Le bandiere issate ai margini della pista dell’aeroporto di Pristina catturano l’occhio dei viaggiatori che dalla scaletta si incamminano verso il nuovo edificio dove vengono smistati i bagagli. La posizione dei pennoni non è casuale. Il numero degli stendardi aumenta ad ogni mia venuta e sono il segno tangibile che il Kosovo sta gradualmente conquistandosi un posto nella comunità internazionale. Sono adesso sessantadue le bandiere degli stati che sventolano al sole di un ottobre insolitamente caldo. Servono a dare visibilità ad un’indipendenza più di forma che di fatto. La polizia di frontiera mi regala anche, per la prima volta da quando arrivo nel capoluogo kosovaro, un timbro sul passaporto che se da una parte contribuisce ad arricchire la collezione sulle pagine del mio documento di identità dall’altra è destinato a darmi grattacapi quando dovrò recarmi a Belgrado. Dalle divise inappuntabili ai sorrisi accoglienti tutto appare in ordine. Le fumose sale d’aspetto balcaniche crepitanti di urla strozzate e brulicanti di ghigni poco raccomandabili sono oramai un ricordo sepolto in qualche piega della memoria.
Nuovo parlamento, vecchie abitudini. Ad ogni inizio di legislatura i coordinatori dei gruppi politici in Commissione Affari Esteri si incontrano per decidere la ripartizione delle relazioni parlamentari. L’ordine di scelta è determinato dalla dimensione del gruppo. Per quanto concerne i paesi in via di adesione, le prime ad essere attribuite sono quelle che riguardano i paesi più grandi che garantiscono agli eurodeputati attenzione e visibilità come Croazia, Serbia e Turchia. Ai gruppi di seconda fascia, quindi, spettano i paesi più piccoli o quelli più complicati e difficili da decifrare. E’ il caso del Kosovo attribuito anche questa volta al gruppo verde, in particolare all’eurodeputata austriaca Ulrike Lunacek. Eppure per il cittadino europeo il Kosovo dovrebbe rivestire un interesse notevole, di gran lunga superiore, proporzionalmente, agli altri paesi della regione sia dal punto di vista politico che da quello contabile. In questo paese, infatti, l’Unione Europea, dallo scorso aprile, ha dispiegato la più grande missione di politica di sicurezza e difesa che costerà ai contribuenti europei 340 milioni di euro nell’arco di tre anni, oltre al consistente pacchetto di aiuti che viene iniettato da tempo a Pristina e dintorni nell’ambito dei vari programmi di assistenza. Tanto, forse troppo per un paese di soli due milioni di abitanti.
La missione Eulex equivale, di fatto, ad un protettorato europeo nell’ex provincia serba. Sostituisce quella insediata dalle Nazioni Unite nel 1999 dopo l’intervento militare della Nato che aveva sottratto Pristina al controllo di Belgrado. Concepita nell’ambito della Proposta Comprensiva per la Definizione dello Statuto del Kosovo formulata dal mediatore internazionale Martti Ahtisaari, l’ex presidente della Finlandia cui è stato attribuito lo scorso anno il premio Nobel per la pace, l’amministrazione europea doveva preparare il Kosovo all’indipendenza. Il veto russo al Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha, però, incartato le mosse dei paesi occidentali che si sono visti costretti a riaggiustare il mandato della missione in corso d’opera che, adesso, è finalizzato alla promozione dello stato di diritto, dell’ordine pubblico e della sicurezza a prescindere da quello che sarà o potrà essere lo status della provincia.
In altre parole Bruxelles ha trovato un compromesso con Belgrado che consente ad entrambi di salvare la faccia. Per buona parte dei paesi europei il punto di arrivo di Eulex è un Kosovo indipendente e sovrano mentre per la Serbia il percorso è tutt’altro che definito. Molto dipenderà dal parere della Corte Internazionale di Giustizia cui le autorità di Belgrado si sono rivolte per dirimere la questione. Il verdetto è previsto per il prossimo aprile.
Intanto il governo serbo è riuscito nell’intento di neutralizzare la missione europea innervosendo la leadership kosovara che vede indeboliti gli sforzi volti ad ottenere il riconoscimento internazionale.
