Da una lettera spedita dal coordinatore della redazione agli iscritti alla mailinglist redazionale è seguito un dibattito che non ha certo la pretesa di analizzare il voto in profondità, sostituendosi agli “esperti” della politica, che certo andremo a intervistare, ma semplicemente di dar voce a militanti, a persone ostinatamente impegnate o spettatrici appassionate, a cui sono care le sorti della sinistra in Italia. Pubblichiamo alcune lettere. Chiunque voglia intervenire è ben accetto. Ogni abbonato può iscriversi alla mailinglist della redazione scrivendo al nostro indirizzo unacitta@unacitta.it.
Gianni Saporetti
Non riesco neanche a sperare che si vinca a Roma. Capisco tutto, ma in cuor mio sono contento che in Parlamento non ci siano più i comunisti. Voglio sperare, con Rullani, che solo attraverso un trauma gravissimo la sinistra possa risorgere. Ieri mattina ho sentito Marco Revelli alla radio dire che gli operai erano stati lasciati soli, quella era la ragione per cui poi la Lega li aveva intercettati, ecc. Sembrava di vederli questi operai, “minori” lasciati soli, aggirarsi piangenti fino a che non erano adescati dall’occhiuto leghista. Sempre minori a cui portare la coscienza. (Sul welfare: “Devono votare!”. Bene, votano a favore all’80%. “Ma non erano in loro, erano sotto il ricatto della caduta del governo”. La vera volontà della classe operaia si è poi espressa con la manifestazione dei centomila dei quattro partitini comunisti... Che schifo!)
Io penso invece che siano gli operai ad averci lasciato soli e ci sta bene. Come dice Rullani una sinistra che non sa che parlare di redistribuire un po’ di soldi non merita nulla. Ho visto Bossi, vestito trasandato, dimesso, senza alcuna aria da vincitore (ha raddoppiato! Ricordo la festa sguaiata e arrogante di Prodi, Fassino e gli altri dopo il pareggio...), bofonchiare: “I nostri sindaci che dovevano andare a Roma con il cappello in mano a chiedere i soldi, no, no, questo non deve succedere più”. Ho sentito un leghista di un paesino del vicentino dire: “Cosa non hanno capito quelli della sinistra? Che i cittadini vogliono contare di più”.
Inutile stare a parlare, la nostra sinistra, tutta, comunista o ex-comunista, marxista o ex-marxista, o quella succube da sempre dei comunisti e ora degli ex-comunisti, o catto-comunista, è centralista fin nel midollo, ha il palazzo d’inverno, la “stanza dei bottoni” in testa. Veltroni che irride i leghisti del Po in cotta e spadone, casomai con a fianco George Clooney? Questa spocchia, questa sufficienza, questo elitarismo che vien sempre fuori a sinistra è veramente disgustoso. Che poi ci siano rischi di derive xenofobe è certo. Ma se si fa la mappa in Europa sugli operai che diventano “cattivi” forse si vedrebbe che sono zone di forte tradizione comunista; il comunismo desertifica gli animi. D’altra parte ci meravigliamo? La Rossanda e tutto il Manifesto rimpiangono il muro e i rapporti di forza diversi che “oggettivamente” tenevano aperti spazi... Si può essere più cinici e “cattivi”? Lamentiamoci poi del filoamericanismo dei polacchi! E’ lo stesso ragionamento col quale si potè sparare sugli operai ungheresi! Non sono cambiati, non cambiano. Detto questo è veramente offensivo pensare che gli operai siano attratti solo dal rancore contro il rom: il federalismo non è una sciocchezza, senza federalismo è difficile pensare a una vera democrazia, perché tutto si allontana dal cittadino e dal suo controllo. “Roma” fa veramente schifo. Ma fa schifo anche la Regione Lombardia e forse lì, con un’accentuazione comunalista, c’era la contraddizione in cui inserirsi. Ma veramente verrebbe da dire che l’operaio leghista capisce molto di più del superdirigente della sinistra italiana. Lui al nome “democratico” c’è arrivato prima e meglio: persa giocoforza l’identità di classe, si ritrova “cittadino” della sua zona di residenza e di lavoro e lotta per una cittadinanza più attiva e democratica. Egoismo perché vuol tenersi i suoi soldi? E cosa c’è di male? E dove vanno altrimenti? E chi, su questo, critica chi? E comunque la democrazia viene sempre prima di ogni buon sentimento: voglion metter il dialetto a scuola? Che lo facciano, decidono loro (e peggio per loro).
Ormai la battaglia è persa e chissà per quanti anni. Speriamo solo che il prezzo del petrolio non spinga verso la secessione.
Noi passiamo per matti ma insistiamo. Per la sinistra italiana la questione è ancora tutta lì: centralismo, statalismo e quindi, rispetto alla propria storia, comunismo e marxismo. O si salda quel conto o non si va da nessuna parte.
