Andrea Gavosto è direttore della Fondazione Giovanni Agnelli.

Nell’ultimo anno e mezzo, a causa del Covid-19, la scuola italiana ha dovuto affrontare la più grave emergenza educativa dalla Seconda guerra mondiale. Dopo una lunghissima sospensione dell’insegnamento in presenza, durata dall’8 marzo al 14 settembre del 2020, con problemi solo parzialmente mitigati dall’adozione generosa, ma improvvisata, della didattica a distanza, anche nell’anno accademico 2020-21 il sistema scolastico ha avuto percorsi travagliati, con parziali ritorni in aula e lunghe fasi a distanza: in particolare, nelle scuole secondarie di primo e secondo grado gran parte degli insegnamenti sono stati offerti prevalentemente online. La qualità della didattica è stata del tutto inadeguata, replicando in video la tradizionale impostazione trasmissiva, come risulta dall’indagine sulla DaD svolta dalla Fondazione Agnelli e dall’Università di Cagliari (https://www.fondazioneagnelli.it/2021/07/09/la-dad-alle-scuole-superiori-nellanno-scolastico-2020-21-una-fotografia/). I risultati Invalsi di luglio hanno confermato la gravità del danno procurato dalla pandemia: in quinta superiore, al termine del ciclo scolastico, gli studenti hanno perduto in media -rispetto al 2019- dieci punti in italiano e nove in matematica, equivalenti a oltre cinque mesi di scuola in meno rispetto alle coorti precedenti. È chiaro che la priorità dei prossimi anni sarà quella di recuperare la perdita di apprendimenti, oltre a quella delle competenze sociali ed emotive che oggi non siamo ancora in grado di quantificare.
Per farlo occorre affrontare rapidamente alcuni nodi storici del nostro sistema scolastico. Il virus, infatti, non ha creato problemi veramente nuovi, ma ha semmai accentuato alcune storiche lacune del nostro sistema: una didattica spesso superata e certamente da rinnovare, processo che però viene rallentato da seri limiti di formazione dei docenti; divari territoriali e sociali che hanno portato per alcuni gruppi di studenti e in alcune aree del paese a un incremento della povertà educativa; carenze e disomogeneità organizzative nelle istituzioni scolastiche, in relazione alla difforme qualità della gestione dell’autonomia; regole di governo confuse e una congenita difficoltà di dialogo fra i diversi livelli e ambiti della pubblica amministrazione (come hanno dimostrato i problemi sul fronte dei trasporti pubblici, fondamentali per garantire la sicurezza del sistema scuola); invecchiamento e spesso anche decadimento degli edifici scolastici, e così via.
Il nodo più urgente e delicato è però quello del reclutamento e formazione dei docenti, cruciale per il buon funzionamento della scuola. Il sistema di assunzione e di formazione iniziale dei docenti in Italia è giunto a un’impasse: da un lato, infatti, solo la metà dei posti di ruolo messi a disposizione è stata coperta negli ultimi quattro anni; dall’altro, il numero di insegnanti assunti a tempo determinato -tipicamente da settembre a giugno- nel 2020-21 ha superato le 200.000 persone, nonostante l’intenzione dichiarata da molti governi di eliminare una volta per tutte il fenomeno del precariato nella scuola. Com’è possibile che così tante cattedre rimangano vuote, pur essendovi moltissimi supplenti in attesa da tempo di un posto di ruolo? La risposta è apparentemente semplice, anche se deflagrante per il nostro sistema scolastico: perché i docenti in lista di attesa non hanno le caratteristiche, geografiche o di classe di concorso, che rispondono alle necessità delle istituzioni scolastiche. In altre parole, mentre le scuole del nord hanno, ad esempio, bisogno di insegnanti di matematica, fra i potenziali candidati che posseggono i requisiti per assumere un posto di ruolo si trovano prevalentemente soggetti specializzati in discipline umanistiche, risiedenti al sud. Questo è il fenomeno noto come mismatch territoriale o disciplinare. La causa principale è che i due canali di assunzioni previsti dalla legge -concorso nazionale e graduatorie provinciali a esaurimento- sono di fatto prosciugati. L’assenza di candidati con i requisiti previsti dalla legge è il principale motivo per cui sempre più cattedre messe a bando rimangono vuote; di conseguenza gli istituti sono costretti ad attivare contratti di lavoro a tempo determinato.
Per porre rimedio a questa situazione, ogni intervento dovrebbe separare i due momenti dell’abilitazione e dell’assunzione: la prima dovrebbe infatti verificare ...[continua]

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