Ogni volta che si parla di Serbia, l’opinione pubblica kosovara entra in fibrillazione. Il crimine organizzato non conosce frontiere e la frantumazione della Jugoslavia ha in un certo senso facilitato il compito a chi gestisce traffici illeciti, siano essi di droga, merci, armi o esseri umani. A causa di antiche e recenti ruggini i corpi di polizia dei nuovi paesi della regione spesso non si parlano rendendo la vita più semplice ai criminali le cui reti si diramano e avviluppano tutti i Balcani collegandosi con le mafie presenti nei paesi dell’Unione Europea di cui l’Italia, purtroppo, è capofila. Bruxelles, però, ha imposto come condizione preliminare all’integrazione europea una lotta più efficace contro le organizzazioni criminali obbligando le polizie della regione a sviluppare una strategia di azione comune e ad intensificare, quindi, la collaborazione. Tutto apparentemente logico e normale ma ciò che è logico e normale dalle altre parti non lo è affatto nei Balcani. E’ bastato, infatti, che il capo missione Eulex, Yves de Kermabon, firmasse un protocollo di cooperazione con il Ministero degli Interni serbo perché a Pristina si scatenasse il putiferio. Sono volate, nelle istituzioni kosovare e sulla stampa, parole pesanti che hanno messo in discussione il ruolo dell’Unione Europea accusata di riportare il Kosovo sotto il controllo della Serbia. Il generale de Kermabon, che ci riceve nella moderna palazzina che ospita la missione europea in un quartiere periferico della capitale, respinge con decisione le critiche: "Questo accordo non è né un cedimento né una resa alla polizia serba ma, al contrario, gioca a favore della sicurezza della popolazione kosovara; alcune delle persone che ci accusano di mettere a rischio la sovranità del Kosovo potrebbero avere legami con il crimine organizzato”. "Adesso i leader politici sostengono di non essere stati messi al corrente dei negoziati in corso con Belgrado”, aggiunge, "ma la realtà è diversa perché sono sempre stati informati di quanto accadeva”. La missione Eulex ha il compito di monitorare e consigliare le autorità locali pur mantenendo alcune responsabilità esecutive. La trattativa con le autorità serbe è, quindi, stata condotta in linea con il mandato ricevuto. E’ un dato di fatto, però, che ci sono stati grossi errori di comunicazione che hanno messo in cattiva luce la diplomazia europea pregiudicando il prosieguo della missione. Il favore con cui era stato accolto dall’opinione pubblica il passaggio dell’amministrazione delle Nazioni Unite a quella dell’Unione Europea si è dissolto nel volgere di pochi giorni tra le polemiche.
Le vetrine dell’ampio viale perdonale dedicato a Madre Teresa espongono in bella mostra le prime guide turistiche in inglese interamente dedicate al Kosovo. In precedenza gli unici libri a disposizione erano i vecchi manuali di viaggio dell’ex Jugoslavia, dove il Kosovo era sbrigato in poche pagine e Pristina in poche righe. Non penso siano molti i turisti che scelgono l’ex provincia serba per le proprie vacanze, ma l’indipendenza ha dato diritto, almeno in termini editoriali, alla conquista di uno spazio di scaffale analogo a quello degli altri paesi della regione. Anche questo è un segno, piccolo ma importante, che conforta psicologicamente i disorientati cittadini kosovari.
Uno dei punti chiave del piano Ahtisaari è la piena attuazione del processo di decentramento che attribuisce e definisce i poteri dei governi locali. Con questo piano il numero delle municipalità viene portato a trentotto con cinque nuovi comuni in cui la minoranza serba diventerà maggioranza. Il quindici di novembre i cittadini del Kosovo saranno chiamati alle urne per rinnovare le amministrazioni locali. L’enclave serba di Gracaniza, alle porte di Pristina, è una delle nuove municipalità che saranno create entro la fine dell’anno. Rada Trajkovic è la leader storica di questa comunità, anche se, ci spiega, non sarà candidata alle prossime elezioni. Ci accoglie nel suo angusto gabinetto dove esercita la professione di medico. "In Kosovo ci sono troppi genitori per bambini che non sono mai soddisfatti” esordisce riferendosi alle continue lamentele dei kosovari nei confronti degli internazionali. "Dopo dieci anni la situazione non si può ancora definire stabile e gli albanesi non sono ancora pronti ad accettare il decentramento”, afferma, "a Pristina e dintorni non c’è più violenza, ma continua la discriminazione nei confronti dei serbi; mai, nella sua storia recente, il Kosovo aveva toccato un livello così basso di multietnicità e multiculturalità”. La dottoressa Trajkovic sta facendo campagna perché i serbi partecipino alle prossime elezioni. Da Belgrado, questa volta, giungono segnali discordanti. Dopo un primo silenzio solo adesso partono appelli, non troppo convinti, al boicottaggio. Rada confida in un’inversione di tendenza. A trecento metri di distanza il monastero ortodosso, uno dei più bei monumenti della regione, è ancora presidiato dai soldati del contingente internazionale. Tutto è tranquillo, ma non si sa mai.
