Ehud Gol, già ambasciatore d’Israele in Italia, il 18 febbraio era a Roma per la presentazione di un suo libro sull’esperienza diplomatica in Italia. Intervistato da Anna Florino così ha risposto: “Trattare è giusto, inevitabile, necessario. -Con chi?- Non certo con Hamas, sono terroristi. Lo sanno tutti. Il mondo occidentale lo ha stabilito. E con i terroristi non c’è parola utile. Bastano le armi. -E allora con chi?- Coi moderati, coi palestinesi che vogliono la pace. Abbiamo lo stesso sogno” (Il Tempo, 6/3/08). Geniali risposte di un diplomatico! E se le armi non bastassero? E se i moderati “desiderosi di pace” non fossero disponibili a sottoscrivere la colonizzazione e la frammentazione del West Bank?
C’è invece da chiedersi com’è che Israele si sia cacciato in una guerra asimmetrica senza la prospettiva di una soluzione positiva. Una impasse dalla quale la diplomazia egiziana cerca di trarla d’impaccio. Ammesso che di impasse si tratti e non dell’opzione per una guerra a bassa intensità, preferibile a un accordo.
Quando ancora fuochi sporadici seguivano la conclusione (3/3/08) dell’Operazione Horf Ham (‘Inverno caldo’) con la quale l’esercito israeliano (Idf) s’era proposto, invano, invadendo per cinque giorni la Striscia di Gaza, di annientare le basi di lancio dei missili, il 12 marzo, Gideon Meir, ambasciatore israeliano a Roma, dichiarava all’Ansa: “Chi ci invita ad aprire trattative con Hams in effetti ci invita a negoziare sulle misure della nostra bara”. Reagiva all’opinione di D’Alema, espressa a SkyTg24, d’essere necessarie trattative con Hamas.
E’ insensato che il ministro degli Esteri faccia nel corso di una intervista televisiva dichiarazioni di tanto peso. E’ presumibile che D’Alema fosse al corrente che una trattativa fra Israele e Hamas, per iniziativa di Hosni Mubarak e pilotata da Omar Suleiman, capo dell’Intelligent egiziana, era in corso dai giorni della conclusione dell’Operazione Horf Ham (ovvio che Meir ne fosse a conoscenza). Un’iniziativa divulgata da Haaretz del 17 marzo, pubblicamente approvata da Abu Mazen, perché anche finalizzata a un riavvicinamento fra l’Autorità Palestinese e Hamas. Cosa ci sarebbe andato a fare al Cairo Amos Gilad, alto funzionario del ministero della Difesa israeliano, mentre nella capitale egiziana erano presenti delegazioni di Hamas e della Jihad? Haaretz pubblica gli estremi di un accordo in fieri che, salvando la faccia alle parti in causa, Suleiman si proporrebbe di esporre a Gerusalemme, con l’avvallo della Segreteria di Stato (Condoleeza Rice al Cairo il 4 marzo): frontiera transitabile a Rafah fra la Striscia e l’Egitto, cessazione contestuale del lancio dei razzi dalla Striscia e delle esecuzioni mirate israeliane.
Una impasse (o opzione per un conflitto a bassa intensità) radicata nel passato di Israele. E’ noto che molte sono le motivazioni politiche, ideologiche e ideali che fin dalle sue origini sono confluite nel sionismo. Tuttavia la tendenza egemone che è emersa durante lo sviluppo dello Yishuv (la comunità ebraica in Palestina) si è espressa, con Ben Gurion e un gruppo ristretto di personalità culturalmente conformi, nelle gestioni della Agenzia Ebraica (il governo dello Yishuv) e dello Histadrut (il sindacato operaio). Gestioni finalizzate alla fondazione dello Stato e coronate da un successo senza precedenti. Meno di settanta anni corrono fra la primavera del 1882, data della prima immigrazione organizzata di sionisti -una sessantina di ucraini- in Palestina, e la Dichiarazione d’Indipendenza d’Israele (14/5/48). Una tendenza egemone fondata sulla esclusiva autonomia del lavoro e delle imprese economiche ebraiche, sulla base di acquisizioni di terre e della immigrazione di ebrei, col proposito di invertire il rapporto demografico ebrei-arabi, agli inizi del Novecento meno del 10% - più del 90% (55.000 contro 556.000).
Occorre anche rammentare che l’elite araba di Palestina non ...[continua]
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