Edoardo (Eddi) Preger, architetto, già sindaco di Cesena, è figlio di Giorgio, che nel 1947 insieme a due soci ha fondato l’Algida.

Mio padre in casa c’era poco, lavorava sempre, ma era un uomo molto dolce, tra noi c’era un forte rapporto affettivo. A un certo punto della mia vita mi ha mandato una lunghissima lettera, molto bella, in cui sostanzialmente mi raccontava la sua vita ed esprimeva il rimorso di non averci mai dato un’educazione religiosa. Era una specie di confessione. Le informazioni sulla vita dei miei genitori arrivano soprattutto da questa lettera, perché delle loro vicende passate loro hanno sempre parlato pochissimo. Più che altro ci trasmettevano delle emozioni: mia mamma sospirava quando pensava alla fuga dalla Croazia. Dei miei nonni, so solo che quello materno è morto in un campo di concentramento in Yugoslavia, mentre quello paterno è stato ucciso dai fascisti croati. Quella storia i miei genitori un po’ l’hanno rimossa, un po’ non ne volevano parlare.
La parte della storia che conosco più direttamente riguarda la fabbrica, però sono ricordi da bambino; poi negli anni mi sono documentato. Diciamo che la storia che ho ricostruito è fatta di impressioni, informazioni recuperate qua e là, e narrazione familiare, cose che si raccontavano in casa, compreso qualche piccolo mito.
Mio padre era nato nel 1914 a Zagabria. Mia nonna paterna veniva dall’Ungheria, suo padre invece era croato, all’epoca entrambi sudditi dell’impero austroungarico. Erano sarti, appartenevano alla piccola borghesia ebraica. La loro ambizione era che il figlio continuasse l’attività di famiglia.
Da giovane mio padre era stato molto attivo nei circoli sionisti; era in contatto con l’organizzazione Hashomer Hatzair, di ispirazione socialista, che organizzava l’immigrazione in Israele. Dai 13 ai 17 anni aveva fatto parte della redazione di un circolo letterario, criticato perché troppo orientato a sinistra: volevano sostanzialmente che il sionismo incorporasse il socialismo, e che questo ne diventasse l’elemento connotante. Anche per questo entrarono in conflitto con l’organizzazione, che invece si stava distaccando dalla Terza internazionale; in tanti si dimisero e anche lui finì per allontanarsi. Alcuni suoi amici diventarono comunisti, e andarono anche a combattere in Spagna. Lì morì la sua prima fidanzata.
Lui invece si iscrisse alla facoltà di ingegneria; dopo la laurea, diventato ingegnere, trovò lavoro nelle ferrovie a Belgrado. In seguito tornò a Zagabria per sposarsi con mia madre, che veniva da un paesino. Questo fino all’arrivo dei nazisti.
Il 9 aprile 1941, alla vigilia dell’occupazione tedesca, furono avvertiti che sarebbe stato meglio scappare; a Zagabria c’erano i delatori, in contatto con gli ustascia, i fascisti croati, e volevano impossessarsi di casa loro. Quando tornarono il giorno dopo per prendere le ultime cose, la casa era già occupata. Fuggirono subito per l’Italia, dove furono internati per due anni ad Arzignano, nel vicentino.
C’erano mio padre, mia madre, mia nonna e la sorella di mia madre. Arrivati come profughi, praticamente senza soldi, vennero aiutati dalla Croce Rossa. Mi hanno raccontato di essersi trovati bene; la gente del posto era generosa, cordiale. Mio padre aveva italianizzato il suo nome, Yuri, in Giorgio, e si era messo a dare ripetizioni di matematica. Stando ai loro racconti, aveva iniziato a studiare l’italiano in treno con una copia de "I promessi sposi” e un dizionario. Aveva una grande facilità di imparare le lingue, ne parlava almeno sette: con la mamma parlava ungherese, poi sapeva il croato, il tedesco, che era obbligatorio a scuola, e l’inglese; in seguito aveva imparato anche il francese e  l’ebraico... Ascoltare i miei genitori al telefono era un divertimento. Cominciavano con l’italiano, poi passavano al croato, poi al tedesco, poi tornavano all’italiano...
Dopo l’8 settembre del ’43 mio padre si introdusse in un commissariato per rubare dei documenti. Questo episodio mi ha fatto sempre molta impressione: lui era una persona assolutamente mite. Assunsero una falsa identità, e tutti insieme attraversarono le linee col treno. Si volevano avvicinare agli alleati che salivano da Sud e, invece, arrivati a Roma, incapparono nell’occupazione tedesca.
Restarono nascosti parecchi mesi in un convento di suore tedesche al Gianicolo, che sapevano benissimo chi fossero. Questo fino alla liberazione di Roma, nel giugno del 1944. Il giorno dop ...[continua]

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