Abbiamo letto il suo contributo sull’ultimo numero 2012 della rivista "Le regioni” del Mulino, in cui lei fa un’analisi -che alcuni commentatori, all’interno dello stesso numero monografico, hanno definito "impietosa”- della doppia impasse (o della vera e propria crisi) in cui regioni e regionalismo si dibattono.
La crisi delle regioni è una crisi di ruolo, è una crisi di funzioni, è una crisi di significato dovuta a vari fattori. Il primo di questi riguarda la sostanziale identificazione/equivalenza, per lungo tempo considerata del tutto pacifica e di cui le regioni sono figlie per intero, fra interesse generale e interesse pubblico. Finora, nel momento in cui emergeva un interesse di natura generale, automaticamente si riconosceva la necessità di una presenza del "pubblico”, che poi poteva agire indirettamente appoggiandosi ai privati in varie forme, ma che comunque ne manteneva il governo saldamente in mano propria, la mano pubblica appunto. Ecco, questa equivalenza (che vale a definire l’ampio perimetro del "pubblico”, in cui necessariamente si colloca anche il rapporto centro-periferia), negli ultimi tempi, è saltata.
Questo fatto potrà piacere, non piacere, dove porterà non sappiamo, ma certamente è successo, a causa, da una parte, di una forte spinta di tipo liberistico messa in moto dall’idea che "meno pubblico c’è e più è probabile che si riesca a far bene le cose anche in termini di interesse generale”, ma anche perché, comunque, la complessità delle nostre società ha fatto emergere una vasta terra intermedia fra il singolo privato e il pubblico, nella quale agiscono soggetti sì privati ma impegnati per la cura di interessi non egoistici, quindi collettivi, quindi comunitari e, qualche volta, generali.
Ora, questi due aspetti, da un lato la cosiddetta sussidiarietà orizzontale (la parte dell’art. 118 ultimo comma Costituzione), dall’altro, l’affidamento al mercato, il passaggio al mercato, realizzato o tentato, che non è esattamente la stessa cosa, di funzioni per l’innanzi esercitate esclusivamente dal pubblico, hanno messo in discussione un pubblico che risulta, quantomeno in termini quantitativi, più ridotto, ma soprattutto, un pubblico che deve ripensare le sue funzioni sotto il profilo qualitativo.
E le regioni, collocate fra un centro e una periferia che da sempre ha avuto a che fare con ciò che non è pubblico (la società, la comunità, le imprese, eccetera), si sono trovate particolarmente in difficoltà nel ridefinire il proprio ruolo. Non dimentichiamo che la regione è costruita nella Costituzione come l’unico segmento del sistema pubblico totalmente estraneo all’area privata: senza voce in capitolo nell’attività industriale, mentre in quella economica rientrava "di rimbalzo”, come si dice, per l’artigianato e l’agricoltura, cioè per i settori soltanto locali e soltanto per la parte regolativa degli stessi. Alle regioni si impediva addirittura di costituire società per azioni, tanto era rigorosamente pubblico il perimetro del loro operato. Quindi, da un punto di vista concettuale, è evidente come esse possano aver risentito di una rimessa in discussione dei confini del "pubblico”; ma da un punto di vista strettamente tecnico le conseguenze sono state ancora più significative, perché le privatizzazioni hanno messo fuori asse il sistema dei relais costruiti sulle regioni. Le regioni sono attaccate al centro e parlano alla periferia tramite le leggi e tramite l’amministrazione, con un sistema di controlli; nel momento in cui si esce dall’area pubblica e si va verso il privato, le regole del privato sono disciplinate dal codice civile, da altri giudici, da altri livelli e sostanzialmente tutto è centralizzato: non ci sono tanti codici civili quante sono le regioni, ce n’è uno solo, mentre ci possono essere più leggi regionali in materia di amministrazione.
Le altre cause della crisi che lei ricordava nel suo saggio sono il sovraffollamento istituzionale e l’immutabilità del centro...
Sì. Il sovraffollamento delle istituzioni è un problema certamente deprecabile e molto serio, ma non è una causa, è un effetto. Quanto più sono le istituzioni che fanno le stesse cose, tanto più finiscono per bisticciare, sovrapporsi, sprecare e, quel che è più grave, pretendere di svolgere una funzione, e se non c’è la inventano ricalcando pez ...[continua]
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