11 maggio 2013. Il dividendo demografico
Presto l’India avrà un quinto della popolazione mondiale in età da lavoro. Il punto è: cosa se ne farà? L’"Economist” dedica un lungo articolo alla questione, partendo da una grande impresa indiana, Frontline, a suo modo emblematica dei rischi che corre questo paese. Frontline, fondata a Patna, la capitale del Bihar, ha 86.000 lavoratori a libro paga: quasi tutti senza alcuna qualifica. Per il lavoro che fanno non serve: fanno le guardie di sicurezza. Oggi in India milioni di giovani uomini in uniforme siedono annoiati davanti a edifici e negozi mentre il miracolo economico gli passa davanti, commenta l’"Economist”. Non è infatti così che l’Asia si è arricchita, ma con la manifattura.
È dagli anni Novanta che si parla del "dividendo demografico” dell’India, ma oggi aumentano gli analisti che paventano una drammatica dissipazione di questo patrimonio, tanto più che i tassi di crescita sono già in calo rispetto all’inizio degli anni Duemila. Tra l’altro, la combinazione di crescita lenta e esplosione demografica rischia di essere anche politicamente destabilizzante. I governanti ora iniziano a essere preoccupati, ma il rischio è che sia troppo tardi. Mentre la Cina ha subito messo tutti al lavoro, l’India per tutti questi anni ha preferito adottare politiche assistenzialiste per i più poveri, senza puntare sulla crescita di posti di lavoro minimamente qualificati. Nei prossimi dieci anni la popolazione in età da lavoro (15-64 anni) crescerà di 125 milioni di persone e la decade successiva di altri 103 milioni. Non tutti entreranno nel mercato del lavoro, alcuni continueranno a studiare, poi ci sono le donne che per due terzi non lavorano. Certo è che bisognerà creare almeno 100 milioni di nuovi posti di lavoro. Tra il 2002 e il 2012 la Cina ne ha creati 130 milioni. In India invece è successo che i programmi di sostegno pubblico abbiano addirittura fatto sì che qualcuno (soprattutto donne) lasciasse il lavoro. C’è poi il problema dei giovani più formati: solo la metà viene assorbita dal mercato. D’altra parte, l’85% dei lavori sono in imprese "informali” o comunque temporanei. Solo il 16% degli indiani riceve un salario regolare. Il problema, di nuovo, non è la quantità, ma la qualità del lavoro. Per dire, solo qualche milione di lavoratori è impiegato nelle Tecnologie dell’informazione e della comunicazione, su una popolazione di mezzo miliardo.
Insomma, l’orizzonte non è sereno. In India non si vede la determinazione che ha fatto esplodere Corea del Sud, Taiwan e Cina. Altro che dividendo demografico, le probabilità che tutto finisca in uno spreco colossale sono altissime. Purtroppo perché qualcosa cambi bisognerebbe che cambiasse la testa dei politici e di chi conta, ma qui la religione e il mix di cultura gerarchica, politiche populiste e strutture familiari, se da un lato assicurano una certa stabilità, sul piano della crescita sicuramente non aiutano.
(economist.com)
14 maggio 2013. Dopo Rana Plaza
Nell’edizione asiatica del "Wall Street Journal” oggi viene data la notizia che da ora in avanti in Bangladesh i lavoratori potranno organizzarsi in sindacati anche senza il permesso del padrone. Evidentemente prima non potevano.