Francesca Barca
Onestamente quando ho visto i risultati (ovviamente alludo ai risultati della Lega contro quelli di Bertinotti) avevo voglia di piangere. Ma non scherzo. Però si, inizio a pensare che abbiate ragione. In questi giorni ne sto parlando tanto, con amici anche non italiani, e di questo mi parlano: di una sinistra elitista. Che disprezza la gente, di una sinistra convinta di avere le risposte (noi siamo la testa e voi il braccio, mi raccontava un amico spagnolo)... Chiaramente mi fa paura un Paese con questo governo. Ma inizio a pensare che dovrei mettere molto più in discussione i miei criteri.
Pieralberto Valli
Cari amici, non posso fare a meno di reagire all’intervento post-elettorale di Gianni. Nonostante condivida una parte della sua analisi, credo sia giusto contribuire alla discussione, e cercherò di farlo tenendo a bada, per quanto possibile, la mia rabbia. E questo furore, per richiamare Steinbeck, non si deve alla vittoria del centro-destra, ma alla vittoria di una certa sinistra, chiaramente maggioritaria nel paese, che “in cuor suo è contenta che in Parlamento non ci siano più i comunisti”. Magnifico. Se il problema era questo, si è finalmente aperta una stagione nuova! Io credo che un paese in cui non siano presenti né un partito socialista, né un partito comunista (e più in generale in cui non vi sia un partito intrinsecamente laico e laicista) sia un paese piuttosto impoverito. Evidentemente il sogno di alcuni è il bipartitismo di stampo americano, e in questo senso Veltroni, anche negli slogan, ha dato un grande contributo al raggiungimento dell’obiettivo. Personalmente mi sento in una situazione simile a quella dell’asino di Buridano: alla mia destra e alla mia sinistra vi sono due covoni di fieno identici. Quell’asino scelse di non scegliere, e morì di fame. Forse è la fine che tutti si auspicano per “una certa sinistra” che, allo stesso modo di Berlusconi, non si può e non si deve neppure nominare. Io credo che quando al comunismo si sostituisce l’anticomunismo, si abbraccia una nuova ideologia che rimpiazza la precedente per assolutismo e mancanza di spirito critico (anche se non so se il termine “spirito critico” sia stato sdoganato dai vertici di partito). Credo piuttosto che il risultato elettorale sia da ascrivere ad una generazione che si è riempita la bocca con il presunto volere degli operai e che da quaranta anni vive in luoghi ben lontani dalle fabbriche e dai luoghi di lavoro. Quando è stata l’ultima volta che i dirigenti di partito sono entrati in fabbrica? E non per andare a parlare con Calearo e gli amici di Confindustria. Io in fabbrica ci vado tutti i giorni. Il primo dirigente sindacale che ho incontrato mi è venuto incontro per stringermi la mano. Vi posso assicurare che le mie mani erano ben più ruvide delle sue, e quelle dei miei compagni sono più rovinate delle mie. Bisogna avere il coraggio e l’umiltà di respirare quell’aria, e guardare in faccia anche tutti quei lavoratori che, solamente perché non italiani, non hanno avuto il diritto di esprimersi attraverso il voto. A proposito, personalmente mi spaventa una campagna elettorale tutta tesa a rincorrere i temi della destra: meno tasse, più sicurezza. Ma la sinistra non dovrebbe anche occuparsi di temi sociali e diritti? Non ho sentito una parola spesa in favore dei diritti di immigrati e omosessuali; non ho sentito una parola sulle guerre di cui siamo complici, né sulla laicità dello stato. Sono queste le cose che mi spaventano. Tutta la propaganda elettorale era circoscritta al singolo individuo, alle sue entrate, alla sua casa e al suo giardino, al suo “diritto” ad essere più sicuro, più italiano, o più padano. Ed ora si prospetta la grande alleanza con i cattolici dell’Udc, con Casini e Cuffaro. Ma tanto, in cuor nostro, siamo tutti più felici di non avere più comunisti in Parlamento.
Donato Speroni
Cari amici, condivido l’analisi e apprezzo il tono appassionato del discorso, ma mi chiedo: e adesso? Sono convinto che con ogni probabilità questo governo di centrodestra durerà almeno cinque anni. Sul mio blog ho provato a prevedere tre sbocchi per l’Italia: uno nefasto di tipo argentino (il distacco dall’euro e dall’Unione europea), un altro altrettanto negativo di tipo balcanico (il federalismo spinto fino alla frantumazione del Paese) oppure un faticoso e difficile processo di riavvicinamento al nucleo storico dell’Europa. Confesso che di fronte all’entità della posta in gioco quello che farà questa sinistra mi sembra quasi irrilevante. Potrà competere per amministrare meglio alcuni territori, ma mi sembra totalmente sprovveduta di fronte alle grandi domande alle quali si dovrà rispondere nel prossimo decennio. Provo a elencarne alcune. La governance. La crisi ambientale e quella finanziaria ci hanno dimostrato che non si può affidarsi solamente alle forze del mercato. Ma dalla globalizzazione non si può tornare indietro. E allora? Su quali istituzioni internazionali vogliamo puntare? Per esempio il Wto è cattivo, perché ha accelerato troppo la liberalizzazione dei mercati, come dicono Tremonti e i no global, oppure è una istituzione fondamentale per governare il cambiamento? E a quali condizioni?
