Alberto Cavaglion, studioso dell’ebraismo, insegna all’Università di Firenze.

Anni fa hai scritto La Resistenza spiegata a mia figlia. Come si racconta a un giovane di oggi il fascismo, la Resistenza, la Shoah?
La pubblicazione di La Resistenza spiegata a mia figlia risale al 2005. All’epoca esistevano ancora degli steccati, una parvenza di interesse, di passione, ma anche rigidezze, per cui era molto difficile discorrere di queste cose, cercare di semplificarle senza scendere nella banalizzazione. Nel 2005 per me sarebbe stato molto più facile scrivere "la Shoah spiegata a un adolescente” che non parlare della Resistenza.
In questo ultimo decennio si è tutto un po’ frantumato, sciolto; è cresciuto moltissimo il disinteresse e se nel 2005 sperare di cogliere, di captare l’attenzione di un adolescente,era già una missione impossibile, oggi mi sembra una missione quasi disperata. Intanto sono passati dieci anni e il distacco generazionale si è ulteriormente approfondito. Poi è caduta ogni forma di steccato, si può dire di tutto di più, non c’è più quella resistenza ideologica che nel 2005 era ancora molto forte. Molte delle cose oggi date per scontate allora erano argomenti tabù: il tema della violenza, il tema del rapporto tra scelte individuali e politiche erano molto difficili da affrontare. Comunque oggi prevale soprattutto un disinteresse generale, a fianco del quale, però, secondo me sta venendo fuori un fenomeno curioso e anche un po’ ambiguo, una sorta di metonimia storiografica. La parola è molto professorale, tecnica, ma significa che ciascuno racconta una parte del tutto, pensando così di esaurire il tema. Nel caso della Resistenza si analizzano casi estremi, la Resistenza perfetta oppure la Resistenza totalmente imperfetta, le pagine più oscure. I sottotitoli di questi libri tuttavia riportano "la storia della Resistenza”. Si pensa insomma che, raccontandone una parte -o la perfezione ideale o l’abominio, la vergogna, l’oscuro, il grigio- si esaurisca il discorso completo. È questo che i linguisti chiamano metonimia: racconto la parte per descrivere il tutto. E questo vale per la Resistenza, ma anche per la storia del fascismo e della deportazione.
Il fatto è che quando si propone a un adolescente un tema vasto come il fascismo o la Resistenza, l’ambizione dovrebbe essere di dargli un quadro completo, di esaurire la complessità delle angolature. Limitarsi a un aspetto mi sembra un segno dei tempi.
Nel caso del fascismo, pesa sicuramente il ritardo con cui abbiamo esaminato e fatto i conti con il regime nella sua totalità. Io appartengo a una generazione che si è formata negli anni Settanta e i miei fratelli maggiori mi spiegavano che parlare di fascismo significava parlare dei repubblichini.
Tutto quello che riguardava le biografie delle persone cresciute nelle prima metà del Novecento partiva dal ’43. Di ciò che quelle persone avevano fatto dal ’22 al ’43 non si parlava.
Tutti, vittime incluse, gli ebrei in primis, hanno tardato tantissimo a riconoscere che fosse esistito un fascismo ebraico, che le biografie di tanti partigiani avessero avuto una prima fase, un primo atto. Qualcuno, per la verità, lo diceva già negli anni Settanta, Isnenghi tra i primi, ma erano voci isolate. La storiografia prevalente ha dato per scontato questo luogo comune: il fascismo è il biennio repubblichino. Questo approccio ha reso quasi impossibile spiegare che invece è stata una malattia profonda che ha condizionato tutti gli strati della società italiana, vittime incluse. Tutto questo pesa ancora oggi perché ci trasciniamo dietro un ritardo cronico che è difficile da colmare.
Dicevi che la metonimia è segno dei tempi.
Intendiamoci, la metonimia è un’anomalia. Tutte le politiche storiografiche della memoria in Italia nella Seconda guerra mondiale sono molto interessanti, perché, se le si vuole guardare con franchezza e un pizzico di spregiudicatezza, risultano strane. Oscillano, l’ho scritto tante volte, tra i vuoti o i pieni, o il troppo o il nulla.
Uno studente di oggi che faccia le scuole superiori viene da dieci anni di commemorazione della Giornata della memoria e sa cosa vuol dire la parola Shoah. Venti, trent’anni fa la parola Shoah non la usava nessuno. Le leggi razziali fino al 1988 costituivano un vuoto totale di memoria. Ecco, oggi assistiamo a un eccesso, perché la memoria della Seconda guerra mondiale è fortemente condizionata dalla depo ...[continua]

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