Augusto Illuminati insegna Storia della filosofia politica all’Università di Urbino.

Nei suoi studi recenti si è occupato dei conflitti sociali nella metropoli contemporanea. Ce ne può parlare?
Intanto, parlando di metropoli si devono intendere le grandi metropoli occidentali. Nel senso che le grandi città del mondo, quelle che hanno più di dieci milioni di abitanti, in genere stanno nel terzo mondo e sono spesso agglomerati informi di gente concentrata lì per la maggiore possibilità di sopravvivenza. Non c’è una crescita organica della città, sono un immenso ammucchiamento di popolazioni che cercano di sfuggire alla condizione di morti di fame.
Il mio discorso è pensato sulle metropoli dell’Europa e dell’America di cui si può ricostruire una storia e quindi possono essere significative dal punto di vista dell’analisi dei conflitti sociali.
Che si può dire? Intanto che, in una situazione in cui le classi non sono definite e visibili come soggetti pieni, le città sono il luogo dove più si leggono i conflitti di classe nelle forme attuali, che sono frammentate. Nella città, cioè, noi vediamo in modo chiaro quella che Balibar chiama “la lotta di classe senza classe”: un’estrema proliferazione dei gruppi, lo spostamento della lotta al controllo del territorio, la localizzazione territoriale degli schieramenti, con una classe oppressa formata dagli abitanti di un ghetto e quindi precisamente individuata e circondata dagli altri. E infatti molto spesso le lotte si manifestano in forme territoriali: difesa del proprio ghetto dall’invasione o degli altri o dell’apparato dello stato, straripamento del ghetto in quartieri vicini come forma di lotta, controllo delle strade all’interno stesso del ghetto. Quella tipologia, cioè, che la rivolta di Los Angeles ha mostrato: non più una classe con un ruolo sociale che vuole conquistare il potere, ma semplicemente l’arroccamento in un ghetto senza neanche più la forza di uscirne. Nel caso di Los Angeles c’è anche un’impossibilità fisica emblematica: se non puoi fare 50 chilometri sotto gli elicotteri della polizia per arrivare a Beverly Hills difendi il ghetto, all’interno del ghetto la banda difende la strada, e così via.
E’ veramente una metafora molto efficace di una lotta di classe moderna, profondamente diversa da quella classica, quella che abbiamo studiato sui libri, e anche da quella di cui abbiamo visto gli ultimi bagliori. In questa il fattore temporale aveva una grande importanza: l’idea di richiamarsi a un passato della propria classe, di avere un futuro da costruire. Se prendiamo sempre l’esempio di Los Angeles, i protagonisti della rivolta non hanno assolutamente nessuna memoria del passato: né di un passato americano, né di un passato di Los Angeles, né del loro passato cicano, coreano o afroamericano. E se qualche cosa del genere c’è, è puramente retorica. E poi, cosa ancora più drammatica, non hanno assolutamente nessun futuro da costruire, cioè nessuna proposta consapevole di organizzazione, anche se qualcuno volonterosamente ha cercato di proporre dei programmi di vivibilità nel presente, più ancora che per il futuro. La parola d’ordine punk no future, nessun avvenire, con un atteggiamento nichilistico, esprimeva un dato più generale.
D’altra parte questo sembra vero anche per altre lotte, come quella dei giovani francesi: non c’è alcuna continuità col passato. Non dico per esempio di ricordarsi della Comune di Parigi, ma è evidente che ignorano tranquillamente anche il maggio del ’68. La cosa è curiosa perché ripercorrono gli stessi itinerari, combattono nelle stesse vie, spaccano le stesse vetrine che furono spaccate nel ’68, ma non lo sanno, forse lo sanno i proprietari dei negozi se hanno il negozio da un po’ di tempo.
Il caso americano, poi, è ancora più significativo perché avviene in una città alla Blade Runner, dove abbiamo una pluralità di comunità etniche e le lotte, spesso, prendono la forma dello scontro interrazziale. A Los Angeles il primo obiettivo non è stato il potere bianco che stava sulle colline e nei canyon intorno alla città, ma i coreani, perché i coreani stavano nei loro quartieri. Questo fa vedere proprio il carattere ravvicinato, senza prospettive, non strategico, delle lotte, che non si volgono direttamente contro il potere, ma passano in primo luogo attraverso scontri etnici fra neri ed ebrei, o neri e italo-americani a New York, tra messicani e neri insieme contro gli asiatici a Los Angeles. Questo tipo ...[continua]

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