L’ambiente. Un anno fa l’Europa ha varato un piano molto ambizioso per contenere le emissioni entro il 2020 e prendere la leadership mondiale del dopo Kyoto. Adesso sono all’opera tutte le forze che temono conseguenze troppo gravi per le imprese europee e per il nostro stile di vita. Bisogna battersi davvero per obiettivi ambientali ambiziosi o limitarsi ad ipocriti auspici senza alcun impatto politico?
L’immigrazione. E’ fin troppo facile respingere certi toni dei leghisti. Ma quanta e quale immigrazione vogliamo? Con che tipo di accoglienza? Dobbiamo accogliere soltanto chi ci serve per far funzionare le nostre industrie e accudire i nostri vecchi, oppure dobbiamo avere una strategia più generale di aiuto verso i Paesi nuovi? Quanto siamo disposti a sacrificare per questo obiettivo?
La vita umana. Sarà sempre più facile arrivare fino a novant’anni e oltre. A una condizione: di avere i soldi per pagarsi le cure. Anche qui si profilano temi etici di enorme importanza. Che cosa deve garantire la comunità e che cosa deve rimanere nella sfera delle possibilità individuali? E si potrebbe continuare con tanti temi globali (l’importanza di certi interventi militari, i diritti umani, gli ogm, la bioetica, le nuove forme di democrazia legate alla rete) che nel dibattito italiano vengono soltanto sfiorati, solitamente per dire delle banalità, perché sono fonte di troppe divisioni. Ecco, io credo che il dovere di una forza politica nuova (di sinistra? sì, certo, se sinistra vuol dire affrontare il cambiamento) sia di mettere queste domande sul tavolo per elaborare risposte condivise e agire di conseguenza. Altrimenti, se ci limiteremo a glissare su queste cose per fare invece il controcanto a Berlusconi e a Bossi sulle banalità di ogni giorno, penso che non solo perderemo tutte le battaglie politiche, ma contribuiremo a fare dell’Italia un Paese sempre più marginale e culturalmente provinciale. Insomma, la ricostruzione di una politica a mio avviso parte dalle domande giuste, quelle che ho elencato io o altre che possono essere meglio espresse. Comunque dalle domande: in questo lavoro Una città, per come è fatta e per la sua storia, può avere una grande importanza. Auguri.
Sergio Sinigaglia
Caro Gianni, la tua soddisfazione perché in parlamento “non ci sono più i comunisti” ti mette in pessima compagnia. Secondo me la tua psicosi anticomunista ti sta facendo un pessimo scherzo. Io non sono andato a votare (in caso contrario avrei votato Sinistra Arcobaleno) perché come sai come Carta da dieci anni andiamo dicendo che quella sinistra lì è ormai morta e sepolta, per la sua incapacità di rifondarsi su nuovi contenuti (in gran parte presenti nei movimenti di questi ultimi anni) e nuove pratiche. Sono riflessioni e analisi che Marco Revelli ha ampiamente presentato nel suo libro sul Novecento. Detto questo dire che si è contenti è una stupidaggine e il tuo livore è degno di miglior causa, anche perché il Pd è un partito di plastica con contenuti simili a quelli del Pdl e il fatto che una parte dell’elettorato di sinistra lo abbia votato dimostra come ancora l’antiberlusconismo sia portatore di una cultura arretrata e conservatrice.
Per me c’è ancora tanta sinistra diffusa ed è quella che va oltre le logiche astratte, politiciste e di appartenenza ma parte dalle questioni concrete. C’è molta più “sinistra” in un imprenditore agricolo che ha dismesso l’agricoltura intensiva e chimica per puntare sul biologico che in tanti circoli di “sinistra” che si parlano addosso. C’è molta più “sinistra” nei comitati che si battono contro i “mostri” dello sviluppo e della crescita che in cento sezioni di Rifondazione. Altro che antipolitica! La vera antipolitica è quella dei palazzi e del ceto politico autoreferenziale e oligarchico. Dei Veltroni (e dei Giordano e compagnia bella) incapaci di relazionarsi con i territori e le iniziative sociali, che aboliscono il conflitto sociale e le contraddizioni che attraversano la società. Che confondono il piccolo artigiano o il piccolo imprenditore con i Calearo e i Colaninno e continuano a rincorrere la destra sui suoi stessi valori di merda. Naturalmente quando parliamo dei territori dobbiamo essere consapevoli che c’è di tutto. Dalle ronde anti immigrati ai pogrom contro i rom. La Lega vi tira fuori il peggio, la “sinistra” dovrebbe valorizzarne il meglio. Ma inscenare danze anticomuniste mi sembra proprio assurdo e lo dice uno che come sai non è più “comunista” da più di 25 anni.
Piuttosto come rivista dovreste guardare più a certe esperienze e certi contenuti. Penso a tutto il discorso sulla decrescita (felice) e alle pratiche virtuose disseminate nei tanti piccoli comuni. Lì ci sono i presupposti per l’affermazione dell’altra politica e lì la sinistra può trovare i presupposti per nuove energie e nuova (auto)rappresentanza. I voti come sono usciti possono ritornare. Si tratta di capire su quali contenuti si chiede il consenso e con quali personaggi.
