quando inizia la vita vuol dire in realtà decidere a chi essa, in ultima analisi, appartiene, chi deve tragicamente farsi carico di essa, espiando con il proprio dolore, la propria angoscia, la propria radicale solitudine, questa proprietà essenziale, questa responsabilità inevadibile. Dire poi che essa non appartiene a “nessuno”, perché appartiene a ...[continua]
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