Elisabetta Farina lavora presso la Neuropsichiatria Infantile di Seregno, Silvia Taini lavora al Centro Psicosociale di Cesano Maderno, Francesca Maci è assistente sociale presso il Comune di Seveso, Monica Lopatriello è assistente sociale nel Comune di Segrate, Dario Colombo, già assistente sociale, è formatore.

Nell’immaginario la figura dell’assistente sociale continua a essere associata al dramma dell’allontanamento dei bambini…
Silvia Taini. Se penso all’immaginario che ruota attorno all’assistente sociale, mi vengono in mente dei flash, dei film, ce ne sono a bizzeffe… ed è sempre la figura che impone delle cose a qualcun altro, senza ascoltare, senza guardare. Non so perché prevalga questa immagine, me lo sono chiesta tante volte. Ogni tanto mi rispondo che c’è bisogno di un capro espiatorio e l’assistente sociale è comoda, però così è un po’ semplicistico. Credo anche che noi abbiamo fatto poco per valorizzare la nostra professionalità al di fuori dell’ambito del nostro lavoro, forse perché siamo prevalentemente donne, per cui tendenzialmente ci disperdiamo in tanti rivoli: il lavoro, i figli, i genitori che invecchiano, la famiglia, non lo so...
Betty Farina. Sì, da un lato le assistenti sociali portano via i bambini, ma dall’altro, quando succedono fatti gravi, subito si sente chiedere: “Ma dov’erano le assistenti sociali?”.
Monica Lopatriello. Io lavoro proprio nella Tutela Minori di Segrate. Sono stata inserita in questo progetto, a partire dal ritiro delle deleghe sulla tutela minori, quando il Comune si è riappropriato di questa competenza. Lavoro lì dalla fine del 2002 e mi sono sempre occupata di tutela, e quindi di minori con provvedimenti dell’autorità giudiziaria. Per me è stato decisivo il fatto di avere a fianco persone con più esperienza, essere inserita in un contesto di équipe, che non prevedeva decisioni intraprese in autonomia, con la presenza di diverse tipologie di operatori e anche un “pensiero integrato” a livello sociale, psicologico, rieducativo. Questa esperienza purtroppo col tempo si è un po’ disgregata, perché sono intervenute delle modifiche dall’esterno, è subentrato il livello politico, mandando all’aria, in un certo senso, un intervento che con tutte le sue pecche, comunque era ben strutturato.
D’altra parte, io stessa nel tempo ho riconosciuto un aspetto politico, all’interno di questo percorso, ma nel senso ampio del termine, cioè come contributo ad un cambiamento culturale e sociale, di cui non ero consapevole inizialmente.
Francesca Maci. Credo che dietro a tutto questo ci siano dinamiche intricate. C’è una censura del dolore e della sofferenza, è come se fosse una cosa da tenere lontana e allora quando si sente parlare di abuso e di maltrattamento la prima reazione è sgranare gli occhi e reagire: “No, basta, non mi raccontare altro, non ci posso credere…”. Così in qualche modo noi fungiamo anche da delega verso qualcosa che suscita un senso di rifiuto, appunto di incredulità. Per questo è così importante riportare la questione dei minori alla comunità intera, anche come forma di responsabilizzazione… La malattia mentale, la sofferenza, il dolore non riguardano solo i servizi e le assistenti sociali. Purtroppo è più facile addossare tutte le colpe sull’assistente sociale -una carampana che non sa fare il suo lavoro- piuttosto che pensare che il disagio, con la sua parte di ignoto e insondabile, fa parte della vita di noi tutti.
Monica. In qualche modo l’idea che ci sia l’abuso o il maltrattamento è qualcosa di intollerabile, non è considerata una delle tante opzioni della vita, ma viene vista come una mostruosità, una cosa che non appartiene al genere umano. Forse anche per questo gli operatori sociali finiscono per essere dei parafulmini: o non si accorgono o intervengono in maniera inadeguata… Bisognerebbe tenere a mente che in fondo ciascuno di noi si può trovare -in un momento della vita o per una circostanza casuale- ad essere la vittima o il carnefice, il sano o il malato, l’utente o l’operatore.
Betty. Io comunque mi accorgo di aver in qualche modo rimosso o cancellato alcuni allontanamenti, probabilmente perché sono stati davvero sofferti. Ricordo il primo, di Bovisio: una ragazzina psicotica, che era abusata dal padre e dagli amici del padre, con una madre insufficiente mentale, epilettica, che sveniva ogni tre per due e lei che, a modo suo, ci aveva fatto capire quello che stava vivendo, e quindi allontanamento forzato.
Forse, p ...[continua]

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