Senza presunzione non pochi di coloro che sono impegnati nel sociale e nei movimenti lo hanno capito da tempo. Speriamo che lo capiscano anche tutti coloro che in questi giorni sono storditi dalla batosta. Ma per favore smettila e smettetela con questa ossessione verso i “comunisti”, mi sembrate tanti berlusconini, e piuttosto occupatevi delle cose concrete.
Enzo Ferrara
Piccolo commento sulle elezioni: “Né Mussolini né Vittorio Emanuele hanno virtù di padroni, ma gli Italiani hanno bene animo di schiavi” (Piero Gobetti, 1922).
Marzia Bisognin
Non mi sento all’altezza dell’analisi se sia più o meno grave che una vera Sinistra non sieda in Parlamento, digiuna come sono di cultura comunista. In casa mia, famiglia di contadini, i comunisti non erano affatto amati, a dir poco. Quando poi sono diventata ragazza ho fatto parte di quel mondo che voleva vivere in modo “alternativo” e non ero interessata alla lotta di classe né agli operai. Le comuni, l’azzeramento dei consumi, i viaggi per incontrare società non contaminate dalla modernità, il cibo macrobiotico e altre spiritualità, allargare le menti con le droghe psichedeliche. Sono approdata al Movimento quando Lotta Continua si era già sciolta e anche i Compagni duri e puri si erano fatti sedurre dall’amore libero, dal riso integrale e a volte dall’eroina.
Ma oggi lavoro in un’azienda, la Fiera di Bologna, dove la Sinistra vera c’è eccome. Non che siano in tanti, ma riescono a incidere molto.
La Fiera è come un porto, solo che non c’è il mare: un quartiere molto grande, che in vent’anni è raddoppiato in modo piuttosto disorganico. Un continuo vai e vieni di operai (il settore è quello edile), che lavorano per pochi giorni, poi lasciano il posto ad altri e via così. Le ditte che lavorano spesso sono il sub-appalto di un sub-appalto, con lavoratori quasi sempre stranieri, magari senza contratto e senza permesso di soggiorno. Ci sono problemi di sicurezza enormi e gli incidenti sono frequenti.
In autunno un mio collega ha un incidente molto grave, si salva per un pelo. Così tutto il mormorio del “non si può andare avanti così” si compatta. Scioperi, documenti pieni di rabbia che trascinano i lavoratori a presidiare gli ingressi con i megafoni. I duri e puri hanno le facce truci, ma sotto sotto gongolano, è il loro set preferito. Se la Fiera (i padroni) non prenderà immediati provvedimenti per la tutela dei lavoratori, si rimarrà sul piede di guerra a oltranza. Per inciso, io lavoro in un settore legato alla Sicurezza, così la questione mi sta particolarmente a cuore. Bene, si apre un tavolo di trattativa tra i rappresentanti dei lavoratori, i sindacati confederali e la Fiera. Si tratta di cercare soluzioni efficaci e praticabili, e non è facile naturalmente. I comunisti duri e puri non si sono mai presentati al tavolo, nemmeno una volta, e a tutte le assemblee hanno continuato a tuonare contro i padroni stronzi e contro quei lavoratori “anime belle” che invece al tavolo si sono seduti e magari propongono di fare la propria parte. Applausi (la rabbia contro i padroni sfruttatori paga sempre) e il documento non riesce ad essere approvato, né vengono fatte proposte alternative.
Anche nel mio ufficio, dove di duri e puri ce ne sono, c’è resistenza al fare cose che possano darci una qualche responsabilità. A noi la responsabilità di lottare, ai padroni la responsabilità di tutelare la Sicurezza (non si sa con quali strumenti). Sono arrivata a pensare che ai rivoluzionari non gliene freghi poi tanto delle morti bianche, che anzi gli faccia più comodo così.
Un caro saluto a tutti.
Francesco Papafava
Cari amici, tutti siamo tributari della propria cultura e della propria età. E non ci siamo accorti che l’Italia era cambiata. Ma è proprio vero che sia cambiata? Non c’è invece da chiedersi se non sia stata una duplice benevola occasione concessa dalla provvidenza che Prodi ce l’abbia fatta negli ultimi 12 anni per due volte, malgrado il ciclone Berlusconi-Bossi, più Mafia-Camorra-’ndrangheta-Coronaunita? Ci ha pensato la sinistra (non quella togliattiana i cui eredi, assennati e innovativi, tutto sommato hanno retto), saccente, stolidamente conservatrice e con la testa e i piedi nelle nuvole (purtroppo anche nel Parlamento) a ricacciare il Paese nella sua tradizionale vocazione di destra eversiva; chissà per quanto tempo ancora; forse per sempre, almeno per quanto mi concerne. E così a tante chiacchiere ho aggiunto anche le mie. Perdonatemi!
