Lei si occupa di rifugiati da oltre trent’anni. Può intanto spiegarci chi è un rifugiato?
Quando parliamo di rifugiati parliamo di persone che sono costrette a fuggire dal proprio paese per motivi che sono elencati nella definizione universale del rifugiato contenuta nel primo articolo della Convenzione di Ginevra del 1951 in base al quale il rifugiato è colui che "temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova fuori del paese di cui è cittadino e non può o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo paese; oppure che, non avendo cittadinanza e trovandosi fuori del paese in cui aveva residenza abituale a seguito di tali avvenimenti, non può o non vuole tornarvi”.
La prima osservazione è che il parametro per dire chi è un rifugiato è in ogni caso la situazione nel paese di origine, non del paese di transito. Questa non è contemplato né nella normativa internazionale né in quella comunitaria o italiana, quando parliamo della protezione internazionale dei rifugiati. Poi parleremo della conseguenza di questa limitazione perché nel caso della Libia ci troviamo di fronte a un bel problema.
Quindi, per rispondere alla domanda, vorrei sottolineare che, quando parliamo di rifugiati, parliamo di persone che devono fuggire dal proprio paese. A differenza degli immigrati per motivi economici, che cercano prospettive di vita migliori altrove, nel rifugiato c’è questa nozione della costrizione, di assenza di alternative: bisogna scappare per salvaguardare la propria vita, la propria libertà. La molla non sono motivi economici, ma la violazione dei diritti umani elementari in un contesto in cui manca completamente la protezione dello Stato di appartenenza.
La convenzione di Ginevra introduce infatti il concetto di "protezione internazionale”, che va a sostituire quella protezione che il proprio Stato di appartenenza non può o non vuole dare.
Quindi subentra un approccio, una solidarietà internazionale, sulla base però di un criterio. La protezione, cioè, viene concessa con un filtro, una sequenza di passaggi. Si parla infatti di "procedura d’asilo”, alla fine della quale si assegna o meno lo status di rifugiato.
Apro una parentesi: nella stampa, nei media, spesso di parla di profughi. Questo è un termine che noi cerchiamo di evitare perché il profugo non ha una definizione giuridica. Ci sono i profughi italiani dalla Libia che, dopo l’arrivo di Gheddafi, in decine di migliaia, vennero espulsi e arrivarono qui appunto come "profughi”; ci sono stati anche i profughi dall’Istria dopo la Seconda guerra mondiale. Ma è evidente che non possiamo parlare di rifugiati perché si trovano nel proprio paese. Il rifugiato, come da definizione, è una persona che si trova fuori dal proprio paese.
Quindi profugo è una situazione molto generica senza una vera connotazione di diritti, di status giuridico.
Può spiegarci cos’è il "Regolamento Dublino” e perché secondo lei mette a repentaglio i diritti del rifugiato?
Il viaggio del rifugiato spesso non ha una destinazione chiara: l’importante è fuggire non importa dove. Friday l’ha spiegato bene raccontando la fuga dalla Libia: "Io non sapevo dove saremmo andati e forse neanche mi interessava”. In altri casi la destinazione è ben precisa. Molte delle persone arrivate l’anno scorso a Lampedusa non avevano intenzione di rimanere in Italia. Magari avevano un familiare in Germania, in Svezia, Olanda o in altri paesi. Se lei domani dovesse lasciare il suo paese, dove andrebbe? Andrebbe dove conosce qualcuno.
È normale cercare qualcuno nel proprio ambiente in termini di famiglia, di lingua eccetera, anche semplicemente per avere qualcuno che ti dà una mano. L ...[continua]
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