L’incidente del 24 aprile, con il crollo del Rana Plaza, un edificio di otto piani, ha posto il paese di fronte a una situazione non più tollerabile. Lunedì è stato il primo giorno in cui non si sono trovati corpi. Il conto intanto è arrivato a 1.127 morti. Il primo ministro la scorsa settimana ha fatto chiudere diciotto fabbriche per motivi di sicurezza e ha programmato ispezioni in altre cinquemila. I lavoratori e le associazioni di tutela dei diritti dei lavoratori restano perplessi. In passato buone leggi sono rimaste inapplicate. Si inizia a parlare anche di rudimentali forme di welfare per i lavoratori. Hennes & Mauritz, la famosa H&M, l’azienda di abbigliamento che più di altre si rifornisce in Bangladesh, ha salutato con favore la possibilità dei lavoratori di organizzarsi con degli organi di rappresentanza. Ha affermato di essere favorevole anche a un aumento delle paghe minime, come proposto ieri sul "Guardian” dal Premio Nobel Yunus. (wsj.com)
14 maggio 2013. L’austerità che uccide
è dal diciannovesimo secolo che si studia la correlazione tra disoccupazione e suicidi. David Stuckler, sociologo, e Sanjay Basu, epidemiologo, autori di una ricerca sulla questione, hanno pubblicato sull’"International Herald Tribune” un articolo in cui spiegano che più della crisi economica sono le politiche fiscali a incidere sulla vita (e sulla morte) delle persone. Lo spunto è proprio il triplice suicidio avvenuto a Civitanova Marche lo scorso mese. La tesi dei due autori è che la crisi economica di per sé non è necessariamente un fattore di aumento dei suicidi. Per esemplificare la loro idea prendono in considerazione due casi, la Grecia, dove si è deciso di tagliare drasticamente lo Stato Sociale, e l’Islanda, dove invece l’austerità è stata messa ai voti con due referendum e si è infine scelto di pagare i propri debiti gradualmente. Oggi, la Grecia, dopo aver tagliato la sanità del 40% (35.000 tra medici e operatori sanitari licenziati) è sull’orlo del collasso: è aumentata la mortalità infantile, si sono raddoppiate le infezioni da Hiv e nel Sud del paese è tornata la malaria. In Islanda invece l’economia è in ripresa. In mezzo ai due estremi ci sono gli Stati Uniti, dove tra il 2007 e il 2010 si è comunque registrato un "eccesso” di suicidi (rispetto ai tassi fisiologici) di 4.750 casi. A riprova che è l’austerità, e non la crisi, a uccidere, gli autori prendono in considerazione anche le scelte compiute dai paesi dell’ex blocco sovietico. Anche qui, mentre in Russia, Kazakhstan e negli Stati Baltici, dove è stata adottata una ‘‘shock therapy’’, si è assistito a un aumento dei tassi di suicidi, infarti e malattie legate all’abuso di alcol, in paesi come la Bielorussia, la Polonia e la Slovenia, dove è prevalso l’approccio "gradualista”, non si sono visti questi effetti.
I due studiosi hanno calcolato che un dollaro investito in programmi di salute pubblica può produrre tre dollari in crescita economica. Ecco allora tre principi che dovrebbero guidare una risposta adeguata alla crisi economica: primo, non far del danno (che vuol dire che se l’austerità "fa male” bisogna prendere provvedimenti); secondo: trattare la disoccupazione come si tratta una pandemia. La disoccupazione è causa di depressione, ansia, alcolismo e pensieri suicidi. In Svezia e Finlandia, in tempi di recessione, hanno lavorato proprio sulle politiche attive del lavoro cercando di intervenire tempestivamente appena qualcuno rimane senza lavoro. E terzo, per quanto paia controintuitivo, in tempi duri è bene investire nella salute pubblica.
16 maggio 2013. Pensionati e gioco d’azzardo
Il segretario regionale dei Pensionati Cisl dell’Emilia Romagna ha lanciato un allarme sul ricorso al gioco d’azzardo dei pensionati. La situazione è preoccupante perché a giocare pare siano soprattutto i pensionati con gli assegni più poveri (sotto i 700 euro). In regione la spesa per il gioco d’azzardo è pari a 6,339 miliardi di euro, vale a dire 1.840 euro per ogni cittadino maggiorenne. L’incremento maggiore dei giocatori è tra le donne di 55-64 anni, passate dal 21% del 2008 al 45% nel 2011, e tra gli uomini di 45-54 anni (dal 51 al 61%). La nota più triste è la recente scoperta che molti anziani si mettono a giocare per aiutare i figli disoccupati.