Carlo Giunchi
L’ultimo intervento che ho letto (Sergio Sinigaglia) mi induce a intervenire. Per molto tempo, dopo la “politica”, dopo il “comunismo”, ho creduto in una sorta di rinnovamento della sinistra, che in qualche modo salvasse insieme all’idea stessa di sinistra, anche il mio, il nostro passato, o almeno ne fosse una forma di riscatto, e che costituisse un’opportunità per rimettersi di volta in volta in gioco. Niente di più sbagliato. Sono sempre stato troppo poco “anticomunista” per riuscire a credere in una nuova dimensione della sinistra. Ebbene, il quadro che descrive una “classe dirigente” della sinistra italiana, in tutte le sue versioni, distante dai cittadini, in tutte le loro versioni, oggi corrisponde esattamente alla realtà. Anch’io cito un’intervista sentita in televisione, nella quale un leghista rispondeva a chi gli chiedeva perché appoggiava un certo amministratore dicendo, non che aveva un buon programma, oppure che era un gran competente, o altro, ma semplicemente “...perché è uno di noi...”. A me è venuto da chiedermi da quanto la gente di sinistra non ha potuto dire dei propri amministratori “è uno di noi”, naturalmente in un’accezione distante dalla logica clientelare, al contrario molto diffusa. La “stanza dei bottoni” è proprio il mito sul quale una quasi inamovibile classe dirigente fonda la propria autoreferenzialità e così la “tecnocrazia”, sia nella versione statalista di Prodi che nella versione liberista di Bersani, fa i conti con tutto fuorché con la gente. Così il “risanamento economico” mentre invoca l’approvazione europea, sacralizza la sofferenza dei cittadini, costretti a cercare almeno qualcosa da difendere, qualcosa su cui decidere, anche se molto piccolo, anche se molto inutile (come il dialetto appunto). E tutto fa questa classe dirigente fuorché consentire l’esercizio di vere forme di partecipazione, rinnovando il proprio timore ossessivo che la gente, chiamata a decidere, faccia scelte sbagliate, contrapponendosi così alla possibilità stessa che la democrazia progredisca e costringendo i cittadini a concepire il rapporto con lo stato solo in termini di scontro. Il centralismo e l’autoritarismo la fanno davvero da padroni, non come circostanze residuali di una democrazia imperfetta, ma come lineare continuazione dello statalismo comunista. E in tal senso buona parte della classe dirigente di sinistra, nonostante l’esibita spregiudicatezza modernista, ne è paradossalmente la più coerente continuazione. Molti oggi dicono, nella sinistra, di non essere comunisti, ma quando Berlusconi nei suoi deliri dotati di particolare concretezza fa le sue accuse di comunismo, molti hanno dentro di loro quasi un sommesso sussulto di orgoglio. E molti dicono: “non comunisti” sì, ma “anticomunisti” no, svelando in tal modo un’ambiguità dalla quale ancora non si è usciti. Ebbene, in tal senso credo che il messaggio di Gianni sia chiaro e in buona parte condivisibile, soprattutto se induce a pensare che oggi non solo si può essere di sinistra senza essere comunisti, che non è una grande novità, ma soprattutto che forse non si può essere di sinistra se non si riesce anche ad essere anticomunisti. Concludo col proverbio secondo il quale “non tutto il male viene per nuocere”, non per la sua ovvietà consolatoria, ma perché oggi l’occasione per ripartire da capo forse c’è davvero, magari anche grazie ad esiti non voluti della proposta di Veltroni. Anch’io, passando un po’ per matto, insisto.
Liana Gavelli
Anch’io ho un po’ di rabbia, e molta confusione, come tanti, credo, in questi giorni, e le mie reazioni volano molto basso. Sono d’accordo sugli operai che ci hanno lasciato soli. A colpi di nostalgie, apparentemente rassicuranti quanto miopi e tetragone, cioè incapaci di capire cosa sta succedendo veramente, non si conquista nessuno e non si fa un passo in avanti, anzi si sparisce dal parlamento. Però mi viene un po’ da piangere a pensare che tanti operai e “la gente” in genere, si sono affezionati, e lo faranno sempre di più, ad un partito come la Lega, che non è esattamente un campione di apertura e che sta dando risposte piuttosto semplificate a problemi sempre più complessi.
L’immigrazione. Esempio terra terra: non voglio fare del buonismo semplificatorio, con tutti i problemi che ci sono. Ma è mai possibile che dopo vent’anni dall’arrivo dei primi stranieri in Italia, dobbiamo ancora sentire i discorsi sugli extracomunitari che non lavorano, che sono tutti delinquenti, che portano via le case popolari eccetera eccetera? Lo sento dire al mercato, nei negozi, dai vicini di casa di mia suocera (che hanno le badanti e magari una tradizione comunista). Non sarà anche perché, cominciando dai dirigenti leghisti e di An, si strumentalizzano i problemi invece che affrontarli davvero? La politica degli slogan è facile, ma dove porterà? Perché non proviamo ad immaginare cosa sarebbe una settimana di sciopero di tutti gli stranieri in Italia, dall’operaio del Nord Est all’ultima badante?
E questo solo per fare un discorso “utilitaristico”, senza le indispensabili riflessioni e implicazioni di tipo umanitario, politico e sociologico legate al fenomeno immigrazione.
Lasciamo perdere anche il discorso “Berlusconi ha le televisioni, eccetera eccetera”, però è innegabile che, vuoi per il tipo di cultura in genere, dallo spettacolo in su, che ha contraddistinto questi ultimi vent’anni, vuoi per la mancanza di qualcosa (poco importa se di destra, di centro o di sinistra) di alternativo a questo, c’è stata una mutazione antropologica e culturale delle persone che mi fa abbastanza paura.
