Il disprezzo dimostrato dalla sinistra, da tutte le sinistre, per i referendum regionali, è stato puro autolesionismo. E dire che si era presentata un’occasione politica, e storica anche, eccezionale: strappare alla destra la bandiera del federalismo quando la Lega nazionale, di tendenza lepenista, aveva soppiantato quella regionalista.
Ma non c’è niente da fare, la sinistra italiana è cronicamente centralista. I veneti che sotto il diluvio vanno a votare? Per loro un caso di circonvenzione di incapaci.
Il filosofo ebreo-americano Michael Walzer, ospite del 900fest di Forlì, la domenica, insieme alla moglie Judith, ha fatto un giro per Ravenna, accompagnato da Barbara, una delle organizzatrici del festival e dal vicesindaco e da funzionari del comune di Ravenna, che avevano preparato un’accoglienza molto calorosa. A San Vitale tutti sono rimasti in fila per mezz’ora per entrare. A un dato punto Walzer si è avvicinato a Barbara dicendo piano: "Molto bella questa cosa della fila. Molto democratica”. Bravo il vicesindaco di Ravenna.
La sensazione che un moderato al pari di Casini, già presidente della Camera e ora della Commissione di inchiesta sulle banche, si sia messo a fare gli straordinari per arrivare in tempo, prima dello scioglimento delle camere, a destabilizzare una delle istituzioni più delicate della repubblica, solo per permettere a qualcuno di riciclarsi in difensore dei risparmiatori, e casomai -alcuni lo scrivono come fosse la cosa più normale del mondo- per pregiudicare una candidatura prestigiosa alla guida di un possibile governo del Presidente, è quanto mai inquietante. I bulloni cominciano a mandare rumori sinistri.
Con che commiserazione i nostri liberali guardano ai poveri elettori, per lo più di sinistra, così avidi di nemici su cui scaricare le proprie frustrazioni; antiberlusconiani ieri, antirenziani oggi, sempre pronti a dare del Mussolini al leader di turno. È Panebianco a parlare sul Corriere di quelli che hanno scambiato la "riforma del Senato”, così la chiama, per la marcia su Roma (casomai, nel combinato fra riforma costituzionale e riforma elettorale, l’avranno scambiata per la legge elettorale maggioritaria di Acerbo che i liberali votarono insieme ai fascisti, ma comunque…).
Lo si sa, l’abbiamo visto: pesi e contrappesi, divisione e diffusione del potere, conflitto di interessi, non sono problemi per i liberali nostrani. Paura della dittatura della maggioranza? Ma per carità, neanche di quella della minoranza! Per loro maggioritario è sinonimo di minoritario: a governare deve essere una minoranza "eletta” (che lo debba essere dal popolo un accidente purtroppo ormai inevitabile).
Mettiamola così: può essere che a qualcuno, a sinistra, piaccia vedere un Mussolini dietro a ogni angolo di strada, che sia turca, russa, finanche ungherese o polacca (si spera anche venezuelana) o pure, in un attacco di paranoia, italiana. Questo, certo, non va bene. Ma sarà sempre meglio che non vederlo mai. Né nel ’20, né nel ’22, né nel ’24…
Ma perché, a sinistra soprattutto, nutrono un così grande disprezzo per i Cinquestelle? Spesso anche astio, odio addirittura. Vanno a vedere i curricula ansiosi di poter fare quattro risate, si calano fulminei su qualsiasi gaffe che faccia un dirigente, spiano tutti i cassonetti di Roma ansiosi di poter gridare: "Ecco, vedete!”, arrivano ad augurarsi tutto il male possibile piuttosto di vedere i Cinquestelle al governo. Scalfari sceglie Berlusconi piuttosto di Di Maio. L’ha sentenziato in Tv. Tempo fa, in un’altra sentenza, aveva stabilito, con aria di fastidio, come se gli si facesse perdere tempo, che "la democrazia è oligarchia, punto” (all’ombra della quale staziona, aggiungiamo noi, tutta una schiera di intellettuali opinionisti, convinti di aver la ricetta per tutto e ansiosi di farsi ricevere). Peccato che invece siamo in democrazia e il voto di un giovane metalmeccanico vale quello di Scalfari. Continuino pure a esprimere il loro sovrano disprezzo, è anche per quello che i repellenti cinquestelle sono al 30%. Ma non lo capiscono e dire che non è difficile.
