Quando arrivi a Jungbusch hai l’impressione che sia un posto abbastanza piccolo, raccolto, ma di fatto questa situazione di raccoglimento non c’è: se tu entri nel quartiere e cominci a vivere lì ti rendi conto che le cose sono molto dispersive, che le varie nazionalità non hanno contatto tra di loro e ci sono vere e proprie nicchie di appartenenza.
A Jungbusch c’è il Gemeinschaft Zentrum, letteralmente "centro di comunità", finanziato dal Comune di Mannheim, dalla Chiesa Evangelica e dalla Chiesa Cattolica, e va avanti con donazioni e elargizioni. Da due anni in questo centro c’è un nuovo direttore, abbastanza giovane, che si rende conto dei problemi di fondo, per cui cerca di fare progetti rivolti soprattutto ai giovani e ai bambini. A Jungbusch c’è già un consultorio familiare, che funziona bene, c’è la sede di un’Associazione turca, poi c’è la Jugendinitiative, che raccoglie tutti i ragazzi del quartiere. In teoria dovrebbe funzionare come luogo di incontro di diverse culture, ma, purtroppo, non è facile perché di fatto ognuno crea la propria nicchia e si chiude dentro.
Fra l’altro ci sono situazioni di intolleranza e di razzismo grandissime. Guardando, per esempio, le piccole bande di questo quartiere, compresi i ragazzi con cui ho lavorato, il turco viene accettato solo se all’interno del gruppo ha un ruolo che è di supremazia, perché è più forte, perché è un dritto, magari perché ha dei piccoli giri di droga e permette agli altri di fumare gratis, ma non perché in realtà ci sia la voglia di conoscersi e stare insieme...
Gli obiettivi di innovazione del Zentrum sono di creare occasioni di incontro, di lavoro insieme nel tempo libero. Ma è molto difficile. Il mio progetto è nato da un incontro tra il direttore del centro e la psicologa Maura Lucci che conosceva le mie esperienze in Italia, le situazioni in cui ho lavorato: i tossicodipendenti, l’esperienza al manicomio di Imola, i bambini handicappati e così via. Ho scritto un progetto, che è stato accolto bene, e siamo partiti. Il progetto è stato presentato ai ragazzi come un laboratorio teatrale basato su tecniche d’mprovvisazione e finalizzato alla rappresentazione di uno spettacolo. Così i ragazzi hanno la "scusa" di fare teatro per mettere in scena uno spettacolo, imparando quindi tecniche teatrali, mentre noi cerchiamo di usare il teatro per cercare un filo di comunicazione e creare un ponte tra noi e loro, ma soprattutto fra di loro. Il direttore era un po’ perplesso perché il teatro non era mai entrato al Zentrum, però istintivamente si è fidato, ha pensato che il teatro fosse uno strumento da verificare. Ma non aveva idea di che cosa avrei fatto.
Ci sono state molte iscrizioni, in maggioranza di turchi e italiani. L’età dei ragazzi andava dai 15 ai 20 anni ed erano in prevalenza maschi, solo un terzo erano ragazze. Di questi ragazzi nessuno ha un lavoro, vanno a scuola, ma in realtà sono solo iscritti, frequentano poco, qualcuno fa dei lavoretti.
Dopo un certo periodo nel quale l’obbiettivo era conoscerci, c’è stata un’autoemarginazione dei turchi, per cui, alla fine, ho lavorato soprattutto coi ragazzi italiani, tutti di origine siciliana.
Lì c’è un modo di stare insieme che è veramente la legge della jungla e passa attraverso il riconoscimento del capo, del più forte, di chi in quel momento, nel quartiere, è più stimato perché magari è più maschio, è più duro, è riconosciuto come uno "dritto". Insieme non fanno esperienze, non comunicano tra di loro, comunicano sempre attraverso le mani, o condividono la droga, o fanno piccoli affari. Quindi non sanno cosa vuole dire entrare in comunicazione, non perché non abbiano gli strumenti per farlo, ma semplicemente perché vivono delle situazioni, dentro le loro case, dove non c’è nessuno che li ascolti, non c’è nessuno che si interessi di loro, non hanno proposte, non ...[continua]
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