Sarò esageratamente e banalmente minimalista, ma l’indifferenza, l’arroganza e la volgarità che caratterizzano sempre di più la vita di tutti i giorni, anche di tante persone “normali” e ben inserite, a cominciare dalle piccole cose: per strada, sull’autobus, a scuola, per arrivare alla prepotenza e alla violenza esercitate quasi con naturalezza, raccontano di una società in cui non ha perso solo la sinistra, ma in cui stiamo perdendo tutti la capacità di pensare, con un po’ di fiducia e di umanità, anche alle nostre responsabilità individuali per la costruzione di una convivenza civile che ci faccia vedere al di là del nostro naso, dei nostri figli, della nostra famiglia, di quelli che vediamo uguali a noi (e che quindi sono da trattare bene...). Domande: come si insegnano queste cose? da chi si imparano? Non c’entrano niente con le elezioni (quelle passate e quelle future)?
Pietro Del Zanna
Pur condividendo buona parte delle analisi fatte (io soffro da anni dentro ai verdi e il risultato di lunedì è, per me, una liberazione), molte altre cose che sono state dette e su cui mi auguro di trovare il tempo di tornare con calma (latouche-decrescita, comitati, agricoltura biologica ecc. ecc.), l’esultanza per la scomparsa dal parlamento dei verdi e il risentimento verso una classe dirigente che per qualcuno ha distrutto in pochi anni un intero movimento, devo ricordare che provvedimenti ecologisti importanti questo governo li ha fatti e li ha fatti grazie solo e soltanto ai verdi. Si tratta delle due ultime finanziarie e del conto energia per quanto riguarda il risparmio energetico e la diffusione delle energie rinnovabili. Tra qualche mese vedrete i pannelli fotovoltaici sui tetti anche in Italia, non ci fossero stati i verdi al governo chissà quanti anni ancora avreste dovuto aspettare. Non è la mia, ovviamente, una difesa di una classe dirigente che non apprezzo ormai da dieci anni. Ma la constatazione della necessità di una forza politica ecologista anche da un punto di vista prettamente pragmatico. Non piango certo per la scomparsa dei comunisti, nemmeno di questi verdi, ma mentre dei comunisti la storia non aveva più bisogno, l’ecologismo politico è e resta importante quanto l’aria che respiriamo. Veltroni, con il suo ambientalismo del sì, col suo spasimo per la crescita e la promessa di un nuovo boom economico anni ‘60, ha già spiegato quali sono i margini per un pensiero ecologista dentro il Pd. Consegnando il paese a Berlusconi ci apprestiamo a riaprire al nucleare.
C’è da ricominciare tutto daccapo. Se ne avremo il tempo (avete presente il figliol prodigo nel penultimo di Adriano Sofri?). Per chi se lo ricorda le liste verdi erano federaliste, territoriali, si parlava di bioregionalismo, valori d’uso. Dovremo prendere in mano Latouche, riprendere Langer, avere il coraggio di affrontare Illich (così che il conflitto tra valori e diritti non potrà che lacerarci, per poi scegliere per i diritti, ma con una consapevolezza che ci porta ad un atteggiamento meno dogmatico). Con un’ulteriore domanda: fosse finito non il comunismo, ma proprio la sinistra? Fino a ieri nella galera i galeotti ai remi avevano ragione di lottare per liberarsi dalle catene, ma oggi che nella nave c’è una falla spaventosa, è interesse di tutto l’equipaggio, timoniere compreso, liberare tutti dalle catene, per liberarsi dell’acqua imbarcata e provare a riparare la falla. Tra l’eterna lotta tra libertà e uguaglianza dovremo imparare a declinare politicamente la fraternità...
Francesco Ciafaloni
Sulle elezioni, dato che ho già suonato le campane a morto prima, non vorrei insistere.
Siccome sono abbastanza vecchio da avere vissuto con qualche sconcerto il ‘72, cioè la scomparsa dello Psiup e il fallimento del Manifesto -un milione di voti senza un solo parlamentare, lo sconquasso nel sindacato, i passaggi di casacca- posso dire che me lo sentivo nelle ossa. Allora votai Manifesto, che si aspettava di vincere, nel suo piccolo, pensando che non c’era la minima probabilità che ce la facesse. Ma non avevo trovato argomenti per dire di no in una discussione pubblica a Renato Solmi, che riteneva il voto agli antistalinisti, difensori di Praga, un obbligo morale, e mi sembrò vile fare diversamente nel segreto dell’urna.
La fine dello Psiup invece era probabilmente attesa da alcuni suoi dirigenti, che pensavano già al passaggio e aspettavano il voto per contrattarne il prezzo -politico si intende. Il voto invece decise che non c’era prezzo da pagare e che il passaggio sarebbe avvenuto per bande, alla spicciolata. Il tracollo non impedì che poi nascessero il Pdup e Dp, che, come il Psiup, erano una sinistra soprattutto socialista, e tutto il resto. Di totalitari, leninisti opportunisti, è pieno il Parlamento. Non solo i dirigenti del Pd ma anche, o soprattutto, quelli del Pdl. Non solo perché ci sono i fascisti, ma anche perché il Pdl è il punto di arrivo di molti comunisti -e socialisti craxiani- che pluralisti non erano.