20 maggio 2013. Wikipedia e le donne
Sulla "New York Review of Books”, James Gleick dedica un lungo pezzo al "problema di Wikipedia con le donne”. La vicenda narrata in effetti è preoccupante: pare che centinaia di romanziere siano state improvvisamente tolte dalla categoria "romanzieri americani” per essere ricollocate in quella di "romanzieri americani donne” (American women novelists).
Amanda Filipacchi, scrittrice, quando se n’è accorta, ha scritto un pezzo infuriato sul sito del "New York Times”. Girando per il web si era accorta che le donne stavano via via (pare in ordine alfabetico) scomparendo dalla categoria "American novelists”. La lettera A e B erano già composte di soli nomi maschili.
Difficile non parlare di sessismo. Quando la notizia è uscita, Jimmy Wales, co-fondatore di Wikipedia, che è una sorta di "noninterventionist god” ("un dio non interventista”), ha chiesto spiegazioni sulla sua pagina: "È davvero successo questo? Com’è successo?”.
Da tempo si discute sul fatto che Wikipedia rischia di essere un "club di soli uomini” (la maggior parte degli utenti sono maschi -"e si vede”, commenta qualcuno).
Comunque, alla fine, si è scovato il colpevole: John Pack Lambert, un trentenne di Detroit, studioso di storia, veterano di Wikipedia e ossessionato con le categorie!
In realtà, il problema sollevato dalla Filipacchi, e cioè che in tutte le categorie le donne (ma anche i non bianchi) siano relegate in una loro sottocategoria è tutt’altro che nuovo. Quando si scompone una categoria in sottocategorie si usa il termine "diffuse”. Il problema è che qui a essere "diffuse” sono solo le donne. Un utente a un certo punto ha provocatoriamente creato una sottocategoria: "American men novelist”. Peccato che tra i primi due inseriti ci fosse P. D. Cacek, cioè Patricia Diana Joy Anne Cacek.
Il dibattito resta aperto.
(nybooks.com)
20 maggio 2013. Condòmini morosi
Le associazioni degli amministratori segnalano che il tasso dei condòmini morosi, tradizionalmente del 10%, è arrivata ormai al 20%. Da una parte c’è la crisi, infatti a non pagare oggi sono anche piccoli imprenditori e artigiani. È colpito anche il ceto medio: i debiti condominiali sono presenti anche in quartieri prestigiosi, come i Parioli a Roma, San Babila a Milano o Posillipo a Napoli. Paradossalmente vanno meglio i pensionati, il cui reddito è comunque costante. La morosità è agevolata anche da un fattore tecnico: il recupero coattivo delle spese condominiali è molto lungo e difficile, per cui molti preferiscono dare la precedenza a mutuo e altre rate, lasciando queste per ultime. Dall’altra parte, però, c’è chi indubbiamente approfitta della crisi per non pagare, anche se potrebbe.
(sole24ore.com)
29 maggio 2013. Scuole libere
Fondata a Leiston, Suffolk, nel 1927 da Alexander Sutherland Neill e oggi guidata dalla figlia Readhead, Summerhill è una scuola molto speciale. Ancora oggi i ragazzi possono saltare tutte le lezioni che vogliono e tutte le decisioni vengono prese democraticamente nei "Meeting”, dove il voto di un bambino di cinque anni ha lo stesso valore di quello del preside. Negli anni Settanta le cosiddette "free school” sorsero come funghi nel Regno Unito, ma poche sono sopravvissute.
Nella stessa Summerhill, oggi metà dei 68 studenti vengono dall’estero. D’altronde, con delle tasse che ammontano dalle 3.000 alle 5.000 sterline non è proprio alla portata di tutti. Readhead però non ha dubbi: non vuole che la sua scuola sia finanziata dal governo che poi, casomai, vuole dettare legge sull’organizzazione dei gabinetti (il fatto che non ci siano bagni separati per insegnanti e studenti qualche anno fa stava per causarne la chiusura). Infatti non le piace che si chiamino "free school” anche le scuole in sperimentazione da un paio d’anni, scuole libere messe in piedi da insegnanti o genitori e però con soldi pubblici. Per distinguersi, ha deciso di definire la propria scuola non "free”, ma "democratic”. In effetti la scuola non funziona in modo anarchico. Anzi, il modo di insegnare è piuttosto all’antica. Readhead spiega che siccome i ragazzini vanno in classe solo quando lo decidono, a quel punto ci vanno per imparare.
