qualche settimana fa, un gruppo di giovani profughi scappati dai loro paesi -costretti dalla guerra, dalle brutalità e dalle persecuzioni a trovare rifugio nel Regno Unito- ha completato delle frasi rispondendo a una domanda, come parte di un progetto artistico sullo studio dell’identità. Era una di quelle esercitazioni in cui è possibile fornire qualsiasi tipo di risposta: poetica, carica di immagini, perfino scherzosa. Poteva anche essere l’identificazione delle loro origini nazionali. La frase da completare era "Io sono...", al fine di creare il ritratto di un individuo, un’istantanea spazio-temporale di qualcuno qui e ora. Tuttavia, inaspettatamente, ogni singolo membro del gruppo ha scritto qualcosa del tipo Io sono... sangue, vene, polmoni, cuore, occhi, pelle, osso, muscolo, pelle, cervello. Hanno "spogliato” la domanda riportandola alla nostra comune umanità fisica. Senza patria, a volte privati delle proprie famiglie e comunità, alloggiati in nuove case, con una nuova lingua, cultura, istruzione e un doloroso retaggio di ricordi, sono risaliti alle basi dell’identità.
Se facessimo lo stesso test al signore che gestisce il negozio qui giù all’angolo, lui s’identificherebbe -ne sono certa- con un paese, uno Stato, un’etnia o un luogo: "Be’, sono inglese”, e con quella semplice affermazione arriverebbe un’armatura di valori, assunti morali e pregiudizi che lo renderebbero parte integrante di un’immagine che unisce e divide. Se la frase fosse: "Io sono britannico”, significherebbe qualcosa di sottilmente diverso. Quel signore sfoggerebbe comunque un completo di valori, ma questa risposta comprenderebbe un’accettazione della nostra società multiculturale. Ovviamente i termini britannico e inglese sono intercambiabili, e spesso io uso l’uno per riferirmi all’altro. Ma spiegare cosa significhi essere britannici o inglesi -ciò che siamo oggi, chi siamo diventati, cosa stiamo diventando, chi siamo nel mondo- equivale a fornire un identikit confuso e inquietante.
L’identità, come gli appelli alla nostra identità comune, è un elemento chiave della bibbia politica di tutti i partiti in periodo di campagna elettorale. Oggi più che mai sentiamo il bisogno di appuntarci spille, di trovare a tutti i costi un allineamento, di indossare qualcosa che sia all’ultimo grido politico, eppure fatichiamo a decidere in quale di questi tessuti pronti all’uso dovremmo ammantarci. Non mi sovviene nessun altro periodo in cui così tante delle persone che conosco non sapessero per chi votare, con chi identificarsi, in chi sperare, come descriversi, cosa significhi essere britannici, inglesi, gallesi o scozzesi. Siamo europei? Cosa ci definisce? La gente che ha votato i Tory, i liberal-democratici o i laburisti -gente che ha votato per tutta la vita e con voto utile- ormai ne ha le tasche piene, e guarda ai piccoli partiti di nuova formazione, abbandonando il voto utile, cercando piuttosto un partito in cui credere. Partito che potrebbero essere i Verdi, i quali offrono una più vasta visione d’insieme, una benigna e radicale identificazione con la comunità, l’umanità e il resto del mondo. Chi non voterebbe per Caroline Lucas, la sola deputata del partito dei Verdi a Westminster? Se l’ex leader dei Verdi si candidasse come primo ministro, la voterei. È lo specchio dell’onestà, della giustizia sociale e della determinatezza, tutti valori di cui i britannici si fregiarono dopo la Seconda guerra ma di cui oggi, nei corridoi del potere, si percepisce una sconcertante carenza.
C’è un partito che non ha paura di vestire i panni di John Bull -la personificazione dell’inglese medio- o di pretendere di essere la voce della verità. La loro è una mise di dubbia eleganza, bordata -nel panorama politico incerto, disonesto e cinico- di nostalgia per un paese del passato, un non-luogo di fish and chips, pinte di birra, dolci e gelati che si sciolgono sui tavoli imbanditi lungo le strade. È l’Ukip: la spensierata, elementare espressione del vero spirito inglese, che consente ai cittadini di riprendersi il paese. Neanche a dirlo, si rivolge direttamente a coloro che si sentono derubati della loro versione d’Inghilterra, quella che conoscevano e legittimavano e stimavano, ora svalutata e devastata. Perché tutti noi abbiamo le nostre personali versioni della Gran Bretagna. Quella dell’Ukip non è certo la mia, ma non lo è neppure quella dei Tory.
Nigel Farage -il leader dell’Ukip- nella foto di copertina del suo libro ...[continua]
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