Partiti nascono e partiti muoiono.
Il pericolo non sono le idee e i nomi -che sono sempre numerosi: ricorda il pollaio di Carlo Rosselli pieno di comunisti totalitari e comunisti libertari, socialisti rivoluzionari e riformisti, un popolare per salvare la razza, ecc.
Le idee reggono per secoli o millenni. I kharigiti di Gardaia, l’ala shiita estremista, vanno avanti da più di mille anni in mezzo al deserto; i valdesi vanno avanti da sette secoli. Il pericolo è la concentrazione in poche mani dei mezzi del dominio: i soldi, le armi, l’informazione. Il pericolo è che la disperazione culturale convinca i molti, poveri o rancorosi, a schierarsi con quei pochi contro un qualche nemico, esterno o interno. Per questo è verissimo che l’insicurezza dei poveri di qui è il pericolo maggiore che ci sia.
Il Vaticano II è morto, ma anche la democrazia non sta molto bene. Perciò ho trovato veramente macabra la dichiarazione di oggi -domenica 20- di Fassino sulla necessità di un colloquio con la Lega. Doveva pensarci prima a parlare con gli sfigati e con i rancorosi, non con Calderoli. I problemi locali dei “figli di un benessere minore”, diventati in venti anni forse più ricchi ma sempre scomodi e a rischio, sono un problema serissimo. Il modo di affrontarli chiedendo la derattizzazione dei rom, il piscio di porco sui terreni delle moschee, l’antislamismo in generale, sono l’esatto equivalente del nazismo, con la minore violenza imputabile alla mollezza dei tempi e all’età declinante di tutti.
Come negli anni Trenta in Europa, nel secondo dopoguerra in Argentina, negli anni ‘80 negli Stati Uniti, si è ripetuto lo scandalo che è la destra a rappresentare il basso; a proporre una soluzione politica irrealizzabile -perché gli immigrati non possono che aumentare- ma, come molte cose irrealizzabili, assai mobilitante.
Una osservazione minore.
Non credo che i partitini comunisti, o trotzkisti, siano elitari. Sono semplicemente funzionari isolati dal mondo, pubblici dipendenti senza sbocco, una casta minore. Non ci sono élites in un qualche senso in giro. Ci sono rendite di posizione, grandissime, grandi o minime. I giovani, intendo dire i e le trentenni, sembrano vivere nel vuoto. Non ricordano e non hanno letto nulla del passato; sembrano credere che il mondo sia abitato da americani, impiegati, più o meno ricchi o disperatamente poveri, ma sempre impiegati americani. Il fatto è che il mondo è molto più complicato di così e che il futuro non ci sorride.
Giorgio Bacchin
Di fronte alla globalizzazione senti l’inutilità di quasi duecento anni di lotte operaie, i bambini lavorano più di dieci ore come nella Londra di Dickens, i salari sono bassi, le condizioni di lavoro penose, il maggiore stato comunista del mondo ha scoperto il lavoro continuo, 24 ore su 24, “the chinese job”. Inoltre la sinistra italiana ha scoperto che anche i dannati della terra, i “santi migranti” per le anime belle della sinistra estrema, son degli esseri umani, anche loro ne combinano di tutti i colori, violentano, picchiano, rubano. Per la delusione una parte ha votato Lega.
Paolo Cardullo
La prima cosa che ho pensato dopo le elezioni, è stata che a rammaricarsi della scomparsa dei comunisti dal parlamento sia proprio il Berlusconi, che dello spettro comunista ha fatto la sua fortuna, ancora più che con le televisioni. Per quanto concerne i “compagni”, quelli son contenti: in fondo vanno per un’altra scissione, su chi è più savio e sfigato degli altri e chi può vantare di portare la falce e martello... la storia è ben nota, ricordo un’intervista a Lidia De Federicis su Una città 2006, in cui dice: “Le identità pietrificate sono pericolose, perché un’identità si costruisce sempre tirando su un muro, implica sempre l’esclusione”.
Fabrizio Tonello
I risultati elettorali hanno amplificato tendenze in atto da lungo tempo. Quanto è accaduto il 13-14 aprile può sorprendere solo chi non beve il caffè in un bar di paese, non ascolta le conversazioni in autobus, ignora cosa dicono i pendolari aspettando il treno, altrimenti si saprebbe che tra la gente la voce della sinistra era sparita. Il pullman di Veltroni riempiva gli schermi televisivi, e molte piazze, ma queste piccole onde alla superficie non toccavano il grosso dell’opinione pubblica. Ci si dimentica spesso che in Italia tutti i quotidiani insieme vendono circa 5 milioni di copie e circa 10 milioni sono gli spettatori di Tg1 e Tg5 messi insieme: tenendo conto delle sovrapposizioni (cioè di chi compra un quotidiano e ascolta un telegiornale) abbiamo circa dieci milioni di persone che più o meno seguono l’attualità e altri 37 milioni di adulti che non lo fanno. Questi 37 milioni come si orientano al momento del voto? Decidono sulla base delle loro esperienze quotidiane, di quello che sentono dire dagli amici, delle chiacchiere al bar. E qui la voce della sinistra era assente.
