Laura Manassero insegna alla Scuola Media Croce-Morelli di Torino.

La cronaca delle ultime settimane ha riportato la scuola in primo piano, offrendo però un quadro a dir poco inquietante: presidi picchiati, genitori sempre più sindacalisti dei figli, violenza… Cosa sta succedendo?
Io ho lavorato sempre in realtà molto particolari, prima nei quartieri dell’immigrazione meridionale e poi, da 17-18 anni a questa parte, con gli stranieri, quindi ho una visione parziale della situazione.
La mia impressione è che negli ultimi anni si siano fatti alcuni errori educativi, e qui non parlo solo della scuola. Da tempo, infatti si denuncia come le grandi agenzie di un tempo, la famiglia, la scuola, il partito, l’oratorio, non educhino più. Oggi i ragazzi sono totalmente in balia di se stessi, e quindi dei media; tutti gli altri soggetti hanno perso potere o autorevolezza…
La percezione è che da un certo momento in avanti si sia avuto paura di tutto ciò che era collegato all’autorità, all’ordine, alla disciplina, e s’è fatto di tutta l’erba un fascio; il terrore della mia generazione era quella di passare per autoritari. E tutto ciò che era regola era autorità. Mi ricordo che quando ho cominciato a lavorare avevo degli amici, sessantottini puri, che bonariamente mi accusavano del fatto che nelle mie classi ci fosse sempre un discreto silenzio e un clima sereno. Un amico addirittura giunse alla conclusione che io ero evidentemente autoritaria "perché non c’è il caos in classe”.
Il fatto è che io, molto banalmente, nel caos non ho mai potuto lavorare, non mi è congeniale. Pertanto, nei contesti in cui opero, le regole ci sono, sono possibilmente condivise, e il resto se lo gioca l’autorevolezza dell’insegnante, che non deve avere paura di un ruolo che può anche essere forte. Perché la responsabilità, non dimentichiamolo, è dell’adulto.
Ecco, negli ultimi anni si è assistito a uno slabbrarsi del concetto di autorevolezza (che io uso senza timore), a cui è corrisposta una generazione molto arrogante e tendenzialmente vandalica. Mi sono imbattuta più di una volta in situazioni in cui l’allievo mi diceva, con tono deciso: "Ma chi si credono di essere questi adulti. Mica ci vogliono comandare!?”.
Fortunatamente lavoro in una scuola con un bel consiglio di classe e un team affiatato, con cui è possibile confrontarsi. Mi sembra che uno dei punti sia la presa di consapevolezza che per crescere servono dei riferimenti, che poi magari contesti. Quando c’è qualche tensione con i ragazzi, io lo ripeto spesso: "Prima obbedisci e poi mi contesti”. Cioè, devi prima passare dal concetto che c’è una regola, mi contesterai dopo. Altrimenti il rapporto con l’adulto diventa brutto, ma brutto per loro, perché poi se non c’è il riferimento c’è ansia e finisce che questi poveretti finiscono allo sbando…
Dicevi che lavorare in situazioni critiche ti ha insegnato molto. Puoi raccontare?
Ho cominciato a insegnare al quartiere Falchera con l’ultima immigrazione dal Sud, quella durissima, che non era inserita nemmeno nel luogo di provenienza; parlo di quartieri come lo Zen di Palermo, ecc.
Ebbene, la prima cosa che mi hanno insegnato quei ragazzi è che se fai l’adulto fai il "capo”, un’idea che decisamente non mi apparteneva.
C’era una ragazza -a 16 anni frequentava la terza media- con alle spalle un’esperienza di vita assai più grande di quella che avevo io, che all’epoca ne avevo 30. Andavamo d’accordo -in genere io non ho problemi a relazionarmi con i ragazzi; non è un merito, è proprio un dono, una vocazione forse. Ricordo che un giorno lei interruppe la lezione per chiedere: "Posso uscire?”. E io le dissi: "Abbiamo stabilito che se devi uscire puoi farlo, però non interrompere”. Lei ebbe una vera crisi di rabbia, cominciò a urlare: "L’insegnante è lei, è lei che dice se posso uscire o no”. Io non la capivo proprio: "Ma scusa, Franca, abbiamo stabilito delle regole” e lei, urlando, disperata: "E’ lei che deve dirmi se sì o no!”.
Per me fu uno shock, davvero, entrai in crisi. Fu lei, in seguito, a spiegarmi cos’era accaduto: se le avessi detto di sì, lei non sarebbe uscita perché non ne aveva bisogno; se le avessi detto di no, mi avrebbe contestato per vedere se io ero forte. E se io ero forte lei mi voleva bene.
Inutile dire che io in testa avevo tutt’altro modello, ben altri riferimenti pedagogici. In questo senso la lezione l’ho imparata sulla mia pelle. In fondo loro mi chiedevano una cosa molto se ...[continua]

Esegui il login per visualizzare il testo completo.

Se sei un abbonato online, clicca qui accedere, oppure vai alla pagina Abbonamenti per acquistare l'abbonamento online.
Gli abbonati alla rivista hanno diritto all'abbonamento online gratuito!