Ovviamente le contraddizioni non mancano. Qualcuno si interroga su come stanno assieme l’anelito democratico e il fatto che la scuola è in mano alla stessa famiglia ormai da tre generazioni. Su una cosa comunque Readhead non ha accettato compromessi rispetto all’insegnamento del padre: che i bambini non vanno valutati con sistemi standard e che non vanno fatte loro pressioni. Gli ultimi ispettori hanno espresso un buon giudizio sul livello di formazione e sul comportamento di questi ragazzini, però non si sa fino a quando lo Stato permetterà che gli studenti di Summerhill non siano sottoposti ai test.
(guardian.co.uk)
30 maggio 2013. L’aldilà digitale
Cosa succederà dei nostri dati, delle foto e dei video caricati in rete quando non ci saremo più? È da un po’ che se ne parla. Anne Eisenberg vi ha dedicato un articolo sull’"International Herald Tribune” raccontando di come Google si sia ora attrezzato per permettere a chi usa i suoi servizi di esprimere le proprie ultime volontà rispetto ai dati digitali.
Da aprile esiste un programma che si chiama "Inactive Account Manager” (gestione account inattivo). Grazie ad esso, puoi informare Google su chi contattare quando il tuo account verrà disattivato (fino a dieci nomi). Puoi anche decidere quando far chiudere l’account (per esempio, dopo tre, sei mesi o un anno di "silenzio elettronico”).
Un mese prima di chiudere tutto, Google fa un ultimo tentativo contattando l’interessato via mail per sicurezza. In assenza di risposte scriverà ai nomi indicati fornendo un link da cui scaricare foto, video e altri documenti. Si può anche dare indicazioni affinché tutto sia semplicemente cancellato.
Esistono altri servizi che stoccano dati, ma anche password, come SecureSafe. Resta il fatto che quando si tratta delle proprie disposizioni ultime è diventato indispensabile individuare anche la persona che dovrà occuparsi dei nostri dati digitali. Tale "esecutore” dovrà essere una persona un po’ capace, perché ci sarà da sistemare la propria presenza sui social network, ma anche le carte di credito registrate nei negozi online, l’account di paypal, ecc.
Naomi Cahn, docente alla George Washington University Law School, spiega che non c’è tempo da perdere: il momento giusto per iniziare a preoccuparsi del nostro aldilà digitale è adesso. (iht.com)
31 maggio 2013. Sindrome da deficit d’attenzione e iperattività
È stato nel 1902 che un pediatra inglese, George Frederic Still, ha descritto quella che noi oggi chiamiamo Adhd (Attention deficit-hyperactivity disorder ) e, tuttavia, a distanza di oltre un secolo, la diagnosi e il trattamento di questa sindrome restano quanto mai controversi.
Che ci sia una sovradiagnosi di questo disturbo, favorita dall’industria farmaceutica, è opinione diffusa. Ora però qualcuno inizia a chiedersi se a far problema non sia invece la mancanza di presa in carico di chi ne soffre davvero. Certo è che fino a che non si capisce quanti bambini hanno questo disturbo è difficile dire se ci siano troppe o troppe poche diagnosi.
