Com’è nata l’idea di realizzare questi laboratori teatrali?
Non conoscevo l’Africa, ero stato solo nell’area settentrionale di quel continente, in quella araba, e sono due mondi completamente diversi. Quindi era la prima volta che andavo in un posto lontano da tutte le mie esperienze. Devo dire che in quel periodo provavo anche una sorta di stanchezza rispetto al teatro che si faceva qui, era un momento di disagio. Di qui la voglia di tornare a misurarmi col teatro delle mie origini, che era stato sempre tra i ragazzi, a Genova alla fine degli anni ’70 e anche a Roma tra i ragazzi disagiati con problemi familiari.
Insomma, desideravo sentirmi utile. La sensazione, la sera, dopo il teatro, di rivedere sempre le stesse persone mi frustrava; ero anche in crisi rispetto al modello narrativo, nel senso del teatro civile che racconta una vicenda e suscita indignazione: avevo la sensazione che non funzionasse, che non mi interessasse più molto.
Una sera, grazie a Giuseppe Cederna, un attore mio amico, ho conosciuto Giulio Cederna; siamo andati a cena assieme, mi ha parlato di Amref, African Medical and Research Foundation, e ho deciso di accettare la sua offerta di collaborazione.
Così è nata l’esperienza di “Pinocchio Nero”, che è stata la conclusione di un primo laboratorio che ho realizzato con venti ragazzi legati al Centro di Accoglienza di Amref di Nairobi; ragazzi che quindi qualche volta mangiavano, che avevano un minimo di assistenza, insomma, non li ho scelti dalla strada.
Con questi ho realizzato un lungo percorso tra il 2002 e il 2004 in diverse tappe (ogni due o tre mesi andavo giù). All’inizio non era previsto uno spettacolo. Il tema di fondo del “Pinocchio Nero” è quello dell’identità.
E’ stata un’ esperienza molto dura e spesso ho avuto la sensazione di non farcela, come se si fossero intromessi troppi ostacoli, mi veniva voglia di mollare. Stavo lì e mi chiedevo: perché non vado a lavorare in un campo Rom vicino a Roma, tanto più che anche in Italia i problemi ci sono... Però in fondo avevo bisogno di sentirmi “straniero”. In questo senso mi ha fatto bene trovarmi in una situazione in cui anche tutte le aspettative teatrali che comunque incameri -cioè le abitudini, il modo di ragionare, il modo di produrre, di pensare creativamente soprattutto- fossero spiazzate anche dalla geografia, dal paesaggio, dagli incontri, dalla lingua, da un’antropologia che non corrisponde alla nostra...
Ecco, questo spiazzamento mi è stato utilissimo, nel senso che è stato come una cura. E’ stato anche una rinascita di pensiero teatrale per me.
L’“Amore Buono” invece parla dell’Aids. Puoi raccontare?
Ovviamente sapevo del dramma dell’Aids in Africa anche prima di andarci. Stando lì però ti rendi conto proprio dell’assoluta vicinanza di questa malattia, della possibilità che persone a te care -nel corso dell’esperienza è morto, per esempio, uno degli operatori del Pinocchio Nero- vengano colpite.
Volevo far qualcosa e pensavo a un teatro di controinformazione come si faceva una volta; l’idea nasceva anche dal desiderio di Amref di provare a lavorare in modo diverso sul tema dell’Aids: non solo da un punto di vista sanitario, ma anche comportamentale, umano insomma. L’obiettivo era una controinformazione che toccasse anche il tema dell’educazione, del formare oltre che dell’informare.
Così è partito un nuovo progetto con venti adolescenti. All’inizio erano quasi tutti maschi, c’era solo una ragazza, poi però ne sono state inserite altre tre.
Questa volta l’esperienza, oltre che più intensa, è stata anche più faticosa. Intanto erano tutti adolescenti di strada con un destino quasi segnato, perché avevano già compiuto 14-15 anni, alcuni addirittura 17 o 18.
Molti non sarebbero mai più tornati a scuola (i ragazzi del Pinocchio Nero avevano ancora la speranza di tornare a studiare e fortunatamente alcuni sono tornati a scuola). Poi perché la presenza di ragazze, anche se alla fine si è rivelata meravigliosa, all’inizio ha creato molti timori. E poi c’era la densità dei temi: l’amore, il sesso, la malattia...
Comunque, come dicevo, io sono arrivato lì con l’idea di fare un teatro di controinformazione: sul numero dei morti, su come si usa il preservativo, sul fatto che l’Aids sia una malattia e non una malediz ...[continua]
Esegui il login per visualizzare il testo completo.
Se sei un abbonato online, clicca qui accedere, oppure vai alla pagina Abbonamenti per acquistare l'abbonamento online.
Gli abbonati alla rivista hanno diritto all'abbonamento online gratuito!