Cosa sta accadendo di nuovo nel mondo del lavoro in Francia?
Due sono le novità principali degli ultimi anni: la riduzione collettiva del tempo di lavoro nelle imprese e la creazione di lavoro al di fuori di queste, nel cosiddetto terzo settore.
Per quanto riguarda il primo punto, in Francia la situazione è cambiata in seguito all’approvazione della legge Robien nel 1996. Prima di questa legge, parlare di riduzione dell’orario era tabù, perché si pensava che legare i miglioramenti di produttività alla riduzione, lenta e progressiva, del tempo di lavoro non creasse nuovi posti di lavoro, ma andasse solo a vantaggio di chi lavorava già. Per questo ho sempre sostenuto che la riduzione collettiva dell’orario non risponde al bisogno di nuovi posti di lavoro che le nostre società hanno. E per crearli non basta ridurre progressivamente l’orario, occorre fare un salto. E se si fa un salto, bisogna vedere chi paga, chi ci guadagna... La riduzione generalizzata e collettiva del tempo di lavoro rappresenta una soluzione ai problemi del mercato del lavoro solo per un sindacalismo tradizionale che difende unicamente se stesso. Adesso, la sinistra francese rivendica le 35 ore collettive per tutti. Ma misure collettive e generali rischiano di favorire alcune imprese piuttosto che altre, che, per esempio, non possono ridurre l’orario perché esposte alla concorrenza internazionale. Inoltre, parlare di misure collettive e generali non è semplice, perché bisogna negoziare per categorie professionali.
Invece della riduzione collettiva dell’orario di lavoro, mi sembra più utile sostenere l’idea del "secondo assegno". Mi spiego: se si vuole ridurre in maniera drastica l’orario al fine di creare posti di lavoro, si crea forzatamente un problema di denaro. Perché questa misura si realizzi, occorre che non costi molto alle imprese e non riduca troppo il salario dei lavoratori. Dunque, se si vuole ridurre l’orario di lavoro, bisogna finanziare la differenza, non a livello delle imprese, ma tramite un meccanismo redistributivo.
In futuro, tutti dovrebbero ricevere due assegni, il primo come salario tradizionale e il secondo come finanziamento della differenza di orario. Ma quest’ultimo non dovrà essere pagato né dalle imprese né dai salariati.
Da dove verrà allora il denaro necessario per questo secondo assegno?
Ho avanzato due proposte in merito. In primo luogo, ci si può servire del fondo per la disoccupazione: se si riduce la disoccupazione, si smobilizzano risorse che possono essere impiegate per finanziare la riduzione dell’orario. Inoltre, si possono aumentare le tasse per la semplice ragione che, in prospettiva, le nostre società produrranno più ricchezza con meno tempo di lavoro, per cui il surplus di ricchezza così prodotto potrà essere usato per finanziare la riduzione dell’orario. Questa, sommariamente, è la mia proposta.
Ora, la legge Robien, così chiamata dal nome del deputato gollista che l’ha presentata, realizza più o meno quanto sostengo. Questa legge, infatti, prescrive che, se un’azienda riduce l’orario a 35 ore settimanali, quindi almeno del 10%, e, così facendo, assume disoccupati, in una misura pari al 10% degli effettivi, lo Stato la finanzia, esonerandola dal versamento dei contributi sociali per il 30% dell’importo. Se poi un’azienda riduce del 15% l’orario di lavoro, assumendo nuovo personale pari al 15% degli effettivi, lo Stato la finanzia, esonerandola per il 50% dai contributi sociali. Questa legge è importante perché tiene conto di quanto si verifica concretamente nelle imprese. Attualmente, le imprese preferiscono una manodopera flessibile nell’arco dell’anno in base ai ritmi di produzione, perché così non pagano gli straordinari. Per i salariati, invece, la flessibilità non è vantaggiosa proprio perché perdono lo straordinario e devono adattarsi a ritmi diversi di lavoro nell’arco dell’anno. Ora, se si proponesse l’annualizzazione, con il passaggio a 32 ore settimanali, il salariato potrebbe accettare una piccola diminuzione del proprio stipendio.
Rimane però da capire se questa misura crea posti di lavoro…
Dipende dai casi: in molte imprese il personale è passato da cinque giorni lavorativi la settimana a quattro, ma non si sono creati nuovi posti perché in quattro giorni si fa quel che prima si faceva in cinque. L’i ...[continua]
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