Perché? Non ci vuole molto a capirlo: nel parlamento che esce dal voto di aprile, il partito più antico è la Lega. Per la precisione, il partito “nazionale” più antico perché tra i partiti locali c’è la Svp sudtirolese, che fu fondata l’8 maggio 1945 e da allora è sempre stata rappresentata a Roma. Ma, spariti Pci e Psi, Dc e Pli, una semplice occhiata a congressi e statuti permette di scoprire che la Lega elesse i suoi primi parlamentari nel 1983, e Bossi nel 1987, mentre il Popolo della Libertà di Berlusconi è nato tre mesi fa (e il suo leader è in politica dal 1994), Alleanza Nazionale è scomparsa, e comunque era anch’essa una formazione figlia del terremoto politico del 1992-94.
Tutti i partiti di centro e di sinistra sono poi il frutto di varie metamorfosi, iniziate con la trasformazione del Pci in Pds nel 1991, la nascita di Rifondazione poco dopo, mentre i Verdi (fondati nel dicembre 1990) erano confluiti nel cartello Sinistra Arcobaleno, anch’esso una creatura con poche settimane di vita. L’Udc di Casini è un frammento delle varie scissioni e ricomposizioni postdemocristiane avviate anch’esse dopo Tangentopoli.
Il successo della Lega è frutto del non aver mutato sigla e identità negli ultimi vent’anni, dell’avere lo stesso leader, un gruppo dirigente omogeneo e motivato. Questo rassicura i militanti e gli elettori, che premiano la tenacia di persone che dicono le stesse cose senza cambiare alleanze, slogan e proposte di governo ogni sei mesi. Soprattutto, la stabilità politica leghista (immigrazione e criminalità come temi ossessivamente riproposti) ha permesso la crescita di una generazione di militanti, o di semplici simpatizzanti, che condividono la visione del mondo proposta inizialmente solo da Bossi e pochi fedelissimi: “Roma ladrona, basta tasse, via gli immigrati, padroni a casa nostra, dobbiamo difenderci”.
Il messaggio è efficace precisamente in quanto è semplificato, coerente nelle sue varie parti, facilmente comprensibile a chi vede il proprio lavoro sempre in balia di forze misteriose e incontrollabili (il mercato mondiale) e il proprio quartiere alterato nella sua composizione familiare dall’arrivo di facce nuove, spesso di colore di pelle diverso. A questo messaggio semplice, quasi sindacale, “difendiamo il nostro territorio”, il centro e la sinistra hanno opposto qualcosa di chiaro? Non pare. Il partito democratico, anche volendo ignorare le polemiche interne su laicità e valori “irrinunciabili” del cattolicesimo, offriva una qualche tutela ai ceti deboli? Proponeva misure concrete per far scendere i prezzi, aumentare i salari, tutelare i pensionati che lo avevano votato? Al contrario, il messaggio ossessivamente ribadito da Prodi, Padoa Schioppa e Bersani era: “Risanamento dei conti pubblici, più tasse, più liberalizzazioni”.
Che poi le liberalizzazioni si arenassero sulla rivolta dei tassisti e le privatizzazioni delle municipalizzate abbiano fatto aumentare le bollette non erano temi di cui il governo, o Veltroni in campagna elettorale, amassero ricordare.
Il problema del partito democratico, che ha in realtà perso voti verso l’astensione e la Lega, tenendo le posizioni del 2006 solo grazie al dissanguarsi della Sinistra Arcobaleno, è che non ha idee di fondo, convinzioni radicate, una ideologia. Al contrario si vanta di essere leggero, pragmatico, moderno, per far dimenticare che il nucleo duro del suo gruppo dirigente viene dall’ex Pci. Io non condivido affatto l’ostilità o il disprezzo verso D’Alema e Veltroni, ma devo constatare che hanno passato gli ultimi 19 anni a cercare di far dimenticare di essere stati comunisti. In questo, hanno adottato un entusiasmo da neofiti per il mercato e le liberalizzazioni, vagamente compensato da una difesa dello status quo per i dipendenti pubblici e i contratti sottoscritti dalla Cgil. Poiché disponevano comunque di un savoir faire politico che ai seguaci di Berlusconi spesso mancava, sono vissuti di questo per quasi vent’anni, proponendosi almeno due volte con successo come alternativa a un personaggio detestato da metà degli italiani. Ma alla lunga la loro afasia, cioè il non avere quasi nulla da dire su temi cruciali per il Paese perché timorosi di essere accusati di “statalismo” o di “gestione allegra” della finanza pubblica li ha paralizzati nel rapporto con gli elettori.
Quando i dirigenti non parlano (o chiacchierano di regole, prima la riforma elettorale, ora il “Partito del Nord) i militanti al bar tacciono e lasciano a Tremonti o ai leghisti il ruolo di “difensori” degli operai o dei pensionati.
E’ quando i migliori “mancano di ogni convinzione”, come scriveva Yeats, che l’Apocalisse è vicina.
discussioni
Una Città n° 155 / 2008 Aprile
Articolo di Gianni Saporetti e altri
13 APRILE 2008
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