Una domanda: vi tenete da parte un po’ di repulsione, e anche di parole, per quando avremo a che fare con Alternative fur Deutschland o con Alba Dorata o con il Partito della Rinascita Polacca?
Nel 2016, non meno di 920.000 contadini sono stati espulsi dal loro "posto di lavoro”, cioè i campi, dal riscaldamento globale. Circa 418.000 nella sola India. Per ogni aumento di un grado centigrado di temperatura globale si è registrato un calo del 6% delle rese globali di grano e del 10% di quelle di riso. Poi c’è l’inquinamento: nel 2015 l'inquinamento atmosferico legato al carbone e ai combustibili fossili sarebbe stato all’origine di 803.000 morti "premature ed evitabili” in 21 paesi asiatici. Sono solo alcuni dei dati presenti nel recente rapporto "Lancet Countdown” (elaborato in collaborazione con l'Organizzazione mondiale della sanità, la Banca mondiale e la rivista medica britannica "The Lancet”) e spiegano meglio di tanti discorsi i rapporti tra cambiamento climatico e salute. Paradossalmente ad esser più colpiti da questo nuovo "clima”, sono proprio i contadini, cioè i meno responsabili del riscaldamento globale. La conclusione del rapporto: il cambiamento climatico sta aggravando le disuguaglianze sociali, economiche e demografiche.
Finalmente è uscita, per Donzelli, la biografia di Nicola Chiaromonte di Cesare Panizza. Opera benemerita che va a sanare quella che è una vera e propria ingiustizia: la quasi completa dimenticanza italiana per la vita e gli scritti di un nostro intellettuale fra i più stimati all’estero, dalla Francia all’America alla Polonia. E a proposito di Polonia, cogliamo l’occasione per dire che quest’estate siamo andati a Varsavia a prendere la parte della biblioteca di Chiaromonte che Miriam Chiaromonte aveva destinato agli amici polacchi dell’Istituto di documentazione e studi sulla letteratura polacca (l’altra parte l’aveva lasciata alla Fondazione Lewin). Gli amici polacchi hanno poi deciso che sarebbe stato meglio riunirla da noi. Ovviamente la cosa ci ha fatto molto piacere. Ancor più perché insieme ai libri abbiamo avuto anche gli autoritratti di Annie Pohl, la prima moglie di Chiaromonte. Pittrice, figlia di un dirigente dell’Internazionale socialista, suicida insieme alla sua compagna all’approssimarsi dell’occupazione nazista di Parigi, Annie, malata di tubercolosi, morì durante la fuga col marito da Parigi. Così scrive Chiaromonte in una lettera ai genitori: "Annie sentiva soltanto questa gran debolezza, il rammarico di non poter camminare, viaggiare, disegnare. Ma quando il cuore ha cominciato a dare i primi segni di questa grande fatica -delle crisi di affanno che cominciavano verso sera- non poteva dormire e soffriva. Le cure, le ha avute tutte. Ma non ha avuto la sola cosa che avrebbe potuto tenerla in vita: la calma attorno, e dei tempi dolci, gentili. Tutto quel che non era gentile le toglieva un po’ di vita. Annie è stata la mia compagna leale, coraggiosa, ed eroica, devo dire eroica, se questa parola ha un senso. Nei buoni giorni, piena di gioia. Nei cattivi, melanconica. E nei suoi giorni ultimi, un tenero miracolo di coraggio. Onore a lei”.
Un’amica del Pd ci ha rimproverato di giudicare da un pulpito, senza mai dire cosa vogliamo, senza mai essere positivi, propositivi e concreti. Forse ha ragione. Non c’è dubbio che i pulpiti sono molto antipatici anche se sgangherati e traballanti come il nostro. E però va anche ribadito che la critica, senza alcuna remora, di quello che non va, o che si crede che non vada, non è solo un diritto, ma anche un dovere. Questo, poi, per un partito di sinistra è assolutamente vitale, visto che non è spaparanzato sull’esistente come la destra.