Il Dsm IV, il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, individua tre gruppi di indicatori per l’Adhd: mancanza di attenzione, iperattività e impulsività. Un bambino deve mostrare almeno sei dei nove sintomi segnalati per almeno sei mesi. Inoltre, alcuni problemi devono manifestarsi prima dei sette anni. Gli studi suggeriscono che circa il 5% dei bambini in età scolare è affetto da questi disturbi. Il sospetto è che molti medici nel diagnosticare tale sindrome non si attengano alle direttive. In uno studio condotto nel 1993 solo il 22% dei ragazzini con questa diagnosi soddisfaceva i criteri stabiliti. Poi c’è il problema dei farmaci. Nel 1944 Lean-dro Panizzon, che lavorava per Ciba (predecessore di Novartis) sintetizzò uno stimolante, il Ritalin, così chiamato in omaggio alla moglie Margherita (Rita), che assieme a Adderall, Concerta e Vyvanse fa parte dei trattamenti standard. Anche Strattera, un non stimolante, è piuttosto usato. In genere questi farmaci ottengono dei risultati, ma gli effetti collaterali, come insonnia e perdita di peso, possono essere pesanti. Il dato curioso è che a fronte di un utilizzo scriteriato ed eccessivo dei farmaci, in base ai dati raccolti risulta che una quota di bambini veramente ammalati invece non è trattato.
La nuova edizione del manuale diagnostico, il Dsm-V, prevede un numero inferiore di sintomi per diagnosticare il disturbo. Gli scettici temono che questo porterà a un aumento delle false diagnosi. (www.scientificamerican.com)
31 maggio 2013. Un’epidemia silenziosa
Ruth Moore aveva 18 anni quando venne violentata dal suo supervisore. Ne sono passati 23 prima che il Department of Veterans Affairs riconoscesse il fatto. Ora è stato proposto al Congresso un disegno di legge per evitare che accada di nuovo. Si tratta del "Ruth Moore Act 2013”.
Il magazine di "Le Monde” questa settimana dedica un lungo articolo a quella che definisce una "epidemia silenziosa”, cioè lo stupro all’interno dell’esercito americano. Oggi Ruth ha 44 anni e riceverà un’indennità per il trauma subìto.
Nel 2012, 26.000 soldati -uomini e donne- hanno denunciato un "contatto sessuale indesiderato”. Ma non tutti gli abusi vengono segnalati. Si stima che fino al 30% delle circa 204.700 donne in forza all’esercito degli Stati Uniti (il 14,5% degli effettivi) siano state vittime di violenza sessuale. Ma neanche gli uomini sono risparmiati: rappresentano quasi il 50% dei veterani che hanno subìto traumi da violenza sessuale. Le donne più a rischio sono quelle dispiegate in Iraq e Afghanistan.
Secondo il Department of Veterans Affairs, la metà di loro è vittima di molestie sessuali e un quarto di stupro. Servendo in uno di questi paesi, una donna ha più probabilità di essere violentata da un commilitone che ferita o uccisa dal nemico. (monde.fr)
1 giugno 2013. Anche i gay nei boy scout
Quando Robert Baden-Powell, fondatore degli scout, scrisse il giuramento, la "promessa”, nel 1908, non c’era l’impegno a essere "moralmente retti”. Si è trattato di un’aggiunta successiva nella versione americana. Finora, proprio quell'ambigua espressione era stata usata per bandire i giovani omosessuali dal movimento scout.
Ora la crescente tolleranza verso l’omosessualità ha reso più evidente l’intolleranza dei boy scout. Durante l’ultima campagna elettorale sia Barack Obama che Mitt Romney hanno invitato a togliere quel divieto. Contemporaneamente Intel, Merck e Ups hanno ritirato la loro sponsorizzazione proprio per quel bando.
E così, finalmente, dato il gran baccano, all’ultimo incontro annuale, lo scorso maggio, i boy scout hanno deciso di accogliere (a partire però dal prossimo anno) anche i ragazzini omosessuali. Dal 1972, l’anno di picco, quando c’erano 2,7 milioni di scout nel mondo, oggi il numero si è dimezzato. Oltre agli scandali sugli abusi e all’incapacità di includere le minoranze, anche la chiusura sui gay era motivo di presa di distanza. Il bando comunque non è caduto del tutto: saranno accolti i ragazzi, ma non i capi-scout omosessuali, insomma per i gay, la carriera scout è destinata a concludersi ai 18 anni.
(economist.com)
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