Nell’anno scolastico 1942-1943 fui iscritta alla prima elementare. La scuola “Umberto I” si trovava nel quartiere Prati, vicino al Palazzo di Giustizia; era uno degli edifici scolastici, tutti eguali, di cui Roma capitale ai primi del Novecento era stata dotata. La sezione ebraica era confinata all’ultimo piano; noi entravamo e uscivamo da un accesso diverso, e a orari diversi dagli altri bambini -che non abbiamo mai visto.
A parte le adunate in divisa e il catechismo, che non conoscevamo, i testi e i programmi erano identici a quelli del resto della scuola. All’inizio del libro di prima elementare si leggeva di Romano, uno scolaretto che nel primo giorno di scuola piagnucolava, perché aveva paura di allontanarsi dalla mamma. Lei gli diceva: “Ma… Romano non è un uomo!”; “Sì, sì, mamma!” rispondeva lui. “E allora?...” ironizzava lei. Romano si allineava agli altri bambini più coraggiosi e per il resto del libro ogni riferimento alle paure, alle incertezze, a ogni debolezza (anche solo dei bambini) spariva.
Le pagine successive alternavano le celebrazioni della terra, del pane e della vita contadina agli atti di fede nel coraggio virile, e nell’amore di Patria e del Duce. Altre volte, nell’ora di canto, frasi e parole ancora più forti uscivano dalle nostre bocche: “Per vincere, ci vogliono i leoni”; “Andiam, nel vasto mar/ridendo in faccia a Monna Morte ed al destino…”; “Colonnello, non voglio il pane, voglio piombo pel mio moschetto…”; “Camerati d’una guerra/camerati d’una sorte/chi divide pane e morte/non si scioglie nella terra…”. Un altoparlante collocato sopra la cattedra riportava quasi ogni giorno i bollettini di guerra del giornale radio e ogni tanto, in diretta, un discorso del Duce: ascoltato dal vivo, il linguaggio turgido del Regime confermava il suo dominio obbligatorio, già diffuso in tutti gli spazi pubblici.
In quel primo anno di addestramento alla lettura e alla scrittura devo aver pensato che quello fosse l’unico Stato, e quella l’unica scuola possibile: anche se poi capitava di restare disorientati dalla scoperta di avere violato qualche regola. Se ne dovette accorgere mio fratello che si divertiva, a voce spiegata ma in privato, a fare il verso ai discorsi di Mussolini. Aveva inventato un innocente grammelot, che con minime accentuazioni riproduceva suoni e rumori delle adunate oceaniche vere. Non mancava nulla: alle domande retoriche del Capo seguiva il boato delle risposte unanimi: Sììì!, o: Nooo! La finta trasmissione radio culminava con gli Eja, Eja, Alalà! e i DU-CE-DU-CE-DU-CE ritmati della folla nella piazza.
Fu scoperto, e rimproverato: senza tante spiegazioni ma con cauta fermezza gli fu detto di smettere: “Perché chi era sorpreso a scherzare sul Duce poteva essere messo in prigione”. Certi rischi si correvano, però, forse, pensai io, anche facendo sul serio, e non volendo prendere in giro nessuno: se a scuola avessi letto a voce alta dal sussidiario non: “i bambini odono la voce del Duce” come si doveva, ma per sbaglio: “odiano” ; se non avessi pronunciato a dovere le parole “tripudio”, o “destini” ; che punizione mi sarei attirata? Erano pericoli che avevo corso, forse: non ne parlai con nessuno.
Fino a che la perfezione del regime fascista non venne smentita, i miei dubbi -inespressi- rimasero sempre in sospeso; ma solo ora ho saputo da mio fratello che ne aveva anche lui; e anche lui senza mai averne voluto parlare. Un giorno, al parco, una signora che non conosceva lo aveva avvicinato chiedendogli se voleva più bene al Duce o al Re. Lui aveva risposto: “al Re”: risposta non fascistissima, e deludente, sembra, per la sua inquisitrice. Non sapendo bene spiegare la sua stessa risposta, trasgressiva forse, mio fratello non lo aveva raccontato neanche a me.
Anche allora, a sei anni, mi rendevo conto di quanto diverso il linguaggio del sillabario e della voce della radio fosse da quello di casa, semplice e diretto; ma proprio a casa la comunicazione era ogni tanto troncata da indecifrabili censure: se gli adulti si accorgevano che li stavamo ascoltando abbassavano la voce, o improvvisamente tacevano.
Ho sentito per la prima volta la parola “Varsavia” nel 1943; quando veniva pronunc ...[continua]
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