Era il settembre del 2013 quando il presidente Serzh Sargsyan annunciava ufficialmente che non avrebbe sottoscritto l’accordo di associazione con l’Unione europea, la cui cerimonia di sigla era prevista al vertice di Vilnius dei paesi del Partenariato Orientale nel novembre dello stesso anno. Nessuno fra i tecnocrati di Bruxelles si aspettava un voltafaccia del genere. I negoziati erano durati tre anni e mezzo e tutto sembrava filare liscio in vista dell’appuntamento nella capitale lituana. Io stesso, nelle mie precedenti visite, avevo registrato un crescente interesse, soprattutto nel mondo universitario e nella società civile, nei confronti di un approfondimento graduale delle relazioni fra Unione europea e Armenia. I rappresentanti del governo di Erevan in visita nella capitale belga non perdevano l’occasione di ribadire con insistenza la volontà di percorrere il cammino di integrazione concordato con le autorità europee. Poi, improvviso, il grande rifiuto, inaspettato, gelido, tranciante, all’ombra di un conflitto, quello del Nagono Karabakh, che ha marchiato indelebilmente la storia dell’Armenia dalla recente indipendenza e che continuerà a determinarne le sorti future.
È un dato di fatto che il decollo del progetto europeo di Partenariato orientale ha spinto i paesi interessati a una scelta di campo esacerbando le frizioni fra Unione europea e Federazione Russa. Georgia, Moldova e Ucraina hanno optato per Bruxelles, Bielorussia e Armenia per Mosca, mentre l’Azerbagian si barcamena fra i due blocchi a seconda della convenienza politica del momento. La scelta europea dei primi tre paesi, però, ha comportato un prezzo da pagare. Il conto, salato, è arrivato a Tbilisi, Chisinau e Kiev dalla capitale russa e ha determinato la perdita di una parte di sovranità territoriale. Abchazia, Ossezia Meridionale, Transnistria e Donbass sono il pedaggio pagato alla Russia per sganciarsi dalla sua orbita. Lo stesso sarebbe verosimilmente accaduto all’Armenia che oggi, grazie alla complicità russa, occupa il 20% del territorio dell’Azerbaigian. Messo spalle al muro, quando si è trattato di decidere fra sicurezza con salvaguardia della conquista territoriale ed Europa, Sargsyan ha scelto la prima riconsegnando le chiavi del paese a Mosca. Restano tre anni e mezzo di manfrine e un accordo di carta straccia utile solo per gli archivi, le cronache e le tesi di laurea degli studenti di Scienze Politiche.
Dal primo gennaio di quest’anno l’Armenia è entrata a far parte dell’Unione economica euroasiatica con Russia, Bielorussia e Kazakistan. Dopo lo sgarbo di Vilnius, però, Erevan ha ricucito le relazioni con l’Unione europea rendendosi disponibile ad altre forme di cooperazione purché compatibili con il nuovo quadro geopolitico. Negli ultimi mesi l’ambasciatore armeno a Bruxelles si è dato un gran da fare in Parlamento europeo per minimizzare l’incidente di percorso e riportare il suo paese al centro dell’attenzione. Non passa giorno senza vederlo correre senza sosta da un ufficio all’altro per convincere gli eurodeputati che l’adesione all’altro blocco è più di facciata che di sostanza e che comunque l’Armenia continuerà il percorso di riforme politiche concordato a suo tempo con i vertici europei. "Democrazia, stat ...[continua]
Esegui il login per visualizzare il testo completo.
Se sei un abbonato online, clicca qui accedere, oppure vai alla pagina Abbonamenti per acquistare l'abbonamento online.
Gli abbonati alla rivista hanno diritto all'abbonamento online gratuito!