Marina Lalatta Costerbosa è autrice, con Massimo La Torre, del volume Legalizzare la tortura? Ascesa e declino dello Stato di diritto (Il Mulino, 2013).

La Corte europea per i diritti dell’uomo ha condannato l’Italia per le violenze commesse dalla polizia in occasione del G8 di Genova, in particolare per quelle della notte tra il 21 e il 22 luglio 2001 presso la scuola Diaz-Pertini. All’unanimità la Corte condanna l’Italia come responsabile del crimine di tortura, dell’inadeguatezza della legislazione penale nella sanzione di simili efferatezze, della mancanza di strumenti di prevenzione efficaci nello scongiurarne la reiterazione. Il tenore e il tono della sentenza del tribunale di Strasburgo colpiscono. Una repubblica democratico-costituzionale vecchia ormai di settant’anni come può essere la destinataria di un provvedimento di tale gravità? Quando allora possiamo definire davvero "democratico” uno Stato?
Ogni Stato democratico esercita il suo potere seguendo la regola della maggioranza; ma non ogni Stato che segue la regola della maggioranza può dirsi democratico. La democrazia pretende garanzie relative alla qualità delle deliberazioni politiche, qualità giudicata in base alla loro maggiore o minore equità. E l’equità è presente in misura sufficiente -perché si possa parlare di democrazia- solo se viene superata una certa soglia, se almeno entro certi limiti il contenuto di giustizia delle norme e delle decisioni viene rispettato, se non si violano insomma in modo palese i diritti umani. Ebbene, che nel nostro Paese si torturi e che per di più la colpevole lacuna del nostro ordinamento giuridico, che non prevede nel Codice penale la fattispecie del reato di tortura, persista rappresentano un punto di depressione morale e di deficit democratico non scusabile.  
La situazione non appare più sopportabile, neppure ai giudici europei. L’introduzione del reato di tortura è doverosa perché è coerente con il dettato costituzionale che chiede, senza condizioni e distinguo, il rispetto della persona umana. È doverosa perché l’Italia ha ratificato nel lontano 1988 la "Convenzione internazionale contro la tortura”; e ratificare una Convenzione vuol dire vincolarsi formalmente a rispettarne il dettato e a provvedere agli adempimenti necessari perché i suoi effetti siano operativi. All’articolo 4 della Convenzione dell’Onu si prescrive che ogni Stato deve provvedere ad assicurare che ogni atto di tortura venga punito dal Codice con pene adeguate alla grave natura del reato. È da quasi vent’anni che il nostro Paese non onora il suo impegno. E in questi vent’anni non si può proprio dire che non vi sia stata l’occasione per avvertirne l’esigenza. Nel 2006 c’eravamo andati vicini: alla Camera un disegno di Legge era stato approvato, per poi però insabbiarsi inesorabilmente al Senato.
Da taluni il tanto scomodo articolo 4 è stato interpretato in senso volutamente "largo”: la Convenzione chiede che il Codice penale punisca i reati di tortura, e ciò accade anche in Italia.
Ma questa non può essere che una lettura strumentale e maliziosa di quell’articolo, che già al secondo comma precisa che la punizione deve essere adeguata alla natura della tortura sotto il profilo della sua estrema gravità. E questo è quanto in Italia non è mai accaduto.
Perché come sempre tutto non si sciolga come neve al sole, forse è bene che qualcosa si precisi proprio sulla natura della tortura; come in fondo è doveroso fare se si prende sul serio l’impegno di ratifica, la nostra Carta costituzionale e, soprattutto, la dignità delle persone vittime di tortura.
A scanso di equivoci, la tortura non è una violenza come un’altra. Essere stati torturati non significa aver ricevuto un sacco di botte e avere le ossa rotte. Può implicare questo, ma non necessariamente, e il tasso di crudeltà della tortura a questo non si ferma, tragicamente.
La tortura è la distruzione deliberata della personalità e della dignità della vittima attraverso l’inflizione di gravi sofferenze fisiche o psichiche. L’aguzzino vuole consapevolmente arrecare uno sconfinato dolore all’essere umano che è in suo potere, impossibilitato a reagire e a fuggire, fosse pure dandosi la morte. La tortura è il mezzo tramite il quale egli vuole ancora di più, consapevolmente (o, inconsapevole, prendendo parte a un processo che pretende di), annientare l’Altro come persona. Tramite la prostrazione del corpo e della mente si ottiene che l’al ...[continua]

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