In positivo? Beh, il partito che ci piacerebbe dovrebbe federare, o confederare a seconda dei casi, tutti coloro che "fanno politica senza farla”. Un partito della società, prima che di governo, perché senza la società, fra l’altro, poi non si governa neppure, per di più in un paese corporativo come il nostro. Può sembrare fumo, ma non lo sono stati anche, in questi decenni di "leader provvidenziali”, tutti i tentativi, da destra e da sinistra, di calar qualche riforma dall’alto?
Qualcosa di concreto? Facciamo un esempio, minimo rispetto alla "rivoluzione concreta” che sarebbe necessaria, ma sintomatico: col jobs act la possibilità data al padrone di licenziare per qualsiasi motivo disciplinare, dal più piccolo al più grave, senza possibilità di reintegro, è oltremodo ingiusta. Che poi questo articolo della legge sia stato concepito da un partito che si dichiara di sinistra è scandaloso: un articolo così è destra pura. Allora non si poteva rimediare affidando il disciplinare al giudice, come avviene in Germania? Ma non già per attirare nella coalizione l’Mpd, che forse avrebbe trovato altri motivi per stare fuori, ma per rimediare a un’ingiustizia e, casomai, per riaprire un dialogo col maggior sindacato italiano. Il referente di un partito di sinistra devono essere i sindacati non la Confindustria. Su questo non ci può piovere.
L’Mdp sembra impegnato a fondo nello smentire di voler fare una "cosa rossa”, quasi la considerasse un’accusa infamante e del tutto infondata. D’altra parte sono tanti i politici e gli intellettuali che da tempo spingono per abbandonare del tutto la parola "sociale” in nome di un centro liberaldemocratico. Ma in Europa le cose rosse esistono, eccome. I laburisti inglesi sono una "cosa rossa”. In Italia, invece, sembra che un ex-comunista non possa diventare pubblicamente un socialista democratico, pur sentendosi tale a tutti gli effetti. Forse perché vorrebbe esserlo nel nome di Togliatti e senza ammettere mai e poi mai, neanche sotto tortura, che "Saragat aveva ragione”. La fedeltà alla propria biografia o, peggio, alla propria autobiografia, non va bene. Le "cose rosse” sono due nella storia e dopo tutto quello che è successo non si può non scegliere, salvo diventare qualcosa di anomale, ma molto simile a un democratico cristiano. Quando a Bersani chiesero in tv chi avrebbe messo nel suo pantheon non disse: "Gramsci e Togliatti”, ma neanche: "I Rosselli e Salvemini, Turati e Saragat”. Disse: "Papa Giovanni”.
Iniziamo anche noi a celebrare il 68:
"Guardando indietro, non posso fare a meno di pensare che abbiamo perso il treno. Marxisti? Allora perché non eravamo a Varsavia a discutere di revisionismo comunista con il grande Leszek Kolakowski e i suoi studenti? Ribelli? In quale causa? Pagando quale prezzo? Perfino quei pochi impavidi di mia conoscenza a cui era toccato di passare una notte in cella, di solito il giorno dopo erano già a casa per l’ora di pranzo. Che cosa ne sapevamo, noi, del coraggio che ci voleva per sopportare settimane di interrogatori nelle prigioni di Varsavia, seguite da condanne a uno, due o tre anni di carcere inflitti a studenti che avevano osato chiedere cose che noi davamo per scontate? A dispetto delle nostre grandiose teorie della storia, allora ci sfuggì una sua svolta epocale. Fu in quei mesi dell’estate del 68 che a Praga e a Varsavia il marxismo capitolò. Furono gli studenti ribelli dell’Europa centrale che riuscirono a minare, screditare e rovesciare non solo un paio di fatiscenti regimi comunisti, ma l’idea stessa di comunismo. Se ci fosse importato qualcosa del destino delle idee che andavamo sbandierando con tanta disinvoltura, avremmo prestato un po’ più di attenzione alle azioni e alle opinioni di quelli che erano cresciuti alla loro ombra”.
Da Lo chalet della memoria di Tony Judt, Laterza. Un libro da leggere.
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