Dopo anni di indugi la Commissione Europea si è espressa finalmente a favore della proposta di togliere l’obbligo del visto di ingresso per tre paesi dell’Europa sud-orientale. Dal prossimo anno i cittadini di Macedonia, Montenegro e Serbia potranno circolare liberamente nell’Unione senza doversi sottoporre alle umilianti e costose procedure ai consolati per la richiesta del lasciapassare. "Perché la Serbia sì e il Kosovo no?” è la domanda che i kosovari rivolgono con insistenza a Bruxelles convinti di avere subito l’ennesimo torto a favore dei tradizionali nemici. La decisione della Commissione, in realtà, si basa sul soddisfacimento di alcune condizioni che riguardano, in particolare, la distribuzione dei passaporti biometrici, il controllo dei confini e la gestione integrata delle frontiere. Le autorità kosovare non sono in grado di adempiere ad alcuna delle misure richieste, ma per l’opinione pubblica poco importa quando si tratta di prendersela con Belgrado e Bruxelles.
Zenun Pajaziti, il giovane ministro degli interni, non ci prova nemmeno a chiedere quello che non può essere ottenuto. Sottolinea soltanto che, facendo tesoro dell’esperienza della vicina Macedonia, il governo di Pristina ha adottato unilateralmente una tabella di marcia per la liberalizzazione dei visti basata sui criteri europei. "I nostri passaporti”, confessa, "non sono ancora in linea con gli standard biometrici richiesti; contiamo di avere i nuovi modelli dal prossimo anno”. Intanto il Kosovo ha negoziato accordi di riammissione con Belgio, Germania, Svizzera ed altri paesi che faciliteranno la richiesta di abolizione del visto. Resta da vedere come si comporteranno Cipro, Grecia, Romania, Slovacchia e Spagna, i cinque stati dell’Unione che ancora non riconoscono il Kosovo. La diplomazia è già al lavoro per individuare qualche soluzione creativa. Stime ufficiose, però, calcolano che almeno un terzo dei cittadini kosovari detiene due passaporti (serbo, macedone, albanese o di paesi dell’Unione). Per loro non cambierà nulla. Per gli altri, invece, l’Europa continuerà ad essere un miraggio visto che nei corridoi di Bruxelles si valuta che il Kosovo non sarà pronto a sbarazzarsi dell’ingombrante timbro burocratico prima del 2014.
Pietr Feith si trova nel delicato ruolo di dover rappresentare, da un lato, come Rappresentante Civile Internazionale, i paesi che riconoscono il Kosovo come stato sovrano (oltre ai 22 paesi dell’Unione anche Stati Uniti, Canada, Svizzera ed altri) e dall’altro, come Rappresentante Speciale dell’Unione Europea, anche stati che non hanno ancora fatto e non hanno intenzione di fare questo passo. Il doppio cappello, come viene chiamato nel gergo internazionale questa posizione, non calza a pennello il capo dell’esperto diplomatico olandese. Dotato di poteri esecutivi mantiene un atteggiamento pragmatico. "La riflessione su una exit strategy è già iniziata; con le elezioni generali del 2011, dopo un’attenta valutazione della qualità della democrazia e del funzionamento delle istituzioni democratiche, le mie prerogative dovranno cessare e l’ufficio del Rappresentante Civile chiudere agli inizi del 2012”, spiega con garbo, "i malintesi suscitati dalla firma dell’accordo con la polizia serba, inoltre, porteranno inevitabilmente ad un ridimensionamento dei miei poteri già nei prossimi mesi”.
"Non abbiamo più bisogno di baby-sitter”, è questo il messaggio che la società kosovara vuol fare pervenire a Bruxelles.
Crescono insoddisfazione ed insofferenza nei confronti della presenza europea così come resiste la consapevolezza che, senza l’aiuto dell’Unione, il Kosovo sarebbe allo sbando. Il bambino è cresciuto, vuole liberarsi del guinzaglio internazionale e acquisire la piena indipendenza, ma non ha mezzi e risorse per sopravvivere da grande. Nel centro di Pristina, ai lati di un palazzo, è stato affisso un enorme poster di Ibrahim Rugova, il padre fondatore del paese da poco scomparso, in cammino. Sembra presagire un percorso ancora lungo. Non è ancora chiaro verso dove.
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Paolo Bergamaschi è consigliere per gli affari esteri al Parlamento Europeo. Veterinario di professione, collabora con riviste, siti web e quotidiani. Con Infinito edizioni ha pubblicato Passaporto di servizio (2010) e L’Europa oltre il muro (2013). Da ve...
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